Viviamo nel miglior momento della storia dell’umanità, ma gran parte di noi si rifiuta di crederci.
Sono le narrative da social network, gli articoli infiammati di pubblicisti sensazionalisti ed il boom demografico delle bufale giornalistiche che vogliono costantemente convincerci del contrario, emergendo dal sovraccarico di informazioni a cui siamo ogni giorno esposti.
Le stesse informazioni, popolano ogni giorno il nostro cervello, attirano la nostra attenzione più del “ragionevolmente dovuto”, suscitando emozioni pronte ad influenzare la nostra percezione del reale.
Come il guru Nicholas Taleb ha sempre sostenuto, le nostre intuizioni sono naturalmente portate ad essere lineari.
Tendiamo dunque a cercare costantemente risposte semplici e conseguenziali per ritrovare regole deterministiche della realtà, ignorando fattori più complessi che possono determinare l’imprevedibile, i cosiddetti Cigni Neri (Taleb, 2007).
Le elezioni Presidenziali Americane, Brexit, gli attacchi terroristici, le vittime di conflitti globali e le disuguaglianze economiche. Tutti temi amplificati dalla narrativa contemporanea che scavano nel profondo delle nostre emozioni ed influenzano il pensiero verso una percezione altamente negativa del momento storico che stiamo vivendo.
Come sostiene l’Università di Oxford (Roser, 2017), una possibile soluzione è guardare ai numeri.
Infatti, la realtà dipinta da alcune statistiche non è poi così male: i trend globali relativi ad indici generali (come povertà, educazione, mortalità infantile, libertà individuale) nell’ultimo quinquennio hanno registrato performance senza precedenti nell’intera storia dell’umanità (ammesso che questi valori di sintesi bastino a convincervi).
Eppure la stessa indagine (Our World in Data, 2017) ha mostrato come sia in crescita il sentimento di paura ed incertezza da parte del pubblico su questi temi di forte interesse mediatico e culturale. Sono esiti dei bias informativi (Tversky, Khaneman, 1974) che, influenzati da emozioni negative, producono reazioni scomposte rispetto all’errore di stima dei rischi sistemici (Giavazzi, 2016), facendoci comportare in maniera diversa e controproducente rispetto ai nostri obiettivi reali.
Cosa possiamo fare? Quale buon proposito possiamo adottare per difenderci dagli attacchi del pessimismo militante? Cerchiamo almeno di vederci chiaro.
Partiamo da un’ipotesi: il carico di informazioni cui siamo esposti, fa emergere e ci espone maggiormente alle informazioni capaci di emozionarci, nel bene ma soprattutto nel male.
Emozioni come quelle che hanno guidato 56 milioni di americani nel voto per Donald Trump, assottigliando i dati di quelle caratteristiche che da sempre hanno sempre guidato le previsioni di voto nei tradizionali schieramenti di destra e sinistra:
Istruito, non istruito, bianco e nero, classi alte e medie, sesso ed età.
Guardiamo ora a l’unico dato netto, emblematico e confermato: la contrapposizione tra le preferenze delle aree urbane e rurali (Ny Times Dataset, 2016): che mi piace chiamare “Emozione di campagna” e “Riflessione di città”.
L’”emozione rurale” può essere interpretata come la reazione al bombardamento mediatico e politico sul tema dell’esclusione prodotta dalla fantomatica società “neoliberale”, quella della finanza, dei servizi terziari architettati dai “poteri forti”. Una rabbia che non deriva dall’effettiva difficoltà e declino delle condizioni di vita di chi la percepisce, ma è guidata principalmente dall’emozione negativa nel sentirsi indietro ed esclusi, senza riflessioni sull’effettivo stato del Paese o delle capacità di chi deve governarlo.
È così che il cavallo di battaglia di Trump (ed altri politici populisti) è diventata la fiera e calcolata esposizione di semplificazione argomentativa verso emozioni negative, a scapito di qualsiasi ragionamento approfondito. Provocando empatia nella working-class anti-establishment che non accetta il linguaggio delle politiche contemporanee. Perché avulso da emozioni, ma sempre più ricco di acronimi (WTO, IMF,TTP) e concetti matematico-finanziari (SPREAD, bail in/out, quantitative easing) troppo complessi per essere elaborati con raziocinio.
Alcune ricerche di psicologia comportamentale hanno dimostrato come (Valentino et al, 2002), per ragioni evoluzionistiche. alcune categorie di persone (come la white working class) tendono a votare persone che rispecchiano (e stimolano durante le campagne) emozioni primordiali e vicine, legate a significati semplici e direttamente collegati all’inconscio degli individui (tramite priming), sicuramente non legati a ragionamenti consci, logici, progressivi ed autoconsapevoli.
Tali intuizioni vengono sollecitate da quello che Danny Kahneman (2003) ha definito come Sistema 1, ossia quello che guida le attività umane intuitive/sperimentali (ed inconsce) e non cognitive/riflessive.
