Un anno di classe disagiata. Una conversazione con Raffaele Alberto Ventura

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    In Italia la letteratura sul precariato, sui giovani sfruttati, sul futuro rubato è diventata un genere letterario. Poi un anno fa è arrivata Teoria della classe disagiata come un elefante in cristalleria per dire: fermi tutti, questi sono dei «First World Problems», oggi stiamo pagando i postumi di una fase di crescita eccezionale, definitivamente conclusa, dalla posizione di una borghesia decaduta…

    È un disagio paradossale, quello che sale nei paesi occidentali: il disagio delle economie più ricche del mondo messe di fronte alla minaccia di diventare un po’ meno ricche. Ma in quel “poco” (perlomeno sulla scala delle diseguaglianze globali) c’è un abisso che inghiotte le esistenze e le aspirazioni. È un disagio che colpisce nella maniera più vivida i giovani a cui era stato promesso un certo ordine “naturale” delle cose — con il piccolo patrimonio accumulato dalla tua famiglia potrai studiare quello che preferisci, studiando troverai il lavoro che fa per te, lavorando potrai mettere su famiglia… — che non esiste più. O forse siamo noi figli della classe media, in Italia come negli USA, che non riusciamo più ad accontentarci del relativo benessere ancora accessibile a chi è disposto a sopportare la noia o lo stress di qualche professione piccolo-borghese, e passiamo invece il tempo a sognarci altrove. Alcuni sono emigrati, prendendo atto che qui nella classe media italiana semplicemente non c’è posto; ma spesso hanno ritrovato le stesse frustrazioni. Altri hanno messo da parte le aspirazioni per accomodarsi ai rigori dell’inverno. Siamo la classe disagiata, ovvero il residuo lasciato dagli anni del Boom…

    Ok, ma tu cosa proponi?

    Al momento (e restando sempre aperto alla felice possibilità di una smentita) ritengo che una soluzione semplicemente non ci sia. Il mondo ha con noi un debito di felicità che non potrà mai ripagare, ma noi abbiamo un debito se possibile ancora più grande per tutta la ricchezza che abbiamo estorto, estratto e consumato per arredare le nostre case e inseguire i nostri sogni. Ovviamente credo che ci siano cose che possiamo fare per affrontare meglio questa fase storica e altre che non dobbiamo assolutamente fare, tipo scivolare lentamente nella guerra di tutti contro tutti, ma di certo non credo che sia possibile tornare al 1954. Gli anni della crescita illimitata sono conclusi e dobbiamo ripensare i valori fondamentali della nostra società a misura delle sue possibilità. Generalizzando il modello di vita borghese, l’ideologia del consumo e il rapido ricambio delle mode, a partire dal Dopoguerra si era potuta alimentare la domanda esorbitante di cui il sistema produttivo aveva bisogno. Ma oggi questo modello non è più sostenibile perché la produzione industriale si è spostata dove il costo del lavoro è rimasto quello di un secolo fa. Non c’è più spazio nel ventre caldo del ceto medio perché la polarizzazione del mercato del lavoro oggi impone una costosa alternativa tra vincere e fallire. Se la popolazione occidentale ha vocazione di continuare a vivere dell’estrazione del plusvalore internazionale, come una sorta di borghesia mondiale, allora dovrà ridimensionare le proprie aspettative di ascesa sociale oppure ridursi essa stessa: sta già accadendo.

    In compenso tu sei diventato ricco col libro.

    Ricco, sì, ma di capitale simbolico. Nell’attesa di capire come spenderlo, visto che alle casse del supermercato non lo accettano, continuo a fare l’intellettuale part-time, scrivendo nei ritagli di tempo mentre la mia vita va a rotoli. Mi consolo sapendo che ogni tanto qualcuno mi pensa. Con oltre duecento tra articoli, recensioni e stroncature, devo constatare che attorno alla mia Teoria della classe disagiata si è creato un dibattito raro in Italia. Tanto più raro per un libro che non è finito ai piani alti delle classifiche, ma è stato sostenuto dalle librerie indipendenti, discusso su tutta la stampa nazionale e commentato in rete. Al di là del contenuto del libro è innanzitutto l’argomento, ne sono consapevole, ad avere attirato l’attenzione — talvolta soltanto per servire da pretesto. In effetti la Teoria parte da un tema molto attuale, ovvero la crisi esistenziale dei figli della classe media al tempo dell’esplosione di una bolla delle aspirazioni che ha alimentato l’economia dagli anni del Boom in avanti. Parte da qui, è vero, ma per tentare una cosa un poco più ambiziosa: ovvero tentare di illustrare come funziona una delle tante e ricorrenti crisi di sovraccumulazione del capitale simbolico.

