Gli spazi rigenerati nelle città sono diventati laboratori della cultura collaborativa

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    La città contemporanea ha cambiato pelle. Quella novecentesca è stata definita la città ‘fordista’. Si caratterizzava per la concentrazione delle attività industriali all’interno del tessuto urbano, per la presenza di fabbriche di grandi dimensioni (ad esempio lo sviluppo di Torino è fortemente connesso con quello della Fiat), per gli alti tassi di inurbamento di manodopera non qualificata (sostenuto dalle emigrazioni dal sud), per la concentrazione e la crescente importanza di servizi (sociali e alle imprese) e di infrastrutture (alloggi, strade, scuole, mezzi pubblici), per l’allargamento progressivo delle funzioni dei governi locali come organizzatori di servizi pubblici. Era anche una città (e una società urbana) disciplinata da tempi e processi organizzativi rigidi e da una altrettanto rigida separazione fra luogo e tempo di lavoro (la fabbrica, l’ufficio) e luogo e tempo per le attività del tempo libero. Questa città non esiste più, o va sfumando.

    Oggi, nella terza età industriale, tuttora in corso, la città è definita postfordista o postindustriale ovvero postmoderna. Le trasformazioni delle città hanno generato spazi ed edifici inutilizzati: ex uffici, ex scuole, ex mercati, ex depositi ferroviari, ex caserme.

    Un fenomeno che accomuna grandi, medie e piccole città, il Nord come il Sud del Paese. Per certi versi è uno dei tratti che unisce la città contemporanea. La “città aumentata”, la “città infinita”, soprattutto nelle aree metropolitane, ha generato vuoti urbani, spazi abbandonati. Ed è su questo elemento che è opportuno ragionare perché proprio questi spazi, quando trasformati in luoghi, hanno dato vita a quel complesso processo che va sotto il nome di rigenerazione urbana.

    Vuoti senza più missioni hanno trovato nuove funzioni grazie ad un nuovo civismo, a giovani creativi, a professionisti che, a loro volta, in questi luoghi hanno maturato competenze, creato opportunità che, in molti casi, hanno condiviso con le comunità di riferimento.

    Progetti fondati su pratiche collaborative che hanno generato valori relazionali ed ecosistemi abilitanti. Ci sono ormai molti casi di successo rintracciabili in ogni angolo del Paese. Le loro storie hanno origini diverse e sono maturate in contesti in cui, spesso, si sono confrontate con norme e procedure obsolete oltre che con una pubblica amministrazione priva di competenze adeguate per governare questi processi.

    Un aspetto questo di particolare importanza che mette in luce la inadeguatezza dei codici della pianificazione urbana del secolo scorso e dei relativi modelli di governance. Sono progetti che ridisegnano le città senza ricorso al cemento, al consumo di suolo. Eppure, usando una distinzione presente nel vocabolario francese, intervengono allo stesso tempo sulla ville (la città materiale) e sulla cité (intesa come organizzazione sociale).

    Quando diventano luoghi si trasformano in piazze moderne, sperimentano nuovi modelli di sostenibilità economica, creano nuove centralità nella città, nascono da progetti individuali che diventano progetti condivisi. Spesso i promotori non hanno una meta definita ma mettono in conto anche il fallimento o un esito diverso da quello immaginato. Fanno ricorso all’adattamento attivo. E il profit e il no profit convivono senza egemonie.

    Sono spazi collaborativi che nascono da sistemi di relazioni inediti, cambiando le gerarchie e i modelli tradizionali. Per questo generano innovazione sociale e culturale. A sostegno di questa rappresentazione si possono fare molti esempi. Ex caserme (progetto Grisù a Ferrara), ex stabilimenti industriali (Fadda a San Vito dei Normanni di Brindisi), ex fabbriche (BASE a Milano nell’ex Ansaldo), ex convento nei Quartieri Spagnoli a Napoli, diventato un luogo di inclusione sociale con la Fondazione FOQUS, l’ex Mira Lanza, a Roma, dove nel campo rom, grazie all’Associazione 999Contemporay, sono stati ospitati artisti che hanno realizzato un “museo” fra palazzine pericolanti e fabbricati fatiscenti.

    Spazi pubblici abbandonati come i Giardini Margherita a Bologna dove la cooperativa Kilowatt ha generato un’organizzazione ibrida, così come i servizi che propone, “rompendo i confini netti e le categorie rigide, perché l’innovazione si muove rompendo gli schemi”. Senza considerare gli interventi nelle periferie delle città attraverso l’arte pubblica, il muralismo. Interventi che restano al confine fra le espressioni di una nuova arte e la domanda di bellezza di abitanti, cittadini che popolano i margini. Espressioni di una lotta al degrado ma anche del bisogno di ritrovare identità collettiva, rispetto di sé, riscatto sociale. Per questo non si possono racchiudere dentro i confini della rigenerazione urbana declinata sulla dimensione fisica delle città.

    Questi, e tanti altri, sono veri e propri laboratori di sperimentazione e innovazione che indicano una diversa maniera di pensare e gestire le città contemporanee, fuori dalle logiche dominanti del mercato (non dell’economia) e della speculazione immobiliare.

    Non sono “scalabili”, non sono solo “buone pratiche”, non si lasciano misurare dentro i confini delle analisi di impatto, sfuggono alla metodologia della valutazione tecnica-economica perché sono ognuna diversa dall’altra. E ciò che rende queste esperienze così poco riconducibili ai codici degli analisti è il processo che le ha generate, i valori relazionali che hanno rilasciato alla comunità, la dimensione locale del loro agire quotidiano che genera cambiamenti e innovazione, spesso senza clamori. Sono esperienze generative.

    Rappresentano una espressione dei cambiamenti possibili a scala locale. Hanno individuato nel livello comunale il perimetro entro il quale si può fare l’esperienza della partecipazione democratica. Non hanno l’ambizione di cambiare il mondo ma la loro città, sì. Per questo sono spesso fuori dal raggio di interesse delle politiche nazionali e di chi le gestisce. Eppure rappresentano una pista possibile per generare cambiamenti, per promuovere buona politica. Non sono espressioni del “rinserramento”, della chiusura nel “piccolo”, sono un altro modo di rappresentazione dell’impegno “politico quotidiano”.

    Come contribuire a fertilizzare una intera comunità, come essere di sostegno alla crescita delle realtà associative più piccole, a disseminare processi di innovazione, sono i “cantieri aperti”, ma i lavori sono in corso. In un tempo in cui l’angoscia sociale si fa diffidenza verso l’altro, in questi luoghi si pratica un modo nuovo di lavorare, di vivere, di partecipare alla costruzione di comunità generative in città comunitariamente vissute. Le difficoltà non mancano ma le opportunità sono potenti.


    Questo articolo è una rielaborazione del testo presentato da Ledo Prato in occasione di About a City presso Fondazione Feltrinelli

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