Il diritto ad abitare in città è sempre più ineguale, soprattutto in lockdown

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    Sono e sarò sempre una ragazza di città. Come tante bambine napoletane, i miei contatti con la natura si limitavano (e non era poco) a riempirmi gli occhi e i polmoni di mare. Un giorno alle elementari ci chiesero di disegnare la nostra città ideale, e mio padre conserva ancora il disegno che portai a casa. Il mare c’era sempre, blu e incommensurabile, c’erano i castelli, i palazzi e le colline, ma un verde intenso aveva invaso la Napoli della mia infanzia.

    Oggi vivo nel Regno Unito, dove 27 milioni di persone hanno un giardino privato. Io non ce l’ho, con i prezzi del mercato immobiliare londinese non me lo posso permettere, e non sono la sola. Ma vivo a Islington, un quartiere composito dove l’edilizia popolare si alterna a villette giorgiane, e l’amministrazione locale ha più risorse di altre. Durante il primo lockdown, i rigogliosi giardini pubblici della mia zona mi hanno letteralmente permesso di respirare. A giugno io e il mio compagno abbiamo scritto una lettera di ringraziamento ai giardinieri e alle giardiniere che si prendono cura del parco pubblico sotto casa, facendogliela trovare nel capanno degli attrezzi. Ci pareva il minimo, in tempi di retorica sui ‘lavoratori essenziali’, dove l’aggettivo è interpretato come mero sinonimo di produttività economica – basti guardare alle esternazioni dell’ineffabile Toti.

    Di polmoni verdi, di contatto con la natura, abbiamo tutte e tutti bisogno, soprattutto ora. Non si tratta di un lusso, ma di un bisogno essenziale.

    Da ieri, l’Inghilterra è nuovamente in lockdown. Le giornate sono più brevi che in primavera, inizia a piovere e a far freddo, e tanti parchi chiudono al calar del sole. Vivendo in un piccolo appartamento, mi mancheranno moltissimo alcuni piccoli riti salvagente dello scorso marzo, come la corsetta serale al parco dopo una giornata di lavoro casalingo. Lo scrivo nella piena consapevolezza dei miei privilegi: c’è chi neppure l’affitto del piccolo appartamento può permettersi, chi il lavoro lo ha perso o non lo ha mai avuto, e chi vivendo in città meno verdeggianti di Londra (o in parti diverse della stessa metropoli) ha da sempre poco accesso a sacche di natura urbane.

    Ho letto da qualche parte che la battaglia ecologista senza lotta di classe non è altro che giardinaggio – una battuta sagace che illustra come, per salvare il pianeta dalla crisi climatica, non si possa prescindere dalla constatazione che alcuni gruppi, popoli, categorie sociali pagano lo scotto dell’emergenza ambientale ben più duramente di altri. Ma anche il ‘giardinaggio’, o meglio il lavoro di riqualificazione e cura dello spazio urbano, e gli investimenti pubblici in questo campo, si intrecciano alle complicate catene di disuguaglianze che si manifestano nelle nostre città. Di polmoni verdi, di contatto con la natura, abbiamo tutte e tutti bisogno, soprattutto ora. Non si tratta di un lusso, ma di un bisogno essenziale – un aggettivo, dicevamo, abusato e male interpretato in questi mesi. E invece proprio la pandemia dovrebbe averci insegnato che di essenziale ci sono, tanto per cominciare, salute e dignitose condizioni di vita, e anche relazioni, senso di comunità e interdipendenza tra esseri umani, e sì, accesso alla bellezza che ci permette di trovare senso anche quando la nostra fragilità si fa più palese che mai.

    Per riappropriarci dei beni comuni abbiamo bisogno di un’arte della guerra per i Commons, leggi l’articolo di Emanuele Braga

    Il referente di un progetto di riqualificazione urbana in un quartiere popolare di Catania mi disse una volta che lui ‘combatteva’ il concetto di bellezza. Non che non fosse sensibile al bello incarnato in una piazza barocca o in un palmeto svettante sui tetti. Si rendeva semplicemente conto che io e lui, sia pure cresciuti in centri complicati dell’Italia meridionale, a quella bellezza eravamo stati esposti, c’era stato insegnato ad apprezzarla, e quindi il termine aveva per noi un significato importante. Mentre chi del diritto alla città e alla bellezza era stato sempre privato, restava a rigirarsi tra i denti una parola vuota, quasi sfottente, e per reazione se ne allontanava: se la città ti rifiuta, anche tu rifiuti la città. E così il suo progetto catanese cercava di costruire quella connessione, quel senso di appartenenza: la città, il parco pubblico, la piazza, mi e ci appartengono, sono un bene comune, e quindi anche mio, anche nostro.

