Il sabotaggio delle macchine come strumento decellerazionista

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    In un interno giorno poco assolato un robot ha appena smesso di aspirare il pavimento inviando una notifica ad un’app che ne controlla i turni di pulizia, nello stesso istante le mail programmate hanno raggiunto la casella di tutti i destinatari e l’ordine per la spesa per l’intera settimana è stata appena confermata. C’è del tempo sottratto al lavoro domestico e al lavoro stesso, qualunque esso sia, è un tempo liberato da tutte queste mansioni ma non è libero, un generatore di testo sta suggerendo delle connessioni su cui finalmente iniziare a pensare.

    Potrebbe iniziare così la giornata di molte persone che lavorano da casa, la lista delle mansioni demandate a dei bot o totalmente automatizzate potrebbe essere molto nutrita e di sicuro in costante aggiornamento. Tutto è abbastanza innocuo e niente sembra poter’ compromettere la qualità di vita di qualcun altro; dimenticavo, è quasi ora di pranzo e non credo che ci sia tempo per cucinarsi qualcosa. Bisognerà ordinare e aspettare che consegnino, ma l’app dice che in meno di dieci minuti i ravioli saranno all’ingresso del palazzo. C’è un articolo del New York Times che definisce alcune di queste azioni come parte di un lifestyle ben definito. Eppure non è sempre andata in questo modo, non siamo sempre stati tanto dipendenti da questa enorme mole di servizi offerti da startup digitali. Vorrei partire proprio da questa accettazione pressoché benevola e generalmente acritica, per comprendere se queste ipotetiche esperienze quotidiane dicano qualcosa in più sul rapporto di autonomia e dipendenza che esiste nella relazione tra macchine e persone, abbozzando una definizione dei rapporti di forza tra le due parti.

    Insomma è lecito chiedersi quanto all’aumentare della presenza di servizi automatizzati, diminuiscano le possibilità delle persone di poterne fare a meno. Ovviamente il tema può essere affrontato da più prospettive, qui proverò ad inquadrarlo nella più ampia questione sull’automatizzazione dei processi produttivi e sul limite eventuale o scongiurabile della stessa automazione. Una delle questioni più dibattute intorno allo sviluppo dell’automatizzazione nel lavoro è sempre stata quella sull’effettiva potenzialità delle macchine e nella paventata minaccia o promessa di poter rimpiazzare gli esseri umani nelle loro mansioni.

    E’ lecito chiedersi quanto all’aumentare della presenza di servizi automatizzati, diminuiscano le possibilità delle persone di poterne fare a meno.

    Un dibattito polarizzante in cui si contrappongono posizioni catastrofiche, in cui a narrazioni su masse affamate brandenti forconi e fiaccole e distruggenti ogni forma di meccanismo si oppongono altre in cui la piena automatizzazione promette di garantire futuro e reddito per tutti. La realtà dei fatti però non sta in nessuno di questi due poli, a dire il vero è qualcosa che non sta nemmeno in un ipotetico centro. La questione, infatti, è più di natura dialettica e deve tenere conto dei contesti più che delle possibilità. Una questione storicamente determinata e che quindi si confronta con le evoluzioni di tutto il lavoro e con l’affermarsi di condizioni di vantaggio e non di esclusione.

    Quindi, se l’automazione e il lancio di un bot sembrano già in grado di risolvere applicativamente lo sforzo del povero Joseph Conrad alla finestra, il cui unico cruccio era di spiegare alla moglie zelante il suo lavorare guardando il mondo passare, il rischio sembra essere la scomparsa del paesaggio fuori dalla finestra. La domanda non è su cosa possa o non possano fare le macchine, ma su quanto queste siano in grado di servire e non di essere servite. 

    Su questo tema si interroga un testo che dopo un anno dalla sua pubblicazione in lingua inglese, esce anche in Italia. Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro è un libro di Gavin Mueller edito da Nero per la collana NOT, il testo ripercorre storicamente le vicende luddiste1Con il termine luddismo si identifica un movimento di protesta operaia del XIX secolo in Inghilterra, che ha nel sabotaggio della produzione industriale il proprio scopo principale. Obbiettivo dei luddisti, che prendono il nome da un leggendario sabotatore e agitatore Ned Ludd, è quello di protestare contro i ritmi di lavoro imposti dall’industria tessile, distruggendo macchinari come il telaio meccanico, introdotti durante la rivoluzione industriale. , confutando una serie di pregiudizi sul movimento e rileggendo la prassi del distruggere i macchinari e del sabotare i sistemi di produzione proto-industriali e industriali, in un’ottica esplicitamente tattica.

