È opinione condivisa che la salute sia un diritto uguale per tutte e tutti. Il nostro dettato costituzionale, del resto, con l’articolo 32 pone accanto alla parola “salute” l’aggettivo “fondamentale”. Il diritto a stare bene, in sostanza, ci spetta dalla nascita: nessuno ce lo può dare, nessuno ce lo può togliere. Si tratta però, purtroppo, ancora di pura fantasia: il diritto alla salute, pur essendo un diritto, non arriva ovunque con la stessa forza. Esistono angoli di mondo (e non solo angoli) in cui ancora igiene alimentare, sicurezza sul lavoro e ammortizzatori sociali, per citare soltanto alcune delle variabili che concorrono al raggiungimento dello status di “buona salute”, sono traguardi irraggiungibili.
E, in tale profonda disuguaglianza, nonostante i vincoli posti dalla nostra Costituzione e, soprattutto, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, un ulteriore passo nella disamina del concetto di salute, se davvero lo si vuole garantire a tutta la popolazione mondiale indistintamente, può essere fatto. Decisamente. A guidare la riflessione, la definizione di medicina di genere, o, meglio, “Medicina genere-specifica”, come riportata dall’Organizzazione mondiale della sanità, ossia lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona.