Immaginario e riproducibilità algoritmica

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    In “La società dei consumi”, Jean Baudrillard vedeva nei nuovi “mezzi di consumo” rappresentati dai nascenti centri commerciali e dalle carte di credito le basi per lo sviluppo di una società dominata dall’immaginario “iperreale” dei consumi. Per Baudrillard i mezzi di consumo sono da intendersi come strutture oggettive che influenzano il comportamento delle persone, indirizzando e alimentando quel linguaggio di segni e “immagini mitiche” che il filosofo francese definisce proprio come “consumo”.

    Mezzo secolo più tardi, la diffusione senza precedenti dell’accesso a Internet e ai media digitali ha coinciso con la crescente disponibilità di modi radicalmente nuovi di produrre e, soprattutto, consumare beni e servizi. Come i centres commerciaux descritti da Baudrillard, anche le nuove tecno-strutture del web commerciale non sono ambienti neutri.

    Essi esercitano un potere di influenza sull’utente/consumatore, e dunque sugli immaginari e sui discorsi che abitano la “società in rete”. La principale discontinuità rispetto ai mezzi di consumo del passato sta nell’imperscrutabile natura algoritmica del loro funzionamento. Facebook, Twitter, Amazon, Spotify, YouTube, così come la maggior parte dei siti di e-commerce, news, intrattenimento, utilizzano algoritmi che, elaborando in tempo reale grandi moli di informazioni sul comportamento degli utenti, modellano e personalizzano la nostra esperienza quotidiana di consumatori digitali. E’ il caso, ad esempio, dei suggerimenti automatici forniti dai sistemi di raccomandazione o recommender systems – ciò che, secondo le logiche dell’algoritmo, “potrebbe interessarti anche” durante la tua navigazione online.

    Generando in automatico associazioni tra oggetti attraverso tecniche di data mining, i recommender systems contribuiscono a tracciare connessioni simboliche mediaticamente condivise, oggettificando le pratiche di consumo largamente diffuse tra gli utenti a discapito di quelle minoritarie, desuete. Per esempio: Amazon.it ci informa che “La società dei consumi” di Baudrillard è “spesso comprato insieme” a “La condizione postmoderna” di Lyotard e a “La società dello spettacolo” di Debord, ma non ci dice nulla sul “talvolta” e sul “raramente. Questo tipo di suggerimenti automatici possono essere dunque interpretati come l’inedita, automatica e istantanea materializzazione del livello macro-sociale delle associazioni semantiche che costituiscono l’immaginario condiviso, proiettato nel micro dell’esperienza individuale online.

    Con il crescente controllo esercitato dagli algoritmi sulle nostre percezioni ed esperienze digitali, anche la costruzione e circolazione dell’immaginario sociale subisce l’effetto del potere algoritmico. I 25 video correlati presentati da YouTube in corrispondenza di un filmato qualsiasi del crollo delle Twin Towers rappresentano circa lo 0,1% degli oltre ventimila risultati in italiano sull’argomento disponibili sulla piattaforma. Essi, secondo una logica affine a quella adottata da Amazon, sono selezionati in primis sulla base del comportamento collettivo degli utenti del sito e canalizzano una fetta importante dell’audience del filmato in questione. Questa sorta di ”agenda setting” algoritmica, a differenza di quella esercitata da un media broadcast come la televisione, è caratterizzata da un’apparente neutralità, così come da un intento predittivo che però, nella pratica, tende a diventare fortemente “prescrittivo”.

    Quello che comunica l’algoritmo non è soltanto “le opere di Baudrillard, Debord e Lyotard sono spesso comprate insieme”, ma anche: “se leggi Baudrillard non puoi non leggere Debord e Lyotard”. Si tratta della materializzazione istantanea e sistematica del livello “macro” del sociale – i trend culturali dominanti nella “folla digitale” – proiettato nel “micro” dell’esperienza individuale online.