    Cioè tu sei andato da Floris a spiegare a Fassino la sovraccumulazione del capitale simbolico?

    La duplice ambizione della Teoria ha portato a qualche anomalia di ricezione: evidentemente c’era una forte domanda — di consolazione, di autocoscienza, anche di indignazione o di rivolta — ma questa ha incontrato un’offerta teorica eterodossa sia rispetto al registro (è un saggio solo apparentemente pop) che al metodo (non è un rigoroso trattato di sociologia) che alla dimensione politica (il libro decostruisce alcuni capisaldi del pensiero della sinistra e non pretende in alcun modo di «salvare» la classe media). Sebbene io resti convinto di avere raggiunto un buon grado di chiarezza, e questo ancora mi pare un miracolo vista l’arditezza dell’operazione, non ho potuto evitare qualche lettore deluso e alcuni recensori più o meno incazzati. Da Valerio Mattioli a Tiziano Scarpa, da Carlo Formenti a Paolo di Paolo, da Stefano Bartezzaghi a Luca Mastrantonio, passando per le critiche di Jacopo Nacci, Valeria Finocchiaro, Lorenzo Vitelli… Ogni critica, per quanto severa e talvolta percepita come ingiusta, è stata l’occasione di «mettere a fuoco» un materiale che resta complesso anche per me che l’ho esposto. Ad esempio Tiziano Scarpa ha scritto una lunga ed elogiosa recensione del libro, nella quale ha sollevato una questione centrale: parlando della cultura esclusivamente come bene posizionale se non addirittura improduttivo, non dimentico quanto la cultura possa invece essere utile, produttiva, generatrice di valore? Ha ragione, e l’unica cosa che posso rispondergli è che non lo dimentico, anzi il libro intende raccontare precisamente questa tragedia, talvolta mascherandola da commedia. Lo spreco ci ha impoveriti? Certo, ma la tragedia è che lo spreco è anche il motore dell’innovazione. La ricerca della bellezza ci condanna alla miseria? Certo, ma la tragedia è che soltanto la bellezza può dare senso all’esistenza.

    Almeno scrivere questo libro ha dato senso alla tua vita? Ti ha dato quello status che sembravi cercare.

    Forse il successo è un complotto per fare impazzire le persone, anche se si tratta di un successo molto circoscritto come quello di un libro rivolto a una classe morente, tanto rumorosa nelle sue espressioni quanto insignificante politicamente. Ma nei miei piccoli momenti di gloria, quando usciva una recensione al giorno, ho visto un’immagine ridotta di quello che può accadere a una persona sottoposta a picchi di visibilità. Aspettative mal riposte, ondate di apprezzamento ed effusioni di odio, fraintendimenti onesti e disonesti, e soprattutto tutti gli ingredienti che portano un autore dall’esaltazione al vittimismo alla paranoia alla radicalizzazione, dalla sindrome dell’impostore agli oneri della tuttologia, un meccanismo dal quale è semplicemente impossibile uscire indenni. Ora conosco la verità: sono tutti pazzi coloro che hanno conosciuto i loro quindici minuti di celebrità, completamente pazzi, resi pazzi dalla folla che li ingiuria e li acclama, sregolati per sempre come un corpo sparato alla velocità della luce nello spazio. E in tutto questo non sono nemmeno diventato ricco.

    Però sei diventato pazzo.

    In realtà ognuna delle critiche che ricevo mi consegna un po’ di speranza. Ogni volta che qualcuno mi fa notare i miei privilegi, io sono sollevato. Perché avete ragione, ovviamente, e ho bisogno che continuate a ricordarmelo, anche qui, anche ora. Va tutto bene, grazie. Per questo mi vedete sorridere: perché ogni insulto che ricevo è parte di una grande consolazione collettiva. In fondo si scrive sempre per essere consolati. Voi non avete colpito me, ma un’altra persona: più felice, serena, appagata. Ma se quella persona fossi io? Sarebbe bellissimo.

    Come ti spieghi tutte le critiche che hai ricevuto?

