Rap e Hip hop sono ormai una presenza fissa nei programmi radio-televisivi, dai talent show alle rassegne musicali come il Festival di Sanremo, nella editoria, nei contenuti in tendenza dei social media e in cima alle classifiche dei dischi, nonché fattore trainante nel rilancio dell’industria musicale italiana. Eppure, il fenomeno resta quasi ignorato dall’accademia e materia di trattazione superficiale da parte dei media mainstream non specializzati.
Vorrei utilizzare lo spazio di questo articolo, che riprende un mio saggio di recente pubblicazione, per mettere a terra, da accademico e rapper, alcune riflessioni preliminari per una agenda di ricerca sulla cultura Hip hop in Italia. Vorrei concentrarmi in particolare sulla tensione insita nel rap fin dalle sue origini, tra oggetto di sussunzione al mercato e mezzo di emancipazione e auto-rappresentazione non mediata delle classi subalterne, tentando di capire entro quali condizioni tale tensione si dia nel quadro attuale alla luce della ristrutturazione dell’industria musicale e dell’espansione di Internet e piattaforme.
Partiamo da alcuni numeri. Il Music Listening Report del 2019 rilasciato dalla IFPI (2019) colloca Hip hop e rap al quarto posto tra le preferenze musicali del pubblico; il genere è il più ascoltato per una persona su quattro tanto in Italia quanto a scala globale. Il fatto che la stessa percentuale superi il 50% nella fascia di 16-24enni fornisce poi una informazione rilevante circa le prospettive di espansione commerciale del rap nei decenni a venire. Che effetto farebbe se vi dicessi che questa rivoluzione culturale che ha investito l’industria discografica globale nasce dall’intuizione di adolescenti di origine migrante del Bronx con una modesta istruzione e manco un dollaro in tasca? Ci torneremo.
I dati ci dicono anche che Hip Hop e rap stanno trascinando il mercato musicale italiano, che nel 2019 registr sva il risultato migliore del quinquennio con una crescita del 8.2% e 247 milioni di euro di valore generato (ibidem, 2019a). Sempre nel 2019, tra i primi 100 album più venduti (Fimi, 2019), quelli firmati da rapper, ex rapper prestati alla musica pop e produttori di musica rap sono 46, di cui quattro tra i primi dieci in classifica. Gli album di rapper internazionali sono solo sette. Come reagireste se vi dicessi che 38 di questi album sono di artisti direttamente riconducibili alla scena underground, di cui 14 hanno interrotto anzitempo il percorso di istruzione secondaria di secondo livello, mentre estrazione di classe medio-bassa/bassa e trascorsi di occupazione precaria sono comuni a quasi tutti? Torneremo anche su questo.
Per ora, a scanso di equivoci, lasciatemi dire che, se ritenete si tratti ‘solo’ di musica, è il caso vi ricrediate: il sistema produttivo culturale italiano copre il 6.1% della forza lavoro e il 6.1% del PIL, con un fatturato in crescita vicino ai 96 miliardi nel 2018, e una stima dell’effetto moltiplicatore sulla filiera che approssima il 17% del valore aggiunto nazionale (Symbola, 2019). Quando parliamo di rap come fattore innovativo trainante dell’industria musicale parliamo dunque di un motore di un pezzo notevole dell’economia nazionale.
Per esigenza di sintesi, definirò le origini di questo fenomeno, la composizione sociale di cui è emanazione e che rapporto intrattiene con il mercato musicale servendomi di due istantanee.
La prima si situa nel quadro desolante di crisi economica, declino urbano e segregazione etnica del Bronx degli anni Settanta, e dice molto delle componenti sociali che diedero vita alla cultura Hip Hop. È l’agosto del 1973, quando Kool Herc, giovane migrante giamaicano, organizza nel suo blocco di affordable housing la prima di quelle leggendarie feste del Bronx da cui tutto iniziò (Chang, 2009). In quelle feste, ispirate alle dance hall giamaicane, deejay facevano vibrare le casse suonando i giradischi come uno strumento musicale, mentre MC, al microfono, supportavano le performance con invettive via via più elaborate, ponendo così le basi per la nascita del rap. Kool Herc inventò il breakbeat sintetizzando la matrice ritmica alla base del rapping; Grandmaster Flash, un altro adolescente barbadiano, affinò l’intuizione con tecniche come il Quick Mix. Di più, sfruttando fondamenti di elettrotecnica acquisiti da studente di una public vocational school del distretto, egli apportò migliorie artigianali al DJ mixer—integrandovi un cross-fader rudimentale (Pipitone, 2008: 110). Conoscete poco la materia? Vi basti sapere che tali innovazioni rivoluzioneranno tanto i canoni stilistici della musica pop, quanto l’aspetto dei dispositivi elettronici musicali per DJ. Mica male per due giovani migranti di un distretto povero di New York.
