Uber, le app taxi e il nostro futuro incerto

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    È il 15 gennaio 1992, il Parlamento approva la legge quadro numero 21 in materia di «trasporto pubblico non di linea». Le firme in calce sono quelle del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, del presidente del Consiglio Giulio Andreotti e del guardasigilli Claudio Martelli.

    Da lì a un mese l’arresto del socialista Mario Chiesa darà il via a Tangentopoli, e in quell’anno pochi italiani si accorgono del lancio sul mercato del Motorola International 3200: il primo vero cellulare digitale portatile.

    È molto probabile che nemmeno al sedicenne Travis Cordell Kalanick, impegnato sui banchi della Granada Hills Charter High School di Los Angels, importi qualcosa della Motorola.

    Alla fine del 2017 in Italia è ancora la 21/1992 a regolamentare il servizio dei taxi, nel frattempo la Motorola è fallita, i ragazzi di 16 anni hanno tutti uno smartphone in mano e Travis Cordell Kalanick è diventato un miliardario famoso per aver inventato Uber.

    L’economia del «dare uno strappo»

    In fondo è come chiedere uno strappo a un amico.
    «Stai andando verso il centro?
    Posso chiederti un passaggio?»

    Oppure è come attendere sul ciglio della strada con il pollice all’insù, fino a quando qualcuno non è disposto a caricarvi.
    Il principio è quello, solo che al posto di ricambiare il favore nel primo caso o nel ringraziare per la disponibilità nel secondo, pagate qualcosa per il disturbo.

    Gabriel García Márquez avrebbe potuto raccontare Uber come l’autostop (pagato) ai tempi dello smartphone.

    Fino a qua tutto bene: il gps vi posiziona e un algoritmo calcola come farvi incrociare con il vostro “autista per caso”, il tempo di percorrenza che impiegherete e la cifra da sborsare per il disturbo. I problemi iniziano, quasi subito, quando le persone disposte a darvi un passaggio si comportano di fatto da autisti professionisti.

    Complice la fame di lavoro sono molti quelli che sono disponibili a mettere a disposizione la propria auto, farsi dei giretti in città in attesa del contatto, prendere i voti come alla scuola guida, incassare qualche soldino dall’app. Ed è così che iniziarono ad arrabbiarsi i tassisti di tutto il mondo. Dal loro punto di vista Uber è concorrenza sleale: loro hanno licenze, garantiscono un servizio a determinati prezzi (definiti dal pubblico) e condizioni che ora vengono ribassati in maniera arbitraria. E quando si accorgono della cosa, e di star perdendo clienti, che iniziano a bloccare le città.

    Quando nel 2013 l’applicazione Uber sbarca in Italia, gli echi delle proteste vicine e lontane sono già arrivati.

    Non è un problema di tecnologia

    Nell’opinione pubblica italiana i tassisti non godono di buona fama. Vengono spesso additati come categoria di privilegiati che diversamente da altri settori del lavoro in Italia, non hanno dovuto subire le conseguenze, per gran parte negative, delle liberalizzazioni e della concorrenza. Prezzi alti e scortesia completano spesso il quadro un po’ caricaturale dei tassisti.

    Queste percezioni diffuse nel senso comune hanno contributo ad aumentare l’interesse e la simpatia nei confronti di Uber. Nel discorso pubblico l’app californiana ha così riacceso gli antichi e mai sopiti fastidi verso i tassisti, intrecciandosi però con la retorica della modernizzazione mancata e la poca disponibilità all’innovazione del «sistema Italia».

    L’epilogo temporaneo dell’avventura Uber in Italia è noto a tutti: Uber-pop (l’app-servizio più simile a quello dei taxi) è stata bloccata nel maggio 2015 con una sentenza del Tribunale di Milano per ragioni di concorrenza sleale. La presenza prima, e ora la minaccia di un suo ritorno, ha stimolato la creazione di app tutte volte a migliorare l’incrocio tra la domanda e l’offerta di taxi. Tutti algoritmi più o meno simili che sfruttano i dati del traffico, le posizioni gps di potenziali clienti e autisti con l’obiettivo farli incontrare. Sali in auto, paghi come preferisci e dal tuo profilo sull’applicazione hai tutto registrato e facilmente tracciabile.