    La folla in questione non è una massa indifferenziata: dal punto di vista dell’algoritmo essa è scomponibile in una miriade di categorie segmentate matematicamente sulla base delle informazioni disseminate in rete e i cui comportamenti determineranno in tempo reale quali oggetti saranno messi in relazione tra loro dai suggerimenti automatici. Il fatto che nel caso del sistema di raccomandazione di Amazon (e di molte altre piattaforme) queste associazioni siano decise sulla base di un principio strettamente quantitativo – la frequenza dell’acquisto congiunto di due prodotti – non apre solo la questione di quale idea di “cultura” sia veicolata dalle righe del codice informatico. Suggerisce l’idea di un utente che, posto di fronte al comportamento della “maggioranza silenziosa” dei suoi “simili” (coloro che hanno consumato digitalmente uno stesso video, articolo, brano musicale, prodotto), subisce una versione 2.0 della “spirale del silenzio” descritta da Noelle-Neumann, per la quale si conforma al gusto del gruppo non tanto per paura dell’isolamento, quanto per “comodità” – non a caso, l’aspetto più enfatizzato da chi fornisce servizi di raccomandazione automatica.

    Per far fronte all’overload informativo di Internet, il consumatore digitale si affida frequentemente all’approssimazione matematica dei suoi desideri sotto forma di suggerimenti automatici. Dal punto di vista degli sviluppatori informatici e degli esperti di marketing, l’intermediazione algoritmica è descritta come un passo in avanti per quanto riguarda la diversificazione della fruizione mediatica e culturale. Quello che viene raramente considerato è che i suggerimenti dell’algoritmo, per quanto efficaci possano essere nell’ampliare il repertorio musicale dell’utente, soffriranno sempre di path dependence (dipendenza dal percorso): se abbiamo letto Baudrillard, ci verrà consigliato Debord o Lyotard, ma certamente non un romanzo giallo di bassa lega. L’assunto implicito nei codici degli algoritmi è che vogliamo continuare a fare più o meno quello che abbiamo già fatto in passato, o comunque quello che “quelli come noi” fanno di solito.

    Incapsulati nelle nostre identità algoritmiche, siamo spinti a comportarci in maniera coerente con le aspettative del codice, a non deviare dalla norma. Ciò non significa che i pubblici dei siti Internet siano da considerarsi passivi e influenzabili come quelli televisivi nelle teorie dei mass media del dopoguerra. Al contrario, i sistemi di raccomandazione presuppongono un soggetto attivo e autonomo da cui imparare per poterne soddisfare adeguatamente i “bisogni”. Una delle ragioni dell’invisibilità del potere algoritmico sta proprio nella sua assenza dalle righe del codice: la sua pratica viene esercitata nella relazione tra le regole generative del codice software e la variabilità del comportamento umano.

    Così l’immaginario sociale, nell’epoca della sua riproducibilità algoritmica, risente di un fenomeno simile a quella “produzione industriale delle differenze” che Baudrillard imputava alla pubblicità, vista come produttrice di “differenze ‘personalizzanti” le quali “non oppongono più gli individui gli uni agli altri”, ma “convergono in modelli, a partire dai quali esse sono sottilmente prodotte e riprodotte”. Se impieghiamo la metafora della “coda lunga” per descrivere la caleidoscopica varietà di rappresentazioni e significati associati alle Twin Towers, ai The Doors, alla Nutella o a qualsiasi altro oggetto culturale che gravita nell’immaginario collettivo, possiamo ipotizzare che la progressiva esternalizzazione all’algoritmo delle nostre scelte di consumo – e, in ultima istanza, della definizione delle nostre identità – comporti a lungo tendere un accorciamento della coda, una riduzione della complessità simbolica, giustificata dalla semplificazione delle nostre vite e mirata alla loro totale mercatizzazione. Un immaginario, quindi, omogeneizzato nella differenza, la cui variabilità interna ai target di consumatori si riduce mentre quella esterna viene alimentata e riprodotta algoritmicamente.


    Estratto e riadattato da:
    Airoldi, M. (2015) “You might also be interested in: recommender algorithms and social imaginary, the case of YouTube”, IM@GO, 6: 132-150. Articolo scaricabile liberamente qui

    Immagine di copertina: Michael Dziedzic – Unsplash

    Note