La seconda istantanea, ambientata sempre a New York, definisce i termini del rapporto tra il fenomeno e l’industria musicale. La popolarità delle feste del Bronx attirò ben presto l’interesse delle indipendenti (Chang, 2009: 131). Fu la produttrice discografica afro-discendente Sylvia Robinson la prima a scritturare tre ignoti facendone la Sugar Hill Gang e realizzandoci il primo brano rap mai inciso, ‘Rapper’s Delight’. L’idea era semplice: condensare in 15 minuti l’essenza delle feste per renderne commerciabili le liriche di MC di talento. Il resto è storia. Il brano divenne un successo globale e lo stimolo per altre crew a cercare un contratto discografico (Pipitone, 2008: 202). I pezzi incisi divennero più brevi e con ritornelli e strofe, in aderenza ai canoni di mercato della musica pop (Chang, 2009: 217). Ne derivò un rapporto osmotico tra mercato musicale e circuiti underground che segnala anche oggi la tensione del rap tra sussunzione al mercato e mezzo di emancipazione e auto-rappresentazione per minoranze etniche cui sono state a lungo negate le condizioni stesse di esistenza culturale (Peck, 2016).
Per arrivare al rap in Italia, è necessario un altro passaggio. Se la cultura Hip Hop faceva negli anni Novanta il suo ingresso dirompente nel mercato musicale, quello stesso mercato stava però per essere travolto da epocali trasformazioni tecnologiche e digitali. Allungare lo sguardo su di esse serve a comprendere i termini mutevoli della dialettica tra sussunzione ed emancipazione sottostante il fenomeno.
L’espansione globale dell’industria musicale frenava dal 2000 a causa della comparsa dei sistemi di condivisione peer-to-peer che aprirono la strada alla fruizione informale di massa della musica in Internet e, in combinato disposto con gli sviluppi (come, dal 1998, l’avvento di lettori MP3) nel campo della microelettronica (Leurdijk & Nieuwenhuis, 2012: 21), al crollo delle vendite di CD. Le major scontavano ritardo tecnologico e competizione di altri settori dell’intrattenimento digitale che ne avevano indebolito il controllo sulle scelte di consumo della cruciale fascia giovanile (Leyshon et al., 2005: 184). Negli anni Duemila, Apple, grazie a uno scatto in innovazione tecnologica, assumeva poi ruolo dominante nella distribuzione digitale e la grande distribuzione soppiantava i rivenditori specializzati (Hracs, 2011: 17). Per le major—incorporanti ormai ogni aspetto di produzione, stampa, distribuzione e promozione—ciò si tradusse in perdita di controllo sulla catena produttiva.
Le stesse ragioni della crisi fornirono alle major i fattori per la rinascita degli anni Dieci. La distribuzione era ora egemonizzata dalla piattaforme online, anche grazie all’avvento di dispositivi smartphone. Al contempo, però, le major non crollarono, ma incrementarono le interazioni con social media e altri segmenti dell’intrattenimento, nonché i ricavi nello sfruttamento del copy right (Wikström, 2010) attraverso accordi con le piattaforme online.
L’orientamento degli investimenti delle major verso la ristretta cerchia di artisti e repertori più remunerativi si accompagnò poi, anche grazie alle opportunità offerte da Internet, al disimpegno da funzioni di ricerca e sviluppo e alla socializzazione verso il basso dei rischi annessi (Hracs, 2011: 20). Mentre processi di aggregazione—dietro impulso di capitale finanziario e colossi delle telecomunicazioni—ponevano nelle mani di tre major (Sony Music Entertainment, Universal Music Group, Warner Music Group) il 70% del mercato (Leurdijk & Nieuwenhuis, 2012: 30), il comparto delle indipendenti registrò una parallela espansione dagli anni Duemila, accentrando su di sé i costi dell’innovazione (ibidem: 31). La circostanza non allude a un avvicendamento ma ad complementarietà rivelatrice dei rapporti di potere che governano l’industria musicale e della natura estrattiva dell’azione delle major.
La portata di queste trasformazioni è sostanziale. I dati IFPI (2019) segnalano come, nel 2019, a scala globale, l’89% del pubblico interpellato abbia fruito di musica via streaming on demand; nella fascia di 16-24enni, il 63% del campione dichiara di aver fruito di musica in streaming anche il giorno prima, mentre il 52% afferma di aver utilizzato servizi di distribuzione di musica in streaming a pagamento nel mese precedente.