    La prima risposta a Uber è arrivata dai tassisti stessi che per smarcarsi dall’accusa di essere dei nemici dell’innovazione, nel settembre 2014 lanciano IT Taxi: app dedicata dell’Unione di Radiotaxi d’Italia (URI) che aggiunge alla classica chiamata questo servizio. «Efficienza», «qualità», «rispondere ai nuovi bisogni», «essere all’altezza dei tempi»,«comodità», sono le parole che accompagnano il lancio. Stesso canovaccio per il lancio di appTaxi nell’ottobre 2015 da parte di un network di imprese al quale aderiscono i maggiori operatori radiotaxi in Italia. Oppure, ancora per citarne alcune, Taxi Click, a Napoli Digitaxi, a Torino WeTaxi.

    È l’ondata di app la conseguenza più tangibile dell’«effetto Uber»: ora prenotare un taxi con lo smartphone è un’innovazione sempre più diffusa. Le applicazioni riproducono plasticamente la frammentazione della cooperazione di radiotaxi in Italia.

    Nessuna di queste applicazioni si è imposta a livello nazionale, in territori diversi trovi nomi diversi.

    Fatta l’applicazione il caso dovrebbe essere chiuso. E invece no perché la questione Uber, che è stata sempre raccontata sul fronte innovazione tecnologica, ha in realtà aperto (o riaperto per certi versi) la ferita sul tema della liberalizzazione, delle licenze e del ruolo delle cooperative di tassisti. Si tratta di diversi modelli organizzativi ed economici a confronto: è lì che si sta giocando la partita, con o senza smartphone.

    Dimmi di chi è l’algoritmo e ti dirò chi sei

    Tutte le applicazioni citate sino a questo momento sono di proprietà delle cooperative di radiotaxi o di società che lavorano in esclusiva per conto delle cooperative stesse. C’è ne è una, forse la più famosa, che invece si pone in concorrenza alle cooperative: si chiama myTaxi.

    È arrivata in Italia nell’aprile 2015 facendosi le ossa a Milano per poi entrare nel mercato di Roma (maggio 2016) e Torino (settembre 2017). È una multinazionale tedesca presente in oltre 70 città di 11 paesi europei. Nasce ad Amburgo nel 2009 dall’idea di due ragazzi: Nicolas Mewes (attuale Ceo) e suo cugino Sven Kulper. La leggenda narra che i due dopo una notte brava si ritrovarono in una strada senza sapere dove questa si trovasse e, soprattutto, senza conoscere i numeri per chiamare un taxi. Così di necessità virtù hanno immaginato l’applicazione.

    Nel 2014 viene acquistata da Daimler (il gruppo che controlla tra le altre partecipate la casa automobilistica Mercedes-Benz) e da quel momento inizia l’espansione. Entra in nuovi mercati e laddove individua paesi con soggetti forti procede a fusioni e acquisizioni: è stato così con la londinese Hailo (luglio 2016), la greca Taxybeat (febbraio 2017) e la Clever Taxi app leader in Romania (giugno 2017).

    Al suo ingresso in Italia viene presentata dai giornali come «l’anti-Uber» perché specifica di rivolgersi esclusivamente ad «autisti con licenza». Nelle città italiane, così come fuori, nei primi mesi attiva una scontistica del 50% per i clienti, promozioni “se porti un amico” e agli autisti garantisce un primo periodo dove la commissione per l’app (normalmente al 7%) viene azzerata. La Mercedes poi ha pronte occasioni e offerte ad hoc per gli autisti che sceglieranno myTaxi.

    Quando in febbraio è scattata la protesta sull’emendamento Lanzilotta-Cociancich che rinviava a fine anno la regolamentazione sull’esercizio abusivo dei taxi e sul noleggio con conducente, Barbara Covili, General Manager di myTaxi Italia, in una nota stampa schierava l’azienda: «oggi sciopera a fianco della categoria».

    Accanto a questa posizione di difesa del servizio, myTaxi ha sempre portato avanti una dura critica alle cooperative di radiotaxi e sull’esclusività che richiedono ai propri autisti. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha aperto un’istruttoria nel merito, la richiesta dell’app tedesca è chiara: i tassisti sono lavoratori autonomi, il principio di esclusività che le cooperative rivendicano è illegittimo. Dietro questa rivendicazione, ovvero la possibilità per un singolo autista di utilizzare più servizi, c’è per myTaxi anche una chiara esigenza di mercato: oggi la loro espansione è bloccata dalle cooperative.

