Vedere il presente, fare il futuro. Rosetta domani a Milano

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    Se potessimo per ventiquattr’ore tornare nel passato per incidere sugli eventi e cambiare il futuro, non lo faremmo? Questo dilemma, al centro della graphic novel Patience di Daniel Clowes, offrirebbe una proposta lisergica e una discreta via di fuga per sfuggire al tempo prossimo che ci attende: in Italia inizia la terza repubblica, con un contratto di governo pubblico e votato che propone una lenta sospensione delle tutele costituzionali siglata da due leader giovani, maschi, sovranisti e razzisti che hanno costruito sulla paura la loro ascesa. È di qualche giorno fa l’immagine dei presidenti delle due Coree che scavalcano il confine, scambiandosi manciate di terreno. La polizia belga ha ucciso per errore un duenne migrante. Maduro vince le elezioni in Venezuela quasi senza opposizione con l’astensione al 60% e un milione di venezuelani in fuga. La marcia del ritorno continua a rivelare la disparità di potere nel conflitto israelo-palestinese, mentre in Siria si sta svolgendo il settimo anno di conflitto.

    futuro

    Patience

    Nel frattempo, la monarchia, soprattutto quella britannica, gode di ottima salute: la corona viene celebrata in mondovisione nelle nozze glam-romantiche, che hanno operato un moral washing del vecchio impero tra canti gospel e offerte benefiche. Asia Argento tuona in una traduzione fuori-sincro alla premiazione del festival di Cannes, raccontando dello stupro subito da Weinstein proprio sulla Croisette, ancora ventunenne, e trasformando il politico in privato. Il sindaco di Salonicco viene aggredito da un gruppo di estrema destra, mentre la temperatura globale aumenta inesorabilmente tra monsoni lombardi e grandinate alpine.

    Partendo da questo presente frammentato, frattale e confuso, è straniante provare a ragionare sul futuro, di futuro. Come scriveva Wyslawa Szymborska, futuro è una delle tre parole più strane: “Quando pronuncio la parola Futuro la prima sillaba va già nel passato”.

    Augé differenzia il futuro dall’avvenire, ma lo riconnette indissolubilmente alla percezione: “Il futuro è la vita che si vive individualmente”. Questa dimensione vitale rende le prospettive sul concetto di futuro indispensabili, e richiede di liberarle dalle due maggiori spinte che le vincolano: da una parte il progetto della modernità come progresso, la centralità dell’umanesimo che trasforma lo spazio e il tempo, rendendo l’uomo misura di tutte le cose e vincolando l’era alla presenza vitale e umana. Ogni attimo, ogni sapere altera e scompone le linee di senso, migliorandole. Dall’altra la distopia, che dall’alea di rischio e di incertezza fa discendere un lento cammino negativo, che oscilla tra la lucida consapevolezza di un destino per forza peggiore di quello precedente e forme quasi arcaiche di nostalgia, costruzione di un domani per contrasto, sempre peggiore perché non potrà mai eguagliare il passato.


    genna rosetta polifactory

     Presente/Futuro. Rosetta alla Polifactory del Politecnico di Milano. Mercoledì 23 maggio 2018 h. 19.00 con Giuseppe Genna, Francesco Guida, Federico Nejrotti, Angela Simone. Moderano Stefano Maffei e Bertram Niessen.


    Entrambi gli approcci risultano fallaci sia per le polarizzazioni che sviluppano sia per la natura soggettiva delle letture, dettate da emozioni, piccole esperienze, ideologie posticce, centralismo dell’occidente e delle sue epistemologie. Entrambi gli approcci sono vincolati a doppio giro con una fiducia o sfiducia in un modello economico (quello neoliberale) e ad una parte del mondo (quella convenzionalmente chiamata occidente) che radicano queste letture, nuovamente, ad una soggettività, che non è più solo percettiva, ma è di esistenza: sono le geografie della responsabilità che determinano la dimensione distopica o modernista di questi modelli; sono le nostre spazialità nella scala sociale che determinano il modo in cui ragioniamo con il futuro, del futuro, o in assenza di futuro.

    In un recente libro “Justicia entre saberes: Epistemologías del Sur contra el epistemicidio”, il filosofo e sociologo Boaventura Santos prova a riordinare quelle che lui definisce come “menzogne istituzionalizzate” per poter evitare il rischio di epistemicidio, ossia lo schiacciamento della visione autoritaria, del ‘realismo capitalista’ come unica prospettiva di senso.
    Santos parla di un’epistemologia della cecità, ossia il riconoscere le altre interpretazioni del mondo come miopi, e quindi fallaci. Questo assunto secondo l’autore ci limita nelle percezioni, perché probabilmente questa critica delle altre epistemologie sarà, in futuro, la prova provata della nostra stessa miopia.