Nella distribuzione del tempo di ascolto musicale per dispositivo, lo smartphone, con una percentuale del 27%, è il mezzo più utilizzato insieme alla radio; con gli altri dispositivi mobili e gli smart speaker (che possiamo assumere come mezzi di fruizione musicale in streaming), anche escludendo pc/laptop, la percentuale rasenta il 35% (il 30% in Italia). Anche qui, la fascia di 16-24enni mostra una inclinazione superiore a qualunque altra fascia, con una percentuale di circa il 44% per il solo tempo di ascolto via smartphone. La cifra generazionale della rivoluzione intercorsa nella fruizione musicale è chiara.
Questo ci porta al caso italiano. Qui, a fine anni Ottanta, il fenomeno delle posse impose per primo il rap (in versione politicizzata) all’attenzione del pubblico. Se ad esso pure si devono le prime sperimentazioni nel campo della produzione musicale digitale in Italia (Niessen, 2009: 69), è però dai primi anni Novanta che lo sviluppo del movimento Hip Hop inaugurò una stagione di attivismo culturale—dominata da autoproduzione e distribuzione informale, nonché feste e appropriazione simbolica di spazi urbani come nodi di relazioni—che, oltre ad attivare l’interesse di media e label, costituì un incubatore decisivo per la crescita del rap in Italia e la sua successiva esplosione commerciale.
Nella seconda metà degli anni Duemila, non a caso, a tirare la ripresa dell’industria musicale saranno proprio artisti la cui formazione aveva attinto e contribuito alle innovazioni del decennio precedente. È il caso di Fabri Fibra, Club Dogo, Marracash e Inoki, la cui affermazione—che contribuì a quella di altri artisti come Clementino, Luchè, Noyz Narcos e Salmo—avvenne in parallelo all’ascesa di rapper più giovani come Mondo Marcio e, a inizio anni Dieci, Emis Killa, Fedez, Gemitaiz, Madman e Rocco Hunt, sostenuti comunque da esponenti della scena degli anni Novanta. Dietro il successo di questi nomi si dovrebbe dunque menzionarne altrettanti, dal cui generoso lavoro culturale il successo di mercato del rap ha attinto a piene mani.
Il caso italiano esemplifica come la ristrutturazione dell’industria musicale trovò nel rap un fattore propulsivo. Innanzitutto, la specificità della produzione culturale Hip Hop permise un contenimento dei costi, trasferendo il processo di creazione musicale dalle label all’entourage di crew e rapper sotto contratto (dove producer e autori sono tipicamente interni alla crew e alla sua cerchia).
L’industria musicale ha poi trovato nel rap un terreno fertile per socializzare i costi di ricerca e sviluppo. Indipendenti come Vibra furono cruciali per l’emersione di figure chiave come Fabri Fibra, Club Dogo, Marracash, le quali, a cascata, hanno creato indipendenti che, in partnership con le major, sono alla base dell’esplosione del fenomeno negli anni Dieci. Le major hanno potuto contare perciò sul ruolo di cerniera giocato da indipendenti come Roccia Music, Tanta Roba e Tempi Duri con i circuiti underground, delle cui innovazioni le prime si avvalgono ora tramite le seconde.
Mentre il mercato tornava a crescere, negli anni 2010, l’industria musicale si misurava quindi con l’esplosione del fenomeno trap—con il successo commerciale, tra gli altri, di Achille Lauro, Ghali e Sfera Ebbasta, lanciati dalle stesse indipendenti di cui sopra. Ma la funzione di cerniera delle indipendenti è la punta dell’iceberg. La diffusione di software gratuiti o crackati per la produzione musicale ha infatti moltiplicato le possibilità di creare musica da casa con costi contenuti.
Il ruolo di questi software nella autonoma sperimentazione e crescita artistica di producer e rapper è divenuto fattore ulteriore per la trasmissione verso il basso delle funzioni di ricerca e sviluppo. La catena del valore, perciò, non coinvolge più solo le indipendenti, bensì l’intera scena, usufruendo delle forme di cooperazione sociale implicate nella auto-produzione musicale diffusa.
In sostanza, le major non scommettono più su uno spettro di artisti sotto contratto nell’aspettativa di ricavarne un ‘caso’ in grado di ripagare l’investimento a pioggia. Piuttosto, la scena rap è per esse un campo di sperimentazione autosufficiente, dove le indipendenti selezionano talenti già con riscontro di pubblico tra una massa di rapper e producer che investono da sé risorse finanziarie, relazionali e di tempo nella propria maturazione artistica e in promozione digitale via social media.
