Scartare di lato, la società circolare

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    «In me non c’è che futuro» scriveva Adriano Olivetti in preda alla sua eterotopia di un fordismo dolce possibile, fatto di comunità, territorio, tecnica e impresa in grado di contaminare il secolo breve. «La creatività al potere», urlava la mia generazione animata dall’utopia di un altro mondo possibile. Era il Novecento, il secolo lungo della storia, delle nazioni e della potenza del conflitto tra capitale e lavoro, con lo Stato al centro nelle varianti interpretative, tra hegeliani di destra e hegeliani di sinistra, che si scontrarono a Stalingrado e oltre. Già alla fine del secolo passato, la mia generazione con le sue utopie, così come l’eterotopia olivettiana, ha fatto i conti con l’impatto con il «no future». Con una sconfitta del pensiero critico nelle sue varianti di una rivoluzione possibile e di un riformismo compatibile. Da qui una diaspora nel fine secolo a leccarsi le ferite, a guardarsi indietro per andare avanti, citando l’angelo della storia di Walter Benjamin e la sociologia delle macerie di Georg Simmel, per non rassegnarsi allo stato presente delle cose. Allora, scartai di lato.

    Lasciata l’autonomia del politico che interpretava il soggetto, tornai alle lunghe derive dei soggetti semplici, dei barbari, citando Abruzzese, che invece di seguirci nell’assalto al cielo si adeguavano facendosi sempre più «apocalittici e integrati». Per continuare a cercare e continuare a capire, più che ai cancelli della fabbrica fordista di Mario Tronti e dei Quaderni Rossi, alla fabbrica diffusa e al territorio occorreva tornare. Per capire come il capitalismo si facesse, passando dal fordismo al primo postfordismo, capitalismo molecolare. Fabbrica diffusa dove si scomponeva e frammentava il barbaro operaio massa. Sino all’apparire del «capitalismo personale», in un secondo ciclo della conoscenza globale in rete a base urbana e nei servizi, ritrovandoci messi al lavoro nel lavorare comunicando (Christian Marazzi).

    società

    Pubblichiamo un estratto da La società circolare (Derive Approdi) di Aldo Bonomi, Federico Della Puppa, Roberto Masiero

    Già nel 1991 Robert Reich, Ministro del lavoro di Clinton, che lasciò non condividendo la svolta liberista, pubblicò The work of the Nations, dove segnalava l’apparire della categoria dei symbolic analyst, quelli che lavorano comunicando decifrando simboli, segni, flussi di informazioni per i servizi e le merci prodotte dalle macchine. Da qui il mio scrivere del trionfo della moltitudine, vista non come nuovo soggetto, ma raccontata e scomposta nel suo sociologico essere «massa senza più la potenza ordinatoria e conflittuale delle classi».

    Così vidi venire avanti nel territorio i nuovi barbari dell’individualismo proprietario (Pietro Barcellona), dell’immaginario berlusconiano leader del chiunque: dalla casalinga di Voghera al padroncino, sino agli yuppies della Milano da bere. Si vedeva anche il coagularsi del sindacalismo di territorio alimentato dal rancore leghista dell’heimat, non come casa, ma sangue e suolo quotati nel cielo della politica. Ideologie già all’opera nella dissolvenza della ex Yugoslavia, dove l’Europa delle nazioni perdeva il senso del tragico, ereditato come coscienza di sé, dalle macerie del Novecento. Ha ragione Alberto Abruzzese, l’angelo della storia in questo scenario italico vedeva le macerie del Novecento, ma se guardava avanti, vedeva anche le macerie del secolo che viene. Tornato al territorio, alla sociologia dei segnali deboli e dei barbari locali, il secolo mi si chiudeva con i volti di Berlusconi e Bossi.

    Come si sarebbe potuto pensare al futuro, a un altro futuro possibile, nel secolo dei flussi dei neo-barbari, sempre parafrasando Abruzzese, padroni dell’immaginario collettivo schiacciato nella velocità dell’immanenza? In un momento nel quale una sociologia dell’ipermodernità, altro che tarda modernità, definiva la società dell’accelerazione che, per rimanere ai riti e ai miti dell’Italietta, faceva sì che nella new economy 2.0 Tiscali valesse più dell’intera FIAT? In più, il tutto, faceva dire a Francis Fukuyama che eravamo alla fine della storia. Seppellendo così la mia cassetta degli attrezzi basata su una metodologia di interpretazione del reale che usava la teoria critica di lettura del presente per render possibile, con eterotopie o utopie, il futuro.

