Adesso, per favore, passiamo al livello successivo?

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    Ad Aprile 2016 il sito The Information ha analizzato un report interno di Facebook in cui si analizzavano i cambiamenti nell’utilizzo del social da parte degli utenti (e le conseguenze economiche, che qui non ci interessano). Si pubblicano sempre meno contributi personali. Facebook diventa, anno dopo anno, quell’utopico “museo del sé” dove al posto di raccontare la nostra vita attraverso quello che siamo, ci raccontiamo per come ci percepiamo o come vorremmo essere percepiti. Un’enorme vetrina e un’eterna, espansa possibilità di self-branding in cui ci si trincera in strategie narrative consolatorie, in cui si comunica tra simili secondo la logica chiusa dell’algoritmo e che porta sempre più verso uno storytelling assertivo così lontano dalle utopie iniziali dei social media come “possibilità di fare rete” per davvero. Ormai, all’agorà digitale, non ci crede davvero più nessuno.

    La pervasività della dimensione social, però, è ormai tale da rendere necessaria una più acuta riflessione su quello che sta succedendo. L’approccio della critica ha bisogno di uno scatto di pensiero che ci impedisca la cancrena dialettica (già stanca) tra chi è ancora convinto che lo spazio che si crea usando Facebook apra infinite possibilità di connessione, conoscenza e progresso e chi invece si rifugia in un altrettanto ingenuo luddismo à la page che ci suggerisce di andare a Walden e lasciare lo smartphone nell’altra stanza. Le cose sono davvero più complesse di così.

    Se ha ragione Sherry Turkle, questo approccio manicheo – che non si riverbera solo in questo tipo di dibattito ma in qualsiasi aspetto della nostra vita sociale: l’intera e crescente complessità del mondo ridotta a una dialettica tra “bianco” e “nero” – è figlio lui stesso dell’eccessivo rovesciamento della nostra vita dentro una logica social. Andando oltre la tesi di fondo del suo ultimo La conversazione necessaria (ultima uscita dell’ottima collana Maverick ideata da Einaudi) – dove, attraverso una quantità imponente di esempi, interviste e osservazioni partecipate si osserva come qualsiasi aspetto della nostra vita (dagli affetti al lavoro) sia influenzato dal social network e dalla nostra rinuncia graduale a metterci in gioco attraverso la parola – possiamo cercare di mettere assieme qualche spunto di riflessione attorno al social network.

    Questo non per liquidare il libro della Turkle che, in effetti, ha il merito di costruire un contesto ‘monumentale’ (per dimensione e numero di esempi e storie raccontat) a partire dalle persone, ma per legarlo a una più ampia cornice di pensiero che negli ultimi anni si sta interrogando sui cambiamenti del nostro approccio alla quotidianità e alla nostra dimensione fisica proprio dopo la grande “scossa tellurica” provocata da quella che potremmo definire una vera e propria facebookizzazione del reale.

    Correndo spesso il rischio di cadere nell’equivoco per cui l’antidoto a questa deriva sia il ritorno ai ‘vecchi valori di una volta’ (per cui appunto è necessario creare – dalla scuola ai posti di lavoro – delle sacche di resistenza, anche pagando profumatamente, in cui non c’è spazio per lo smartphone), Turkle afferma una tesi molto semplice ma al tempo stesso necessaria da ribadire: la conversazione impersonale, paradossalmente mediata in un’epoca di disintermediazione totale, filtrata attraverso la parola scritta – per sua natura sempre ‘non istintiva’ – mette a riparo dall’emotività, anestetizza e rischia di disgregare lo spazio empatico tra le persone. Sulla lunga distanza, questo approccio non porta solo a un impoverimento della maturità emotiva delle persone, ma a una vera e propria analfabetizzazione affettiva, una regressione a una condizione di “infanzia permanente”.

    Nelle 450 pagine del libro si toccano tantissimi temi e gli spunti che si mettono sul tavolo sono moltissimi. Agli elementi già evocati aggiungiamo la questione del ‘presente permanente’, che porta inesorabilmente all’autoreferenzialità perchè non si riesce più a porre qualsiasi questione in una prospettiva futura (o passata); il demone del multitasking, che sfocia in una pericolosa perdita di concentrazione e incapacità di focalizzarsi sulle attività dando solo l’impressione di ‘fare di più’; la necessità di “organizzare la resistenza” portando le logiche tradizionali quasi da disobbedienza civile (non è un caso che Henry David Thoreau sia presenza immanente dalla tesi di partenza fino alla struttura dei capitoli che riecheggia gli schemi di conversazione – il gioco delle ‘sedie’ – proposti dal pensatore americano); il rischio di banalizzare la complessità delle dinamiche umane nello schema stringente della ‘generazione APP’ (usando la felice definizione di Howard Gardner e Katie Davies), portata a ragionare secondo logiche di tipo binario che, per quanto ricche, rischiano di essere sempre e solo funzionali.

    Ovviamente si tratta di un libro a tesi, che manifesta sin dal titolo il suo obiettivo. Resistiamo. Recuperiamo la nostra umanità tornando a parlare guardandoci negli occhi. Scontriamoci. Insultiamoci. Difendiamo le nostre argomentazioni anche con chi non è d’accordo con noi. Ricostruiamo, nel bene e nel male, quello spazio empatico tra le persone che ci permette di maturare, costruire intelligenza emotiva, stratificare e fare esperienza. Uscire dalla dimensione ‘statica’ di un sé idealizzato e musealizzato e quindi cristallizzato in un’immagine che si vuole dare, che si vuole vendere.