    Mueller, infatti, situa l’esperienza luddista in una più ampia archeologia delle lotte di classe, in cui l’opposizione alla tecnologia di produzione è un tentativo di frenare il vortice accellerazionista in cui la classe dei lavoratori annaspa a seguito dell’espansione del ruolo degli apparat di automazione.

    Il tema è oggetto di dibattito all’interno della tradizione marxista e la biforcazione o meglio pluriforcazione ideologica susseguente, non è altro che l’interpretazione polisemica della controversa relazione tra Karl Marx e le macchine, espressa in frammenti vari tra il Capitale e i Grundrisse, in cui la tecnologia viene esaltata ma anche stigmatizzata. Ma come è possibile attualizzare l’esperienza luddista nella società contemporanea? Tutto parte dagli effetti dell’automatizzazione sul lavoro e di conseguenza sui lavoratori, effetti che troppo spesso sono stati considerati imponderabili ma con cui lavoratrici e lavoratori devono affrontare quotidianamente. Uno di questi effetti è l’aumento della velocità del lavoro e la diversità di ritmo tra l’azione umana e l’incedere della macchina. Un’anarmonia che ha una sua storia e che è testimoniata nelle rappresentazioni comico/critiche della Slapstick commedy – che si afferma negli stessi anni del fordismo.

    L’affanno di Charlie Chaplin sulla catena di montaggio in Tempi moderni (1936) o la lotta di Buster Keaton con il treno di Come vinsi la guerra (The General) del 1927, testimoniano il sistema cronodeterminato pensato da Frederick Taylor per la sua Organizzazione scientifica del lavoro (1911). Un sistema in cui l’automazione e la segmentazione del lavoro, necessità dell’interazione e coabitazione di persone e macchine e in cui spesso le une devono inseguire le altre. Dopo l’organizzazione tayloristica delle sue catene di montaggio, Henry Ford dovette fare i conti con un enorme numero di defezioni dovute, tra le altre cose, al ritmo di lavoro insostenibile per operai ed operaie2Tra gli anni Dieci e gli anni Trenta, quindi prima della Seconda Guerra Mondiale, la percentuale di operaie si aggirava intorno all’1,5 % del totale dei lavoratori. Questa percentuale crescerà notevolmente durante l’economia di guerra. Per un calcolo dettagliato si rimanda allo studio statistico di Wayne A. Lewchuck, “Men and Monotony: Fraternalism as a Managerial Strategy at the Ford Motor Company”, in The Journal of Economic History, 53, 4/1993. . Il controllo della classe operaia, o meglio la creazione dell’“uomo nuovo” come sostiene Antonio Gramsci3Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, Torino, Einaudi, 2014, p. 2166., richiederà una struttura ideologica e di controllo come quella del Sociological Department4Nel 1914 John R. Lee, capo del personale alla Ford Motor Company, creò il Sociological Department, stabilendo un sistema di regole e codici di comportamento necessari ai dipendenti per qualificarsi e per poter richiedere la paga giornaliera di 5 dollari. Il Sociological Department controllava i dipendenti a casa, così come sul lavoro. Gli investigatori facevano visite a sorpresa nelle abitazioni dei dipendenti e valutavano la pulizia della casa, la composizione del nucleo a familiare, la frequenza scolastica dei figli e i registri bancari per verificare che i dipendenti facessero depositi regolari. Tra i compiti degli investigatori del Sociological Department vi era anche quello di assistere le famiglie dei lavoratori insegnando alle mogli la cura della casa, la cucina e l’igiene. in grado di forgiare operai capaci di reggere l’impatto della macchina.

    L’automazione quindi appare sin da subito un’imposizione biopolitica più che l’ampliamento delle possibilità del lavoro. Nel suo libro Mueller fa notare come un sentimento “luddista” stesse nello stesso Walter Benjamin, che nonostante le sue teorie tecnottimistiche sulla democratizzazione della cultura post-meccanizzazione foto-cinematografica, si mostra nettamente critico rispetto all’anarmonia tra uomo e macchina. Benjamin pensava all’inconciliabilità rivoluzionaria di queste due velocità e nonostante “Marx dica che le rivoluzioni siano la locomotiva della storia universale” le cose stanno in modo del tutto diverso, perché “Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno”5Walter Benjamin, Appendice a “Sul concetto di storia”, in Opere vol. VII, Torino, Einaudi, 2000, p. 520.. 

