La prima edizione della Makers’ Inquiry ha mostrato esiti nel complesso interessanti, alcuni dei quali davvero inattesi, che hanno fatto emergere un quadro conoscitivo sul Make in Italy depurato da stereotipi o luoghi comuni sul making e caratterizzato, invece, da specifici temi/problemi che si possono tradurre in rilfessioni puntuali e (forse) proposte concrete.
Due sono i livelli di considerazioni che si possono fare: il primo riguarda l’interpretazione e la lettura delle risposte alle domande della Makers’ Inquiry; il secondo riguarda le risposte in relazione ai temi emergenti del Make in Italy che possono trasformarsi in Recomandations per lo sviluppo di azioni e iniziative da parte di una pluralità di attori: dal mondo della formazione a quello della produzione, fino al mondo politico-istituzionale.
Maker, designer-autoproduttoori e lab manager sono in grado di vivere di making?
L’analisi del contesto italiano ci dice che un numero esiguo di soggetti trae la maggioranza o la totalità del proprio reddito dall’attività di making, micro e autoproduzione, mentre nella maggior parte dei casi si tratta ancora di un’attività che genera risorse integrative. Il dato certo è che l’interesse verso queste attività è sempre meno puramente amatoriale benchè in molti casi si configuri come un’attività integrativa o parallela a quella principale.
I processi collaborativi, di condivisione e scambio che caratterizzano il mondo del maker, sono davvero reali ed efficaci?
I dati sulla realtà italiana sembrano dire un’altra cosa: nel Make in Italy collaborazione, condivisione e openess sono importanti ma non prioritari. Emerge invece un ritratto del making e dell’autoproduzione come attività di carattere personale capace di relazionarsi con contesti collaborativi come i Fab Lab ma pricipalmente ancorata sulla base di interessi e obiettivi individuali, alcuni dei quali di carattere spiccatamente imprenditoriale.
Fab lab e makerspaces sono davvero luoghi in grado di abilitare nuove forme di produzione?
I dati ottenuti non sono in grado di rispondere pienamente a questa domanda, ma confermano un utilizzo misto dei makerspace sia in una chiave di sperimentazione-prototipazione, che di supporto a piccole forme di produzione. La cosa più interessante che emerge, però, riguarda l’esistenza di una pluralità di spazi di fabbricazione e laboratori privati che potrebbero trovare un completamento o un potenziamento con gli spazi di fabbricazione e le botteghe artigiane.
I prodotti realizzati dai maker sono realmente compettitivi se comparati con forme di produzione industriali e artigianali?
I dati che descrivono il mercato del Make in Italy non confermano pienamente questa direzione ma riportano una quota di soggetti che si sta specializzando nella produzione e vendita indipendente di prodotti unici e microserie.
Raccomandazione #1: assecondare la natura ibrida deI maker
Uno dei dati certamente più interessant emersi dalla Makers’ Inquiry riguarda il cambiamento delle forme del lavoro e delle forme di impresa collegate al mondo del making. Nel Make in Italy esiste una quota di professionisti di varie specializzazioni – designer, architetti, ingegneri, esperti di comunicazione e programmazione software (soggetti appartenenti alle industrie creative) – che si interessano in vario modo alla produzione e concepiscono questa attività come una forma d’impresa stabile o temporanea. Maker e autoproduttori italiani sono perciò nuove figure ibride che uniscono un interesse professionale verso la sperimentazione sui prodotti e i processi di fabbricazione con la dimensione pragmatica della produzione e dell’intraprendere attraverso di essa.
Sono innovatori indipendenti che spesso uniscono in una dimensione personale tutte le competenze di un’impresa hi-tech (Bianchini, Maffei, 2012 e 2014). Sono soggetti che nel corso della propria vita lavorativa hanno la necessità di mutare e invertire più volte la loro condizione di (individuo) professionista o di (organizzazione) impresa. La sfida in questo caso sarebbe quella di accompagnare e valorizzare queste caratteristiche immaginando policy che guardino a questi soggetti nella loro duplice natura. Potrebbe quindi essere interessante provare a combinare le ini- ziative che stimolano la creazione delle nuove forme di impresa con quelle che puntano al miglioramento delle competenze personali-professionali. Per valorizzare la natura ibrida dei maker, è ad esempio possi- bile pensare a nuovi regimi di fiscalità che favoriscano l’ibridazione o lo switch tra attività professionale e produttiva.
Raccomandazione #2: stimolare le nuove (micro)filiere del Make in Italy
Un dato centrale della Makers’ Inquiry riguarda sia la comparsa di nuovi luoghi (e reti di luoghi) per la progettazione-fabbricazione-produzione delle idee che la riconfigurazione di spazi e luoghi di lavoro professionale e produzione esistenti. Makers’ Inquiry ha tratteggiato l’embrione di una nuova geografia del progetto e della produzione che collega il sistema delle professioni (o delle industrie) creative e gli spazi di fabbricazione situate nelle aree urbane con ciò che rimane del tessuto produttivo dei sistemi distrettuali. Questo passaggio si traduce nella messa in rete dei piccoli spazi e laboratori privati dei professionisti del progetto con i Fab Lab e le botteghe artigiane, disegnando così un possibile paesaggio del Make in Italy costiuito da micro-filiere della autoproduzione e della micromanifattura urbana. Filiere che in un quadro così dinamico potrebbero presto includere anche l’ingresso di nuovi attori come i tecnopoli.
La messa in rete di tutti questi luoghi richiede però un sistema di servizi in grado di facilitare un utilizzo condiviso delle risorse per la progettazione, la fabbricazione e la distribuzione e di servizi che possano migliorare l’acquisto condiviso delle materie prime, l’investimento in tecnologia e la gestione operativa dell’attività di making. Un esempio? Negli Stati Uniti si stanno diffondendo le associazioni per la micromanifattura urbana (Urban Manufacturing Alliance) che creano centrali d’acquisto per materiali e componenti, stringono accordi con produttori di tecnologie, configurano servizi ad hoc per facilitare la gestione operativa dell’attività di making e microproduzione.
Raccomandazione #3: valorizzare le qualità del Make in Italy
Makers’ Inquiry ha infine fatto emergere l’esistenza di una produzione progettuale-artefattuale riconducibile al concetto di Make in Italy. Un lavoro di ricerca più approfondito andrà però fatto per capire in dettaglio quali sono le categorie/tipologie di beni (prodotti-servizi) si tratta e quali siano le relazioni tra Make in Italy e Made in Italy.
Un dato però è da sottolineare: una quota rilevante dei progetti-prodotti del Make in Italy (nonostante la loro complessità tecnologica) risulta carente dal punto di vista delle certificazioni di garanzia e qualità e non ha una piena tracciabilità. In un’ottica di sviluppo di un mercato allargato (o comunità-mercato) del making e dell’autoproduzione è auspicabile cominciare a lavorare in questa direzione. Ad esempio è possibile immaginare iniziative concrete che possano ad esempio fare dei Fab Lab dei centri di prossimità o dei centri di riferimento capaci di supportare i maker a certificare i progetti-prodotti che intendono immettere sul mercato. Un sistema di riconoscibilità del Make in Italy collegato alla certificazione e tracciabilità dei prodotti (o di alcuni dei loro componenti chiave) potrebbe forse facilitare lo sviluppo di strategie individuali o comunitarie di microdistribuzione che possano consolidare questo settore emergente.
Estratto da Appunti e raccomandazioni per una (possibile) policy sul Make in Italy, scaricabile integralmente qui