    La riflessione, però, deve fare un passo successivo. La complessità del reale è tale e tanta che non possiamo ‘opporci’ con quello stesso approccio manicheo che contestiamo. Prima di tutto, bisogna capire se è necessario opporsi in senso tradizionale. Evitare di affrontare il problema, o affrontarlo semplicemente andandosene non vuol dire risolverlo. La fuga a Walden potrà essere utile per brevi periodi di tempo ma, come ben sappiamo, lo stesso Thoreau si faceva lavare i panni dalla madre poco più giù. Non ha senso rinunciare a vivere il reale. Senso avrebbe, invece, cercare di costruire strategie di resilienza in cui riusciamo a salvaguardare prima di tutto il nostro pensiero e il nostro cervello (inteso proprio come organo che produce scosse elettriche), poi noi come persone e le nostre comunità di riferimento. E per farlo, bisogna capire quali sono gli strumenti a disposizione, il contesto in cui ci si muove e – soprattutto – uscire da questa ‘egemonia manichea’ da cui sembriamo vincolati in eterno. In un dibattito che affronta temi di natura filosofica, psicologica, economica e etica fermarsi al giusto e sbagliato sembra riduttivo e sembra farci tornare al punto di partenza. I ‘buoni e vecchi valori’ non esistono più; lasciar scaricare lo smartphone può essere utile ma il giorno saremo di nuovo attanagliati al nostro multitasking perenne tra gattini su Buzzfeed e un long-from imperdibile (“lo salvo e le leggo dopo”… non lo leggerò mai) sul New Yorker. Insomma, resistere tanto per fare sembra essere strategia facile e miope perché va ad agire sugli effetti e non sulle cause.

    La riflessione va fatta a livello più profondo.

    Su Pagina99 Fabio Deotto spiega come “prendere atto dei dati forniti da Turkle non significa prepararsi a dire addio alla tecnologia, significa piuttosto dotarsi degli strumenti necessari a un utilizzo consapevole della stessa”. Usare lo smartphone è “un facile antidoto alla noia, un serbatoio di gratificazione pronto all’uso (ricevere notifiche social produce un rilascio di dopamina analogo al fumo di sigaretta o al gioco d’azzardo), ma soprattutto un modo per non rimanere mai soli con noi stessi”. D’altronde, nella società dell’intrattenimento permanente la noia è sempre stata stigmatizzata, mentre sono proprio quei “buchi di tempo che cerchiamo forsennatamente di tappare gli unici momenti in cui il nostro cervello ‘conversa’ con se stesso”. “La tecnologia” – conclude Deotto – “dovrebbe aiutarci a connetterci più facilmente con gli altri, utilizziamo dispositivi connessi in maniera compulsiva illudendoci di avere sempre più amici, eppure le nostre abilità empatiche vanno peggiorando, ci sentiamo sempre più isolati, e allo stesso tempo meno capaci di rimanere soli con i nostri pensieri. In altre parole: meno capaci di capire chi siamo e chi vogliamo essere.”

    Chi vogliamo essere, cosa vogliamo essere nel mondo e, soprattutto, che tipo di comunità vogliamo costruire quando entriamo in contatto con gli altri. Questo ci riporta alle riflessione del filosofo coreano di stanza in Germania Byung Chul Han che, attraverso un’analisi delle nuove tecnologie e delle loro conseguenze nella costruzione della comunità, nella radicazione del pensiero e la traduzione in agire politico, definisce la società contemporanea come insieme di individui totalmente ripiegati su loro stessi in un vero e proprio disagio psichico in cui al massimo della trasparenza si traduce il massimo della spersonalizzazione. Il percorso che porta dal “museo del sé” al “mausoleo del sé” sembra molto corto. Le sue riflessioni – incluse nei libri La società della trasparenza, Nello sciame e l’ultimo Psicopolitica, tutti editi in Italia da Nottetempo – hanno il pregio di muovere il dibattito pur non offrendo nessuna soluzione. Forse perché la soluzione, attualmente, semplicemente non c’è.

    Per questo Tiziano Bonini sulle colonne di Doppiozero propone di “leggere il libro di Turkle non tanto come un argomento a favore degli effetti negativi delle tecnologie sulla nostra capacità di parlarci, ma come un libro sulla qualità della nostra vita e sull’uso del tempo di vita”. Del resto: “immersi in un contesto ipermediatizzato, dove la durata delle nostre azioni è breve perché continuamente interrotta da flussi comunicativi in entrata e in uscita, bisogna sviluppare una nuova competenza: la capacità di compartimentare il nostro tempo, di prenderci il tempo necessario per focalizzarci su un’unica azione senza interruzioni, di dedicare il tempo necessario per portare a termine un’azione o un pensiero.”

    Questo invito a concentrarsi su una cosa sola e godersela, rovesciare lo statuto del multitasking più che della connessione perenne (saremo sempre connessi in modo perenne, facciamocene una ragione), costruirsi degli anticorpi mentali per cui ci adattiamo al contesto per salvaguardarci, potrebbe essere davvero l’inizio di una nuova riflessione dove si supera il dualismo giusto/sbagliato. Nel 2016 tutte le argomentazioni sul capitalismo predatorio all’attacco del nostro spazio mentale più profondo (dal capitalismo parassitario di Zygmunt Bauman alla tesi fondamentale di 24/7 di Jonathan Crary), compresa la provocazione giustissima di Evgenj Morozov che vede nella rete la realizzazione provata del iper-capitalismo e della società libertaria immaginata dalla destra deregolamentista degli ultimi trent’anni e il ritratto realistico che tratteggia Dave Eggers ne Il cerchio su una società completamente ribaltata nel suo rapporto di dipendenza egemonica verso il social network dovrebbero essere assimilate. Lo sappiamo, lo abbiamo capito, ce lo diciamo ogni volta che ci vediamo al bar per fare una conversazione “necessaria” e vera. Adesso, per favore, passiamo al livello successivo?

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