    Per Mueller il sabotaggio, più dell’appropriazione dei mezzi di produzione, è la tattica capace di spezzare il ritmo quando il controllo non è delle donne e degli uomini, ma esplicitamente delle macchine. Tecnoluddismo più che negare la macchina, sostiene l’inconciliabilità del processo di disumanizzazione del ritmo imposto dalle macchine al sistema produttivo. Muller, infatti fa notare che se in teoria l’automatizzazione dovrebbe soddisfare completamente il ritmo della spinta produttiva, nella realtà dei fatti a coadiuvare il tutto ci sono comunque gli esseri umani e che la storia è costellata di persone che si rivoltano al giogo delle macchine.

    Quindi se i luddisti distruggevano telai e i wobbilies (Industrial Workers of the World) conficcavano barre di metallo nel nastro della catena di montaggio, il nuovo proletariato cibernetico o cybertariato, come da definizione di Ursula Huws6Ursula Huws, Colin Leys, “The making of a cybertariat: Virtual work in a real world” in Monthly Review Press, 55, 3, 2003. , sta riproponendo il sabotaggio come freno, per dirla alla Benjamin, d’un sistema produttivo che reifica voglie notturne di gelato fritto, reificando a sua volta, chi è pagato (male) per soddisfare quelle stesse voglie. I lavori nelle piattaforme digitali, gli operatori dei call center e del telemarketing, l’universo di fattorini, manovratori della logistica e del delivering, così come gli addetti al back office degli ipermercati, del turismo e dei fast food o dei sempre più presenti dark store, sono i punti del visibile di un sistema opaco. I dark store, per esempio, basano il loro modello di business sulla loro stessa impalpabilità. Opachi e non accessibili al pubblico, ma massimamente visibili nei loro servizi, come da definizione di Bolter e Grusin7Jay David Bolter, Richard Grusin, Remediation – Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini, 2005., sono delle infrastrutture il cui successo dipende innanzitutto dalle capacità mediatiche e dalle possibilità di creare valore sfruttando il lavoro di qualificazione degli utenti.

    Questi servizi si pongono fuori dal piano del reale e pur promettendo una ridefinizione del rapporto tra tempo e lavoro, finiscono solo per imporre un’idea estrattiva e accumulatoria a discapito di un “lavoro vivo” invisibile che si muove a ritmi alla base di una nuova disumanizzazione. In questo sistema tecno-determinato ogni parte contribuisce allo scopo dell’iperproduzione. La tecnica non è neutra, non lo è negli esoscheletri in dotazione ai magazzinieri che promettono di ridurre lo sforzo per i carichi pesanti o negli occhiali blue blocker che garantiscono maggiore resistenza all’esposizione da radiazioni elettromagnetiche da monitor. Ogni estensione “postumana” è, infatti, assoggettata all’epistemologa del tecnocapitalismo globale. Queste protesi annientano le potenzialità dei cyborg e affermato un’automazione selvaggia in cui controllo sociale collima con accelerazione ed efficientamento. In sostanza diventare cyborg non comporta alcuna liberazione se il concetto di cyborg non viene a sua volta liberato dai costrutti del capitalismo8Il riferimento è all’auspicio di Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995.. Insomma, accelerare all’interno di questo sistema di produzione produce tanto Taylor e poca Harraway, in una disumanizzazione del lavoro che è questione di tempi ma anche una costante nel tempo.

    A questo punto dovrebbe essere chiaro che la domanda a cui Gavin Mueller da la sua risposta tecnoluddista, non è nei campi contrapposti, né può essere vista come un giudizio sulla tecnica. L’opzione tecnoluddista contemporanea sta nelle sfumature, nella possibilità di individuare e rendere manifesto il mismatch tra l’enormità della domanda potenziale di un web diventato mercato e poco altro, o nel sottolineare le condizioni di lavoro di chi è troppo occupato a correrci dietro. Il tecnoluddismo insomma è parte integrante dei nostri fastidi da lavoro, dei nostri sentimenti di techlash, del malcontento rispetto all’egemonia tecnologica nella vita e nel lavoro, del disagio rispetto al capitalismo informazionale con i suoi meccanismi opachi, delle sue black box e dei suoi modelli estrattivi di valore.

    Un approccio che più che proporre la distruzione memetica del computer alla badday.mpg, ci chiede di innalzare il sabotaggio a strumento decellerazionista. Alla fine non ci vuole molto, insomma si può sempre smettere, tirare quel benedetto freno e fare due passi, magari recuperare la nostra autoattività radicale e senza fermarsi guardarsi intorno e riconoscere nelle azioni degli altri tante altre azioni come la nostra. 

    Note