    Spesso mi sono chiesto come fosse possibile che tanti miei critici, che pure galleggiano da lunghi anni nel purgatorio del lavoro cognitivo, avessero la faccia tosta per esaltare quelle stesse scelte di vita che li avevano consegnati alla miseria: a me bastarono pochi giorni di vita attiva, chiuso in un ufficio a fare tabelle su excel mentre sognavo di studiare i filosofi del Cinquecento, per sprofondare in una disperazione profonda. Forse la loro è una crudele vendetta, sorta dalla convinzione che trascinare fresche vittime nello stesso errore, pur di non ammetterlo, possa alla fine alleviare la loro pena. Uno schema di Ponzi, insomma.

    Forse c’è stato qualche malinteso su cosa fosse la tua classe disagiata.

    La mia tesi di fondo, tagliandola un po’ con l’accetta, è che per sopravvivere alle sue crisi cicliche di sovrapproduzione il capitalismo occidentale ha indotto negli individui dei bisogni di ascesa sociale strutturalmente impossibili da soddisfare (bisogni posizionali) lasciando come residuo una classe sovrannumeraria rispetto ai posti disponibili: nel mio libro ho tentato di raccontare questo scarto socio-economico come uno scarto esistenziale.

    Secondo Valerio Mattioli, la Teoria parla solo di una fetta della società, indebitamente generalizzata.

    Che io parli di una “fetta di società” è indubbio: dalla prima pagina parlo di una “specifica classe” e poco pagine dopo ricordo che questa fonda sul lavoro di un’altra classe il suo benessere fragile e paradossale. L’intera teoria, come esplicitato al capitolo secondo, può essere considerata a pieno titolo come una glossa alle dottrine dello scambio ineguale: il sistema-mondo è diviso tra centro e periferia, la classe disagiata è l’emanazione di un centro in disfacimento. Per questo parlo anche di un “classe consumatrice” in opposizione alla classe produttrice. Le prime stesure del testo parlavano semplicemente di “borghesia”, terminologia poi sfumata ricorrendo all’espressione “classe media”. Perché questa correzione? Perché, come intuisce bene Mattioli, ho voluto generalizzare la mia analisi, mostrando che certe dinamiche tipicamente borghesi — quelle già descritte da Veblen di consumo di beni simbolici — sono all’opera entro un perimetro più largo rispetto a quello che siamo abituati a concedere. Come notarono Emmanuel, Jaffe e Amin, la condizione borghese in Occidente è tracimata fino a ricoprire (pure con gradazioni diverse) una parte più ampia della popolazione. Insomma non è certo un libro sul famigerato 1%, ma nemmeno sul 99%.

    Ma allora su chi, su cosa?

    Il problema, secondo alcuni, è che io non definisco mai chiaramente la mia classe disagiata. E invece in un certo senso la definisco in maniera semplicissima, come una funzione applicata all’intera classe media nella sua dinamica di declassamento. A questo punto forse mi sarebbe toccato definire cosa sia la classe media, e avrei potuto farlo negli innumerevoli modi che la letteratura offre — secondo il Pew Research Center questa rappresenta 67% della popolazione italiana — ma era davvero necessario? Se l’oggetto della riflessione è la dinamica di declassamento e le strategie di rischio adottate dagli individui per scamparvi, allora poco importa se si parli di un nobile russo dell’Ottocento, di una borghese veneziana in età da marito oppure del figlio di un’insegnante d’inglese e di un rappresentante di coltelli che studia da filosofo e finisce a fare l’impiegato per pagarsi il mutuo, ovvero il sottoscritto. Forse proprio questa semplicità ha spiazzato qualche lettore, ancora impegnato a cercare di convincersi che lui non vi appartiene. Così tutto quello che il lettore di sinistra sarebbe stato felice di concedermi se lo avessi attribuito a una fantomatica “borghesia” alla quale lui ovviamente non appartiene, lo ha fatto incazzare nel momento in cui gli ho detto guardandolo negli occhi: de te fabula narratur. Questi non sono malintesi, ma segnali di una rimozione.

    Quindi tutti classe disagiata, tutti troppo ricchi e troppo istruiti?