    Per continuare a cercare e continuare a capire non rimaneva altro che mettersi in mezzo tra le due polarità studiate dai teorici dell’ipermodernità: l’accelerazione che veniva avanti e l’alienazione, parola chiave della teoria critica. Polarità ben scavate nel libro Accelerazione e Alienazione di Rosa Hartmut. Per me ha significato continuare a scomporre e ricomporre il magma della moltitudine cercando tracce di soggettività altre dai nuovi riti e miti che vedevano nella rete il Sol dell’avvenire immanente e perpetuo. Usando la categoria foucaultiana della biopolitica che faceva apparire la VITA NUDA nella messa al lavoro del nostro ricordare, sentire, comunicare e pensare, nell’economia dei servizi del secondo postfordismo della comunicazione globale in rete. Interrogandomi su ciò che rimaneva della NUDA VITA, fatta di corpi che chiedevano cibo, casa, lavoro, affettività, sempre più presenti alla periferia dell’impero, ai margini delle nostre città, quelle che noi chiamiamo smart city.

    Per capire occorre un nuovo paradigma che sopravanza l’antico adagio capitale-lavoro-stato al centro

    Nuda vita che assume il volto interrogante dello straniero, dei migranti, dei profughi, apolidi senza nome e passaporto, sempre più presenti come barbari reali nell’ipermodernità. Basta aver memoria del primo sbarco degli albanesi a Bari nel 1991 per capire. Se poi guardiamo all’oggi la polarità vita nuda-nuda vita è una sequenza di immagini, con cui i primi, messi al lavoro comunicando, fanno rappresentazione dei secondi nella tragedia.

    Per capire occorre un nuovo paradigma che sopravanza l’antico adagio capitale-lavoro-stato al centro, con i FLUSSI che impattano nei LUOGHI che mutano antropologicamente, culturalmente, economicamente e socialmente, e in mezzo il TERRITORIO come metamorfosi dello spazio di posizione e del radicale sentire dell’essere nel cercare di darsi futuro. La finanza è un flusso, ce lo fa capire la crisi e la dittatura dello spread, le transazionali sono un flusso, il passaggio della FIAT dalla one company town di Torino alla Fca di Marchionne lo spiega; le internet company e le Tv globali interconnesse sono il flusso passato da Marshall McLuhan al crepuscolo dei barbari di Abruzzese, le migrazioni sono un flusso, basta guardare la metamorfosi dei confini mediterranei e balcanici per capire.

    L’annunciato TTIP (trattato di libero scambio Usa-Ue) sarà la dottrina, il codice, per noi clienti-consumatori, per i luoghi e i territori, per le forme dei lavori della circolarità accelerata delle merci, delle informazioni e del vivere. È la globalizzazione bellezza. Che impatta e muta la prossimità dei luoghi e induce la simultaneità accelerata. Ed è nella dialettica e nel conflitto tra flussi e luoghi, con il territorio in metamorfosi che sta in mezzo, che riprendono senso e significato il fluire della storia e il senso e l’idea di un futuro possibile nello spazio e nel tempo. Certo è un salto d’epoca, non solo di paradigma.
    Partendo dalla geoeconomia e dalla geopolitica ho evocato la categoria dell’impero, dei barbari e dei neobarbari, delle religioni dei civilizzatori e dei resistenti. Il tutto per capire il futuro che verrà. Grandi temi per me che mi limito a osservarli in quella che Rosa definisce «l’alienazione dello spazio».

    La voglia di comunità può precipitare sia nel volersi immunizzare sia nel far scattare la voglia di riprendere il cammino per ricostruire communitas

    Nell’eterno navigare e andare fra flussi e luoghi «l’accelerazione sociale crea dunque maggiore mobilità, distacco dal nostro spazio fisico e materiale, ma alimenta anche l’alienazione da esso». Per dirla con Ernesto De Martino è l’apocalissi culturale che ci prende quando non ci riconosciamo più in ciò che ci era abituale, quando la prossimità è quotidianamente stressata nel simultaneo, producendo più che futuro, incertezze, paura, «stasi iper-accelerata». Fenomenologie che producono un aumento delle forme di depressione motivata da «paura della stasi assoluta ad alta velocità» nella società della competizione e dell’incertezza, la società liquida di Zygmunt Bauman. Si intensifica quando i cambiamenti e le dinamiche di cambiamento nell’individuo o nel mondo sociale (ossia nella storia sia individuale e collettiva) non vengono più vissuti come elementi all’interno di una catena di sviluppo dotata di senso e direzione, in sintesi di un futuro possibile. Sarà per questo che mi sono ritrovato a scrivere con lo psichiatra Eugenio Borgna un libretto dal titolo Elogio della depressione. Io volevo radicalmente titolarlo verso il futuro «depressi di tutto il mondo unitevi», così come Alberto Abruzzese in Contro l’Occidente aveva urlato «analfabeti di tutto il mondo unitevi». Come, non è un caso, a proposito di depressione, mi ritrovo con Franco Berardi (Bifo) quando, a conclusione del suo ultimo libro L’anima al lavoro, conclude con un capitolo sul «come si cura la depressione» citando Deleuze e Guattari i quali indicavano nell’amicizia l’antidoto alla depressione.

