Susan Sontag: La parola intellettuale stimola associazioni mentali superflue

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Pubblichiamo un estratto dall’intervista di Tom Robotham a Susan Sontag sul ruolo dell’intelletuale. L’intervista è contenuta nel volume Oltre la letteratura. Conversazioni con Susan Sontag curato e tradotto per Medusa edizioni da Luana Salvarani.

    All’interno del volume si chiarisce il senso e lo spazio dell’essere intellettuale secondo una delle più importanti figure culturali del nostro tempo, un modo per riflettere del tema in occasione dell’incontro di Rosetta per domenica 25 marzo alle 19.00 a Bookpride che vedrà protagonisti: Maria Grazia Giannichedda, Paolo Nori, Daniele Giglioli, Giulia Blasi e Francesco Pecoraro.

    rosetta incontro 25 marzo base milano


    Molti anni fa, ha detto qualcosa al Dick Cavett Show che mi è sempre rimasta in mente. Il punto essenziale era questo: se si identifica come “intellettuale” non significa che ha una visione sopravvalutata della propria intelligenza, è semplicemente un riflesso delle sue passioni – del suo interesse alle idee e alla vita della mente. Questo mi ha colpito perché stavo leggendo con molto interesse il libro di Richard Hofstadter Anti-Intellectualism in American Life.

    Sì, è uno dei miei quindici argomenti preferiti. C’è una profondissima tradizione anti-intellettuale in questo Paese. Si dice sempre scherzando che il libro di Hofstadter è troppo corto: un libro con questo titolo dovrebbe essere in più volumi. Tuttavia, ho sentimenti contrastanti sul termine “intellettuale”. Penso che stimoli le persone a molte associazioni mentali superflue, così a volte cerco di disconoscerlo.

    D’altra parte, non credo neppure sia il caso di essere sulla difensiva. Non chiamo me stessa un’intellettuale perché non penso sia una parola, per quanto mi riguarda, che qualcuno dovrebbe usare per sé stesso. Se mi chiedono cosa faccio, dico che sono una scrittrice. Ma se sei uno scrittore, o qualcosa di simile, che legge molto – se veramente ami leggere e realmente ami imparare molto su molte cose differenti, allora “intellettuale” diventa l’etichetta che ricevi. In un certo senso è perfettamente comprensibile, ma è anche nocivo in una cultura che ha molti pregiudizi, il che penso sia piuttosto irragionevole, sugli intellettuali.

    Ci sono persone, per esempio, che gradiscono – io lo trovo orribile – che Bush non abbia nulla di intellettuale. Nulla. Il modo in cui parla, il tipo di linguaggio che usa, o che è inventato per lui per creare il suo personaggio… Per alcuni tutto questo è molto rassicurante. Significa che lui è in contatto con i suoi sentimenti, o che sarà molto chiaro sul piano morale, o che non verrà coinvolto in strane complicazioni.

    È quasi la personificazione della tesi di Hofstadter.

    Sì, esattamente. Un tempo non era così. Presidenti come Washington, Jefferson, Lincoln, Woodrow Wilson, Franklin Roosevelt non avevano affatto paura di essere ritenuti dotti ed eloquenti. Ma l’anti-intellettualismo è diventato molto potente in questo Paese.

    Il libro di Hofstadter è un vecchio libro, ma se fosse ancora qui per riscriverlo avrebbe oggi molto più materiale, penso. La situazione non è diventata migliore. Ma allo stesso tempo è ipocrita perché ognuno sa che quelle persone dette “intellettuali” sono molto utili, sono essenziali, e che la società non funziona senza di loro.

    Mi interessa anche sapere cosa pensa del termine “intellettuale pubblico”, che è diventato di uso comune recentemente.

    Penso che sia un’etichetta inutile – ma più o meno so cosa intendono. E forse non è pericoloso. Semplicemente significa che alcune persone – spesso scrittori, ma non è necessario che lo siano – si sentono obbligati o attratti dalla partecipazione ad ampi dibattiti pubblici.

    Forse non hanno speciali qualifiche, se non quella di essere intelligenti e avere una coscienza, e quindi vogliono essere parte del dibattito pubblico.

    Questo è avvenuto per centinaia di anni. Ma, è strano, ha proprio ragione lei. Ricordo la prima volta che ho notato l’uso del termine. Sono stata presentata come «una delle principali intellettuali pubbliche in America», e ho detto «Wow, interessante». Non credo sia più di dieci anni fa. E semplicemente significa che sei disposto a dire la tua o che vuoi dire la tua.

    … e lei ha un pubblico oltre le mura dell’accademia.

    Sì, non sono nel mondo accademico, sebbene avrei potuto esserci. Quando ero studente pensavo: naturalmente non potrò mantenermi scrivendo, così dovrei insegnare. Non volevo insegnare inglese, volevo insegnare filosofia. E così ho fatto poco dopo i vent’anni. Poi, quando uscì il mio primo libro mentre mi avvicinavo ai trenta, ho pensato no, voglio provare a essere una freelance. Mi preoccupavano la sicurezza e la comodità del mondo accademico – la cosa che attrae di più mi sembrava un possibile pericolo. Penso che la comodità isoli, la sicurezza isoli. A breve termine va bene, ma alla lunga non penso sia la cosa migliore per un futuro scrittore.

    In un certo senso, ho ancora troppo rispetto per il mondo accademico per usarlo come strumento per pagare l’affitto. Penso che mi coinvolgerebbe molto. Ho quel temperamento. Ma voglio avere una più ampia connessione con la realtà, e voglio parlare di cose che implicano essere in grado di viaggiare e trovarsi in strani luoghi. E non voglio quel mondo ristretto – sebbene sia un mondo che molto ammiro e rispetto.

    Note