    Nell’articolato volume, il filosofo portoghese ricostruisce il progetto della modernità seguendo due linee principali: quella della regolazione sociale e quella della emancipazione sociale. L’avvento del capitalismo ha ridotto le possibilità della modernità, separando regolazione sociale ed emancipazione sociale, ossia modelli di gestione del potere e modelli di costruzione di solidarietà. Questo processo ha, di fatto, diviso la regolazione dalla sua controparte dal basso: alcuni saperi e pratiche sociali hanno scelto la regolazione sociale (attraverso lo Stato, il mercato, la società) come principale effetto del loro impegno, mentre altri si concentrarono solamente sulla emancipazione sociale (che, mutuando da Weber, si fonda su razionalità estetica, razionalità cognitiva, e la razionalità pratica) ma scollegandola dalle forme strutturali di società.

    Per Santos, perciò, il progetto di modernità occidentale è organizzato a partire da una discrepanza tra l’esperienza e le aspettative sociali: questa è la caratteristica innovativa che ha alterato gli equilibri. Questo paradigma sociale e storico per cui alla regolazione seguiva una forma di emancipazione ha subito una battuta d’arresto a causa dell’avvento del capitalismo nel diciannovesimo secolo, che ha portato alla cannibalizzazione delle forme di emancipazione da parte di quelle di regolazione, che non potendo sostenersi senza le controparti entrarono in crisi, e questo processo storico sfociò nella primazia della conoscenza come regolazione rispetto alla conoscenza come emancipazione, passando da un’egemonia del sapere ad un’egemonia dell’ignoranza. Secondo Santos quindi, questo ribaltamento, assieme ad una preoccupazione della rappresentazione dei limiti come della falsa rappresentazione delle conseguenze, a molto a che vedere con la conversione dell’ordine in una forma di conoscenza colonialista, e della solidarietà come forma di ignoranza caotica.

    Per la prima volta nella storia dell’Occidente, l’esperienza non coincide né può coincidere con le aspettative: le aspettative sociali diventano, perciò, eccessive; dall’altra parte le esperienze risultano deficitarie, e in quello iato scivola il modello di futuro alla Battiato: no time/no space.

    Se proviamo, tuttavia, a ragionare a partire dall’epistemologia della cecità, quel tempo e quello spazio possono ancora ampliarsi, perché miope è il modello di lettura a differenza della realtà. È quella che viene descritta come epistemologia della visione, alternativa politica al realismo capitalista.

    L’epistemologia della visione ricerca validazioni in una visione miope legata al colonialismo e in una forma di sapere fondata sulla solidarietà, ossia “se sia possibile conoscere creando solidarietà. La solidarietà come forma di conoscenza e di riconoscimento dell’altro come uguale, sempre che la differenza sia una causa di inferiorità, e come differente sempre che l’eguaglianza ponga un rischio per la sua identità”.

    Se si sposa la visione senza futuro, creare aspettative di solidarietà non porterà molto lontano. Ragionare sui tentativi e come definire queste nuove forme di epistemologia della visione sono alcune delle aspettative che nutriamo sull’incontro di Rosetta.

    Per questo abbiamo scelto di dialogare con visionari, che hanno provato a modificare alcune forme ed epistemologie, se non a vedere chiaramente, a diradare alcune nebbie lavorando sui linguaggi, sulle forme e sulle parole. È una scelta di parte: abbiamo immaginato un futuro costruito attraverso dialoghi tra lessici differenti, sintassi spaziali (come quelle prodotte dal design) e scritture genetiche.

    Stefano Maffei ha pensato con noi queste tracce: sono decostruzioni che attingono al mondo post, che è futuro per eccellenza, ma spesso ancorato al passato al punto da non assumere una nuova nominazione. Da lui è venuta la proposta di dialogare con Francesco Ermanno Guida, docente di design della comunicazione, che definisce come “non-disciplina”, linguaggio per risolvere problemi e immaginare futuri più semplici. Percorso simile, con effetti differenti è quello operato da Angela Simone, che ha provato ad indagare i modi e i saperi che ci permetteranno di curarci, di essere in un certo senso, futuro: pensiamo alla medicina rigenerativa, l’immunoterapia, le terapie cellulari e l’editing del genoma, come ora accade con la tecnologia CRISPR.

    Di nuovo, quasi una sinestesia: l’editing del genoma è immaginare un linguaggio che cambia i corpi, ne determina imprescindibilmente il domani, e forse anche il dopodomani. Federico Nejrotti è in un certo senso l’incarnazione del futuro, dell’accelerazionismo: giovanissimo editor in chief di Motherboard, va a caccia di futuri possibili e prova a raccontarli: dall’aumento delle temperature del mare Adriatico e Tirreno, che hanno reso i nostri mari “il brodo” all’equilibrio necessario per rendere i robot più umani, permettendogli di stare in piedi (come nel caso del robot quadrupede). Infine, last but not least , Giuseppe Genna che ha scandagliato il linguaggio, il passato distopico e il presente mostruoso, per capire come sopravvivere alla fine del tempo, ma soprattutto come differenziarsi dalle forme del meschino, che nei linguaggi trova spesso il miglior nascondiglio. Sono vite, traiettorie e lessici diversi, ma che possono provare a setacciare una categoria tanto bistrattata quanto necessaria e a provare ad abbozzare quell’epistemologia della visione di cui abbiamo tanto bisogno, per neutralizzare le nostre quotidiane cecità.


    Immagine di copertina: ph. Yoal Desurmont da Unsplash

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