Si ripropone qui l’argomento portante di questo articolo: l’ambivalenza che informa l’intera storia del rap, tra sussunzione al mercato e forma di auto-rappresentazione della subalternità.
Da un lato, il funzionamento dei social media modifica il lavoro di rapper e producer (individualizzando e imprenditorializzando l’esperienza artistica anche tra esordienti) e la funzione del pubblico (soggetto produttivo nella creazione e circolazione di contenuti), assegnando così portata di massa alla socializzazione verso il basso delle funzioni di ricerca e sviluppo da parte delle major (e a beneficio del capitale finanziario che ne controlla le leve). Dall’altro, il rap fornisce ad adolescenti di classe medio-bassa/bassa, NEET sovente, e per la prima volta anche di origine migrante, non solo un mezzo accessibile di affermazione di status, ma anche un canale non mediato per rappresentare propri immaginari, condizioni sociali e aspirazioni. È un fatto culturale che non ha precedenti nella storia delle classi subalterne e che, a prescindere dal giudizio su tali contenuti, non può essere ignorato.
Ora viene quel momento di un articolo dove dovrei presentare le mie conclusioni, ma non ho conclusioni da presentare. Piuttosto, voglio qui enfatizzare alcune dimensioni che la mia ricostruzione espone, affinché possano divenire materia di dibattito (oggi), per una agenda di ricerca (domani) e una discussione collettiva a venire a cavallo tra attivismo culturale, accademia e chi ne ha.
La prima questione che richiede indagine è proprio come e con quali esiti la tensione insita nel rap tra sussunzione e auto-rappresentazione si articola nella fase attuale tra interessi finanziari delle major e istanze culturali di chi scrive e compone.
La seconda interroga le ricadute sui circuiti underground di quella che ho definito socializzazione di massa dei costi di ricerca e sviluppo operata dalle major attraverso i social media, e se (e in che termini) l’estrattivismo a cui il meccanismo allude produca un impoverimento culturale e materiale degli stessi circuiti underground.
La terza questione riguarda la comprensione delle forme di cooperazione sociale che presiedono alla creazione di valore nel quadro di economie immateriali: la centralità di componenti sociali subalterne nell’industria multimilionaria del rap invoca un ripensamento radicale di teorizzazioni sulla ‘classe creativa’ che hanno ambiguamente avvallato processi di espulsione urbana di minoranze e classi medio-basse a favore di popolazioni ad alto grado di reddito e qualifica (Lees, Slater e Wyly, 2008: xx), attribuendo alle seconde doti messianiche che, con tutta evidenza, spetterebbero forse alle prime.
Infine, se assumiamo che le trasformazioni osservate costituiscano un processo di commodificazione della cultura Hip Hop, varrebbe la pena interrogarsi su quali condizioni potrebbero assecondare dinamiche di segno contrario di de-commodificazione e, nel caso, in che misura proprietà associate al fenomeno (come strumento, ad esempio, di auto-imprenditorialità, empowerment e voice) potrebbero trovare impiego nella sfera delle politiche pubbliche urbane.
La carne al fuoco è parecchia, ma il tema merita tutta l’attenzione del caso.
Bibliografia
Chang, J. (2009). Can’t stop, won’t stop. L’incredibile storia sociale dell’Hip Hop. Milano: Shake Edizioni.
Fimi (2019). Top 100 album Italia. Classifica annuale (dal 28 Dicembre 2018 al 26 Dicembre 2019), testo disponibile qui
Fimi (2019a). Mercato discografico: in Italia Covid-19 fermerà la crescita nel 2020
Hracs, B. J. (2012). Restructuring and risk in the digital music industry. Martin Prosperity Institute, Rotman School of Management, University of Toronto.
IFPI (2019). Music Listening Report 2029, London.
Lees, L., Slater, T., e Wyly, E. (2008). Gentrification. Routledge: New York.
Leyshon, A., P. Webb, P., French, S., Thrift, N. e Crewe L. (2005). On the reproduction of the musical economy after the Internet. Media, Culture and Society 27(2): 177-209.
Leurdijk, A., e Nieuwenhuis, O. (2012). Statistical, Ecosystems and Competitiveness Analysis of the Media and Content Industries: The Music Industry. Joint Research Centre, European Commission, Bruxelles.
Niessen, B. (2009). Going commercial. L’integrazione degli artisti underground a Milano e Berlino. Tesi di Dottorato non pubblicata, Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Peck, R. (2016). I am not your nigro. Milano: Feltrinelli.
Pipitone, G. (2008). Renegades of funk. Il Bronx e le radici dell’Hip Hop. Milano: Agenzia X.
Wikström, P. (2010). The Music Industry. Music in the Cloud. Digital Media and Society Series.
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