    Bifo ipotizza zone sociali di resistenza umana, intese come zone di contagio terapeutico, che non sono altro che il riconoscere e il riconoscersi nella sofferenza dell’altro che Borgna chiama «comunità di destino». Unirsi partendo dal malessere dell’IO alla ricerca di quel NOI che solo fa la storia e mangia futuro. Da qui il cercare ciò che resta del- l’essere in comune, del comune, della comunità. Parola, quest’ultima, pesante se usata nell’immanenza, nella dittatura del presente come rinserramento del qui e subito dei costruttori di muri contro l’altro da sé. Da usare invece nell’accezione di «comunità inoperosa» (Jean Luc Nancy) oppure come «comunità che viene» (Giorgio Agamben) o ancora, nell’epoca dell’accelerazione, messa in mezzo al meccanismo binario e dialettico immunitas/communitas di cui ragiona da tempo Roberto Esposito. Communitas e immunitas sono infatti le due polarità nell’epoca della simultaneità e dei flussi.

    La «voglia di comunità» di cui scrive Zygmunt Bauman può precipitare sia nel volersi immunizzare, chiudersi o rinserrarsi, sia nel far scattare la voglia di riprendere il cammino per ricostruire communitas, partendo da una coscienza di luogo in grado di rapportarsi al mondo.  Nell’assenza di comunità si producono diverse visioni del desiderio della stessa, che si declinano in almeno tre tipologie. La prima si configura come comunità del rancore. Il rinserramento rispetto a ciò che viene dall’esterno, di cui il flusso delle migrazioni rappresenta il caso più drammatico ed emblematico. Certo la voglia di comunità non precipita solo in fenomeni di rancore ma anche in quella che io chiamo comunità di cura, cioè in un meccanismo in cui si dà cura nella prossimità e nella fraternità dentro i grandi processi di cambiamento. Una concezione della comunità imperniata sulla fragilità dei soggetti e nel riconoscersi nella sofferenza di prossimità dell’altro. Quella che Borgna chiama «comunità di destino» ritrovandosi con quanto scritto da Hartmut quando sostiene «il punto dei teorici critici deve essere la reale sofferenza umana».

    Siamo tutti borderline tra «non più e non ancora», ma in noi non c’è che futuro

    Tutto questo non può prescindere dal continuare a cercare e capire la comunità operosa che prende corpo nella ristrutturazione dell’apparato produttivo, nella scomposizione del diamante del lavoro, nell’esplosione delle forme dei lavori e nella rottura delle forme tradizionali di solidarietà e di mutualità connesse all’esperienza che un tempo aveva nella fabbrica il suo epicentro. La voglia di comunità, sempre sospesa tra immunitas e communitas, produce non solo comunità di cura e comunità operose intrecciate in una visione di un altro mondo possibile basato sul riconoscersi in una comunità di destino resiliente, ma anche comunità rinserrate del rancore, resistenti al cambiamento e senza futuro, spesso inchiodate alla difesa del presente, immunizzate dal passato. Non solo il concetto di comunità è in metamorfosi, ma anche ciò che sembrava certo e immutabile: il territorio nel quale siamo radicati o solo ancorati nell’epoca dei flussi globali. Sul territorio ho visto mutare tre parole chiave: terra, confini, luoghi.

    La terra come agricoltura, come bene scarso da tutelare e sottrarre alla mercificazione, sino alla green economy, ci fa capire come la categoria della «terra madre» nelle sue fondamenta interroghi il concetto di territorio. Molto dipenderà da come si ridisegnerà il confine dei territori. Anche questi non più dati e immutabili. Siamo un po’ tutti borderline, oscillanti tra la depressione da agorafobia del confine da tracciare e l’euforia dello spazio aperto da percorrere senza più frontiere. In Europa lo spread è il nuovo passaporto. Nel Mediterraneo la moltitudine preme alle frontiere e noi tracciamo confini con la geometria dell’indifferenza. Nel terremoto del cambiamento epocale appaiono così luoghi faglia che segnalano dove i confini producono rotture nella profondità delle forme di convivenza. Non ci resta che operare nel costruire luoghi soglia ove fare rammendo delle lacerazioni territoriali e sociali dell’epoca che viene e guardare a quei luoghi ove si delineano tracce di comunità che viene.

    Nel fare social street, ove si scambiano servizi e reti locali, gruppi di acquisto solidale, nelle città in cambiamento, nella «generazione Erasmus» abituata a varcare i confini della conoscenza e dei saperi, ai ritornanti alla terra e al lavoro agricolo con una nuova concezione dello sviluppo, alle economie leggere delle start up innovative e sociali che oltrepassano i confini, sorvolandoli e mettendosi in rete. Molto dipenderà da come queste pratiche sapranno diventare luoghi soglia e così riempire le faglie, le rotture profonde che feriscono la terra e le forme di convivenza nel secolo che avanza. Siamo tutti borderline tra «non più e non ancora», ma in noi non c’è che futuro. Una voglia, mai doma, di costruire luoghi soglia nella società accelerata e circolare che viene avanti con la retorica suadente e collaborativa dell’economia circolare, che fa società circolare raccontata come la ruota della fortuna, ma che può essere «una stasi-accelerata» da ruota del criceto.

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