La stagione dei social media che hanno incarnato l’epoca “dorata” del web 2.0 sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva. A fine 2022 Ian Bogost sull’Atlantic scriveva un po’ ottimisticamente che l’epoca dei social media stava tramontando. Nello stesso periodo, sono aumentati gli articoli che declamano il declino dei social media.
Come il fenomeno delle “Grandi dimissioni”, se andiamo oltre la cortina di fumo della retorica, troviamo anche qualcosa di vero. Questo declino è reale, non è solo una moda.
Solo che non riguarda tutti i social media, ma solo quelli della prima generazione, come Facebook e Twitter. Il primo è disertato dai giovani, che preferiscono Twitch e Tik Tok, mentre il secondo è devastato da un padrone autoritario e capriccioso. Entrambi perdono utenti, licenziano migliaia di lavoratori tech a tutti i livelli di stipendio e, cosa più importante, hanno una pessima reputazione. All’inizio degli anni ’10 Twitter e Facebook incarnavano la retorica dell’empowerment comunicativo di voci marginalizzate e questa retorica ha spinto molti osservatori ad attribuire loro il potere di generare rivoluzioni sociali e politiche come le primavere arabe, il movimento degli Indignados o quello di Occupy. Anche se ovviamente questi movimenti di protesta non sono nati e non si sono sviluppati grazie a Twitter o Facebook, entrambe le piattaforme hanno contribuito sensibilmente ad amplificarne le voci (come racconta il politologo Paolo Gerbaudo nel libro Tweets and the Streets del 2012). Ancora a metà del decennio, Twitter giocava un ruolo fondamentale nella diffusione di altri movimenti recenti come Black Lives Matter e MeToo.
Gli studiosi di media e movimenti sociali hanno prodotto trilioni di articoli e ricerche su questa nuova ondata di attivismo digitale, spesso eccedendo nell’ottimismo o nel determinismo tecnologico, perdendo di vista il complesso ecosistema mediale all’interno del quale si situavano questi movimenti (vedi la critica di Emiliano Treré nel suo Hybrid media activism).
Dal 2016 in poi, però, con lo scandalo Cambridge Analytica e la vittoria di Trump, il vento reputazionale inizia a cambiare per entrambe le piattaforme. Nell’immaginario collettivo alimentato dai media tradizionali, e nel senso comune di sempre più persone, queste due piattaforme non sono più campioni di democrazia, ma agenti di potenziale rischio per le democrazie (e alla lista si è aggiunta di recente Tik Tok). Nel frattempo si svelano le condizioni di sfruttamento del lavoro tra i moderatori appaltati da Facebook per filtrare i propri contenuti (guardate il documentario del 2020 The Cleaners, prodotto dalla Deutsche Welle), si diffonde il panico morale delle fake news e della disinformazione e queste piattaforme vengono attratte in una spirale sempre più negativa per la loro reputazione. L’ultima tappa di questa spirale è l’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, che si rivela un padre-padrone autoritario e capriccioso. Musk licenzia migliaia di lavoratori e introduce una serie di cambiamenti che rendono Twitter un posto ancora più tossico: dalle spunte blu a pagamento fino all’aumento artificiale della visibilità dei post del miliardario americano, passando per la gestione confusa e poco trasparente dei ban di utenti considerati a vario titolo problematici (da Kanye West a Donald Trump).
In poco più di 10 anni, questi due social media sono invecchiati malissimo. Da potenziali supporti tecnologici per voci marginalizzate dai media mainstream, sono essi stessi diventati il mainstream, ma imponendo regole ancora meno trasparenti del vecchio mainstream televisivo sulla visibilità dei contenuti.
Negli ultimi anni le due piattaforme hanno operato continui cambiamenti ai propri algoritmi, cambiando i connotati delle bolle algoritmiche che mettono in relazione tra loro gli utenti. Sempre più spesso, prediligono delle modalità che assomigliano al broadcast: singoli utenti divengono influencer, producendo contenuti in modo più unidirezionale rispetto al passato, eventualmente interagendo con un numero ristretto di altri account con profili simili. Le modalità collaborative che hanno caratterizzato Twitter per un periodo piuttosto lungo sono venute meno, e non sembrano esserci i presupposti perché ritornino.
La visibilità che queste piattaforme garantiscono è sempre meno organica e favorisce una polarizzazione tra pochi utenti molto visibili e una coda lunga di utenti invisibili anche se presenti e attivi.