    Da bambina disegnai una Napoli avviluppata di verde senza stare tanto a pensarci – di beni comuni, diritti collettivi e politica dei commons non sapevo nulla. Ma agli occhi di una bambina i bisogni veri e viscerali sono lampanti. Per anni ci hanno ripetuto che, se tante delle nostre città restano così invivibili, la colpa è di noi abitanti. Che ci manca il senso civico, e la causa delle ingiustizie e delle carenze strutturali è da ricercarsi esclusivamente nei comportamenti individuali. Sono fioccati inviti destrorsi a ‘ripulire le città’ per ‘attrarre turisti’ o a ‘rendere sicure le aree verdi per i nostri bambini’, ed invettive contro gli ‘immigrati’ e i ‘bulli di periferia’ che sperpererebbero e devasterebbero le risorse messe a disposizione da amministrazioni generose e competenti.

    Il disegno della autrice, da giovane: una Napoli con il mare, ed immersa nel verde.

     

    E intanto, tentativi dal basso di gestione collettiva e democratica dei centri urbani, come quelli della stagione ‘benecomunista’ dei teatri, dei giardini e degli spazi occupati in Italia, vengono osannati a parole, e abbandonati o apertamente osteggiati nei fatti. Intanto, i progetti di guerrilla gardening, autentici fiori nel cemento, necessitano disperatamente di fondi e supporto. Intanto, soprattutto, i centri non sono le periferie, e i quartieri di élite non sono quelli popolari. Laddove esistenti, gli investimenti pubblici (e sempre più spesso privati) tendono a concentrarsi dove sarà possibile aprire costosi boutique e caffè, e speculare sul settore immobiliare.

    Come nell’area recentemente rinnovata a due passi da casa mia e dalla stazione londinese di King’s Cross, un tempo popolare e ‘malfamata’ e oggi completa di un lungo-canale lussureggiante e installazioni artistiche temporanee. Peccato che i negozi e i ristoranti spuntati tutt’attorno abbiano prezzi tali che solo una clientela benestante può godersi un drink dai gradini con vista sul canale, e che i nuovi, lussuosi condominii facciano levitare gli affitti delle strade limitrofe, spingendo residenti working-class verso quartieri seppelliti dall’asfalto e dalla carenza di infrastrutture. Queste dinamiche striscianti di gentrificazione, evidenti in tante grandi città europee, mietono nuove vittime in tempi di COVID-19, quando due passi al parco possono salvarti la salute mentale, ma anche quell’economicissima passeggiata ti è preclusa se un parco vicino casa non ce l’hai, o magari te lo vedi chiudere, o non puoi raggiungerlo con i mezzi pubblici.

    In tante e tanti abbiamo urlato per mesi ai quattro venti che, sì, la pandemia ha implicazioni pesantissime per società intere, ma aggrava anche ulteriormente disuguaglianze già esistenti. E allora urliamo altrettanto forte che l’accesso a spazi e risorse pubblici che hanno un impatto profondo sulla vita di chi abita in città sta diventando, anche quello, sempre più ineguale. E mentre gestiamo ansie presenti e cerchiamo di mettere insieme i tasselli di un futuro un po’ meno ingiusto, non dimentichiamoci di pretendere (mai come oggi è il caso di dirlo) non solo il pane, ma anche le rose. Quelle metaforiche dell’arte e della cultura, ce lo ricordano le lavoratrici e i lavoratori del settore dello spettacolo, messo in ginocchio dalla crisi sanitaria e in mobilitazione da settimane. E anche le rose di petali e spine che dovrebbero spuntare, realmente, in ogni quartiere.

     

    Immagine di copertina Adrien Olichon da Unsplash

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