Questa forma di “pensiero veloce” può diventare dunque moltiplicatore di pessimismo, agevolando la nascita dei nostri peggiori incubi sociali.
Pessimismo come esito dei cortocircuiti del Sistema 1, delle “scorciatoie” che ci permettono di operare con rapidità ed efficacia in alcune situazioni ma che, quando le questioni si fanno più complesse, possono indurci in errori di valutazione.
Sono esempio emblematico quelle scorciatoie che sono state definite come “rapide e frugali” (Gigerenzer e Goldestein, 1996), evocate ad esempio dagli slogan della campagna elettorale di Donald Trump:
Incapacità di dare risposte alle migrazioni? = Costruire il muro!
Stagnazione economica= Make America Great Again!
Se nelle aree rurali regnano le emozioni, nelle città le riflessioni continuano a spopolare. Emergono significati ed interpretazioni a partire solo dal Sistema 2, al pensiero cognitivo, quello sollecitato nelle aule scolastiche, che pretende di sapere come si ottengono tutti i risultati, percorrendo lentamente passaggi razionali e correggendoli in modo adattivo.
Be, Non sembra un gran periodo per questo sistema. La rigidità logico/accademica, scevra da emozioni e sistemi sperimentali è degnamente rappresentata dal fallimento degli exit poll e dalle “ragionatissime” ricostruzioni che intellettuali urbani sembrano produrre. Singhiozzanti editoriali scritti da intellettuali disarmati (vedi Severgnini, 2016) non fanno altro che generare ulteriore disorientamento, come in una reazione a catena che allude al continuo (ed imprevedibile) sopravanzare dei cigni neri come esito della “ruralità incazzata” (non è un caso se lo chiamano ceto riflessivo no?).
È dunque interessante guardare ai motivi per cui la popolazione rurale sembra essere più legata al ruolo del Sistema 1, per capire come le intuizioni sono influenzate dalle emozioni e dagli stimoli dell’ambiente circostante.
Potrebbe essere quindi utile guardare in maniera diversa ai segnali che questa “avanguardia” rurale vuole suggerirci, figlia del rapporto simbiotico con la terra e l’ambiente naturale. Una dimensione umana come reazione immediata, fattiva, pratica, flessibile, libera. Occorre ripensare a contenuti ed informazioni capaci di emergere ugualmente tra le città e le campagne: nuove istanze resilienti, capaci di interpretare e suscitare emozioni in continuo cambiamento.
Nella “riflessione urbana” dobbiamo forse individuare nuove priorità nella produzione di informazioni e significati appartenenti ad una “nuova cultura sperimentale del pensiero”.
Un nuovo paradigma culturale che faccia dell’educazione alla sperimentazione il proprio baluardo, spingendo un gran numero di individui, attualmente esclusi dalla logica del “sapere esperto” nel partecipare ed essere coinvolta in un complesso sistema di attività umane.
Serve dunque disintermediazione, localismo e trasferimento delle responsabilità. Sovvertire le logiche valutative e di misurazione delle performance, restituire importanza all’esordio, all’iniziativa imprenditoriale, alla pratica artigianale. Nelle aree urbane queste innovazioni hanno già luogo, sono in mezzo a noi, suggeriscono segnali di futuro. Il ruolo dei policy maker può (e deve) contribuire ad allargare la scala (e gli scenari) di queste sperimentazioni, tramite una chiara agenda e co-produzione istituzionale.
In questa riflessione è necessario che partecipino tutte quelle funzioni poco inclini al cambiamento: università, istituzioni, imprese, apparati politici tradizionali che influenzano in maniera discrezionale l’accentramento di opportunità (e significati) nelle aree urbane.
Per farlo dobbiamo creare le condizioni “ecosistemiche” utili alle sperimentazioni delle comunità di pratiche che innovano il tradizionale modo di produrre beni e servizi, dall’apprendimento informale alla connessione con le risorse tangibili ed intangibili dei territori: che sappiano includere tramite le innovazioni tecnologiche e finanziarie, che generino responsabilità nelle formule di gestione, che producano benessere e vantaggi ambientali in senso ampio. Con i dovuti dubbi e criticità, proviamoci prima che sia troppo tardi.
Occorre, in questa visione, una riscoperta ragionata (con il Sistema 2) dell’inconscio e della natura sperimentale del Sistema 1. Solo se ci sforziamo di comprendere ed educare al rapporto tra emozioni, pratiche ed informazioni possiamo colmare il vuoto sempre più largo tra ottimisti e pessimisti, creatori e distruttori, riflessivi e istintivi. Per promuovere ed alimentare quella che Star Wars ha definito “la speranza che origina la ribellione”, un’emozione utile a combattere il “lato oscuro della forza”.
Immagine di copertina tratta da Louisiana di Roberto Minvervini