    Chi, invece, ha scelto sin da subito la strada della collaborazione con le cooperative di radio taxi è l’applicazione Wetaxi nata a Torino da sei ingegneri del Politecnico della città. Se, ricordando il Moretti di Palombella rossa, «le parole sono importanti», è il noi (we) al posto del mio (my) a fare la differenza. In questo caso infatti la progettazione, la sperimentazione e il lancio dell’applicazione è stato fatto con le due cooperative radiotaxi della città ( 5730 e 5737, da luglio unitesi Taxi Torino). La logica è sempre la stessa: poter prenotare il taxi dal proprio smartphone con algoritmi in grado di calcolare posizione, tragitto più veloce, tariffa massima. Sul tema del costo c’è una prima novità: in base ai dati in tempo reale del traffico l’app calcola il valore della corsa che grazie a un accordo con i tassisti è anche la tariffa massima, così se il tassametro indicherà di più del preventivato il passeggero pagherà comunque la cifra iniziale, se invece indicherà meno pagherà meno.

    Wetaxi però introduce una seconda novità: la possibilità di condividere il viaggio (myTaxi attualmente svolge questo servizio «match» in fase sperimentale solo a Varsavia).

    «Se due passeggeri vogliono condividere un auto li mettiamo in contatto, avvertiamo il tassista del percorso per recuperarli entrambi. In questo momento la condivisione è abilitata solo su alcune tratte: oggi per andare per esempio in aereoporto o in occasione di eventi grandi o piccoli, soprattutto serali. Movement, Kappa Future Festival ma anche matrimoni e feste», racconta Massimiliano Curto, uno dei sei ingegneri ora amministratore delegato della start up.

    Wetaxi, partita a giugno 2017, in anticipo di due mesi rispetto all’arrivo in città di myTaxi, ha sicuramente permesso alle cooperative di far fronte in maniera efficace alla nuova concorrenza: sui 1400 taxi che girano in città circa 1200 hanno il logo di Wetaxi sulla portiera.

    We o My?

    Avremmo bisogno di una buona app per affrontare il dibattito sui taxi.

    Un gps che indichi bene le posizioni. Quella dei consumatori che pensano al risparmio è abbastanza distante da quella dei lavoratori che non vogliono vedere peggiorare la propria condizione. Quella dell’utente (una versione del consumatore meno attaccato ai soldi) che vuole il servizio migliore, non è la stessa della multinazionale che vuole «aprire nuovi mercati». E poi ci vorrebbe un sofisticato algoritmo che faccia incontrare queste posizioni. Ma che gli si dice all’algoritmo: di preferire le ragioni del consumo, del lavoro o degli investitori?

    E la tecnologia? È davvero facile cadere nella tentazione di raccontare la vicenda dei taxi vs Uber e dell’introduzione delle app come una campale battaglia tra vecchio e nuovo, tra conservatori e innovatori. Da un lato i tassisti con le loro auto simbolo del novecento, la poca propensione all’uso dell’inglese e le barricate a difesa del proprio interesse. Dall’altra nomi accattivanti, promesse di radiosi futuri, parole e facce smart, utopie digitali.

    Ma, come si è visto, l’innovazione tecnologica non è il tratto più rilevante. È, di fatto, piuttosto accessibile, la differenza la fanno i modelli organizzativi e regole del mercato. In un sistema di regolazione pubblica, l’attuale o riformato, le forme di controllo possono determinare gli equilibri non solo secondo la capacità finanziaria dei soggetti in campo. In un contesto liberalizzato, è probabile che le profezie dei tassisti si auto avverino. La concorrenza, come una gara di corsa, implicherebbe che ognuno parta dallo stesso livello. Pensare che la cooperativa di tassisti di una città abbia le stesse possibilità di competere di una multinazionale con potere finanziario tale da sostenere sconti per un lungo periodo, auto nuove ai tassisti a prezzi ribassati e pubblicità aggressiva è piuttosto illusorio. È probabile che dopo la fase iniziale di concorrenza ci troveremo con dei monopoli di fatto. La storia è abbastanza nota nella breve vita delle piattaforme: entri nel mercato a prezzi imbattibili, accumuli quote rilevanti del mercato e da lì in poi imponi le tue condizioni.

    Infine, se un tema tecnologico c’è, non è tanto nel confronto tra algoritmi ma sulla proprietà degli stessi e sui modelli economici che favoriscono. È qui, come in altri settori, c’è la questione di questi anni: cosa le innovazioni premiano, a favore di chi e secondo quali logiche che, praticamente mai, sono neutrali ma frutto di scelte e interessi.
    Chi la progetta un app per farci uscire da questo groviglio?


    Immagine di copertina: ph di Max Bender da Unsplash

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