La nostra decisione quindi di abbandonare Twitter si inserisce in questo quadro. Come tutte le istituzioni no profit, le associazioni culturali e le comunità di vario genere, siamo approdati qui dentro, su Twitter e Facebook, per intercettare un pubblico di potenziali lettori dei nostri contenuti e per costruire canali di co-progettazione con altre organizzazioni. Per alcuni anni lo sforzo – editoriale, ma anche e soprattutto di traduzione- di produrre contenuti e promuoverli su diverse piattaforme ha avuto successo, nonostante perplessità e compromessi continui: il tempo passato a rilanciare articoli sulle piattaforme è tempo rubato ad attività più urgenti dentro l’associazione.
Ora però questo compromesso non è più sostenibile.
Ora si pone un tema di sostenibilità economica e culturale per un soggetto non profit che cerca di trovare un posto in un panorama mediale in continua trasformazione. All’inizio degli anni ’10 il tasso di conversione tra l’attività sui social media e il traffico sul proprio sito era molto buono, se rapportato a quello che succede oggi. Questo vuol dire che un’organizzazione con poche risorse per la comunicazione poteva investire in competenze interne, formando figure di comunicazione che si preoccupassero di tradurre le istanze e i contenuti (politici, sociali e culturali) per piattaforme di social media diverse. Si è trattato, per alcuni e per un certo periodo di tempo, di un investimento sulle persone e sull’organizzazione. Si è trattato, anche, del prendere parte a un clima culturale forse vago ma allo stesso tempo ben situato storicamente. Il periodo dell’open culture e dell’open access, dell’uso tattico delle piattaforme in Occupy, nel movimento degli Indignados, nelle primavere arabe. Un momento che dava la precisa sensazione di poter ricostruire delle agorà democratiche negli spazi digitali.
Poi c’è stato l’aumento esponenziale dell’importanza dei contenuti pubblicizzati rispetto agli altri, che ha interessato tutti i social media. E’ una conseguenza naturale e diretta della proprietà privata delle piattaforme, ed ha sortito risultati diversi ma comparabili su Twitter, Facebook, Linkedin, Instagram, etc. In pratica, se non si paga la visibilità i post hanno una possibilità infinitesimale di comparire nelle timeline degli utenti, e quindi di venire letti.
Se la tendenza è simile in piattaforme diverse, su Twitter oggi sembra di mandare segnali nel vuoto. Guardando la desolazione che circonda il nostro profilo, abbiamo deciso che è meglio sopprimerlo, per dedicarci in modo più focalizzato ad altri canali di comunicazione.
La newsletter, prima di tutto, che ci consente di mantenere un contatto diretto e personale con un numero alto e profilato di utenti che da dieci anni ci seguono perché sono interessati alla teoria e alla pratica della cultura in trasformazione.
Ma anche gli incontri dal vivo, che sono ormai ripartiti e che ci permettono di cucire relazioni e reti, esplorando le opportunità e le contraddizioni tra territori a volte vicini dal punto di vista geografico ma molto distanti da quello culturale.
Bisogna ammettere che finché stare su Twitter e Facebook aveva un senso per il volume di traffico che generava questa presenza, abbiamo lasciato che i nostri lettori si adattassero a questo circuito, trovandoci sempre su Facebook e Twitter, oltre che in una frenetica attività del vivo e su una newsletter drammaticamente aperiodica. Come molte altre attività culturali, abbiamo ceduto autonomia e controllo dei mezzi di distribuzione alle piattaforme, in cambio di traffico. Ne siamo diventati dipendenti, ritenendolo un compromesso necessario.
Quando poi le piattaforme hanno iniziato a chiedere il conto, a voler monetizzare a tutti i costi questa dipendenza indotta nel tempo, ci siamo ritrovati fregati e intrappolati nella classica dinamica del pusher e del tossico, dove il pusher prima ti fa assaggiare gratis la roba, e poi quando sei “sotto”, comincia a fartela pagare cara.
In pratica, non l’abbiamo vista arrivare, o abbiamo voluto chiudere gli occhi. Non solo noi. Grandi e piccoli editori, grandi aziende e piccole associazioni.
È giunto il momento di rescindere almeno un primo nodo, quello con Twitter, e concentrarci sul recupero di una relazione più diretta con i nostri interlocutori, tramite la newsletter, il sito e gli eventi di cheFare.
Certo, restano le altre piattaforme, tipo Facebook. Per adesso continuiamo ad abitarle tatticamente, perché nella nostra bolla demografica e culturale Facebook rimane ancora uno spazio di discussione rilevante. Per il momento ci saremo ancora, ma senza pagare la visibilità dei post ed investendo comunque risorse in termini di formazione, competenze e tempo.
Ma nessuno ci si sente più a casa.
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