    Se il problema è quello della sovraccumulazione del capitale simbolico, e nello specifico quello educativo e culturale, non si può certo dire che in Italia questa situazione riguardi una maggioranza della popolazione: non era mia ambizione. Nel libro illustro il meccanismo perverso che collega l’overeducation degli uni all’undereducation degli altri, attraverso una dinamica di inflazione del capitale simbolico a causa della pressione da parte della minoranza che sovra-investe e rende del tutto controproducente per gli outsider tentare di competere. E allora potremmo limitare la classe disagiata a quel 20% di laureati nella fascia 25-54 anni, oppure a quel 70% di italiani insoddisfatti del loro lavoro, o incrociare tutta una serie di parametri per definire ancora più precisamente il gruppo. Ma non otterremmo, mi pare, nulla di granché utile nell’economia globale della mia riflessione. Di fatto chi mi rimprovera di avere fornito una definizione vaga intende soprattutto dire che non ammette che io ne dia una definizione così ampia. Ma in fondo che importa, mi avete scambiato per l’ISTAT? Stiamo parlando di un rapporto, quello tra centro e periferia, e di un vettore, ovvero la mobilità dall’alto verso il basso. Questo ci permette poi di parlare di un paradosso, quello della sovraccumulazione, che mi porta ad applicare al capitale culturale la vecchia e bistrattata legge della caduta tendenziale del saggio di profitto: l’aumento progressivo degli investimenti in capitale (qui simbolico) porta a una concorrenza generalizzata che peggiora le condizioni di tutti.

    Hanno scritto che è un libro più letterario che scientifico.

    Hanno ragione. Si tratta di una constatazione, forse un complimento spesso involontario, più che una critica. Potremmo anche dire che la classe disagiata non è una categoria sociologica bensì filosofica. Ma non è in fondo l’intera questione del “metodo” a essere fuori luogo riguardo a un libro che, precisamente, procede senza metodo? Non c’è evidentemente nulla che sia dimostrato nella Teoria, nello stesso modo in cui non dimostrano assolutamente nulla tanti altri testi classificati come teoria critica, sociologia e filosofia. Si tratta, indubbiamente, di un gioco pericoloso: e io sono il primo a diffidare dai vizi della scrittura filosofica che facilmente sfocia nella ciarlataneria. Ma spero di averlo condotto con rigore, chiarezza e onestà, legittimando le mie idee con la forza della scrittura. Avrei potuto, suppongo, fare dei dati quell’uso approssimativo che spesso basta per consolidare presso un pubblico impressionabile l’autorità di chi scrive: ma sarebbe stata, questa sì, una forma di ciarlataneria. Conoscendo i danni del positivismo da bar, con le sue correlazioni spurie, ho preferito non provarci nemmeno.

    Ventura contro il metodo, come Feyerabend?

    Non si tratta di rifiutare l’utilità di un serio lavoro sociologico ma questo, per adesso, ho preferito lasciarlo ad altri: alle fonti che ho citato e a coloro che verranno dopo di me. Per chi cercasse qualche coordinata intellettuale, la ricetta è tutto sommato semplice e credo ben esplicitata nel libro: i teorici del sistema-mondo (Amin, Arrighi, Wallerstein), la critica marxista a Keynes (Mattick, Mandel), la genesi ideologica dei bisogni di Jean Baudrillard, l’analisi dei  limiti sociali dello sviluppo in Fred Hirsch, la teoria della classe agiata di Veblen, la critici della competizione in Réné Girard, la lettura kojeviana di Hegel, la teoria dei cicli di Schumpeter, infine Max Scheler sul risentimento (potrei andare avanti ma mi fermo). Il ruolo che mi sono dato era di fornire una sintesi: only connect…

    Però potevi almeno mettere le note a pié di pagina!

    Mi spiace per il lettore se ho reso più scomoda la consultazione delle fonti (tuttavia alleggerendo il prezzo del libro di qualche euro) ma devo ricordare che al momento io non partecipavo a nessun concorso universitario né ricevevo uno stipendio mensile per fare ricerca. Non dico che non mi sarebbe piaciuto, ma è andata così. Di fronte all’accademia mi sento come Kafka davanti alla Legge: bloccato da un cancello insormontabile. Quando avevo l’età per entrare non disponevo del capitale di informazioni e relazioni necessario per capire come si entrava; quando ci sono entrato di sbieco mediante l’interessamento di qualche professore non avevo i soldi per finanziarmi… Periodicamente mi dico che  potrei riprovare sta follia, che mi darebbe il tempo di scrivere e studiare, ma ovviamente significherebbe far prendere un enorme rischio alla mia famiglia. Così continuo a chiedermi se sono condannato a questa specie di ciarlataneria erudita o se un giorno il guardiano mi aprirà la porta dicendomi: «Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te.»


    Immagine di copertina da: https://www.prweb.com/releases/2009/03/prweb2228354.htm Conceptual artist R. Lloyd Ming creates weapons as sculpture from Dom Perignon Champagne bottles to symbolize China’s wealth and size as a crushing force against Tibet.

    Note