Il rapporto con la macchina ha cambiato il lavoro?

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    L’anno scorso ho avuto la fortuna di poter svolgere alcuni mesi di osservazione partecipante nel quartiere di Rogoredo. Mentre indagavo la percezione della sicurezza degli abitanti della zona, mi sono imbattuta in qualcosa di più grande e inatteso: la memoria della fabbrica.

    Trascorrevo i pomeriggi al bar Kappa, in via Monte Palombino, ascoltando i racconti quotidiani del passato di quelle vie, sorte e abitate attorno alla ex Montecatini e alla acciaieria Redaelli. Le due fabbriche avevano infatti attratto abitanti dall’hinterland e dal Sud che si erano lentamente trasferiti e avevano popolato il piccolo borgo a ridosso del parco agricolo Sud. I legami tra i giocatori di carte seduti al bar, che trascorrevano i loro pomeriggi da pensionamento sono stati rinsaldati dagli anni di lavoro e di lotte in fabbrica.

    Paolo e Giorgio sono nati e cresciuti a Rogoredo. Lavoravano come operai all’acciaieria Redaelli, Giorgio era anche delegato sindacale. “Le due fabbriche erano tutto. Eravamo una potenza, e tenevano insieme il quartiere. Se volevi con tre telefonate portavamo in piazza centomila persone: la Falk, la Breda. Tutti qui lavoravano in fabbrica. Il quartiere è cresciuto attorno alla fabbrica. Ora però ci sono San Mirocle e Santa Giulia, che sono dormitori. Qui c’è la vera anima del quartiere. La fabbrica ci offriva tutto, anche le colonie per le vacanze: Cervia, Misano, il lago, la montagna. Le nostre richieste di diritti facevano paura, così la fabbrica è stata venduta e sui terreni hanno costruito Santa Giulia. Questo posto è uno dei pochi rimasti con un’anima, assieme al circolo della Rogoredo 84, dove vanno i più anziani”.

    La fabbrica viene dismessa e demolita, e sui terreni si avvia il progetto urbanistico di Milano Santa Giulia, speculazione edilizia che sui veleni della fabbrica non bonificati ha inizialmente associato la sua (s)fortuna.

    Storie simili hanno avuto le grandi fabbriche milanesi: la Breda trasformata nel museo di archeologia industriale e spazio estivo per i concerti del Carroponte; la Pirelli diventata “fabbrica di sapere” e trasformata nell’Ateneo di Milano-Bicocca che nel progetto di Gregotti ricalca il perimetro della vecchia sede industriale.

    Il quartiere-fabbrica, connesso alla città attraverso la ferrovia, era stato un esperimento di solidarietà e comunità che permane nei ricordi degli ex operai. La ferreria voluta da Luigi Riva era stata aperta nel 1886. Dopo quattro anni, Riva cedette la ferreria alle ferrovie italiane gestite da Merati e gli operai si trovarono senza lavoro da un giorno all’altro. Gli operai si organizzarono, si opposero, e ottennero la reintegrazione e la corresponsione di 8 giornate di lavoro per i licenziati. La ferreria venne rilevata nel 1895 dalla Redaelli e da Giorgio Falk. Sopravvissuta ai bombardamenti durante la guerra, la fabbrica divenne laboratorio di solidarietà affiancata da cooperative sociali autogestite dagli operai. Alcune ricostruzioni fanno risalire a quegli spazi il primo Consiglio di Fabbrica d’Italia nel 1969.


    L’8° appuntamento con il ciclo di incontri Rosetta è per stasera mercoledì 8 Novembre 2017 al Fablab OpenDot, in via Tertulliano 70 a Milano. In che modo l’evoluzione di macchine e produzione hanno cambiato le relazioni sociali?
    Per porci questa domanda ci ritroveremo in un fablab: uno spazio di ricerca e sperimentazione aperto a tutti dove si utilizzano nuove tecnologie di prototipazione rapida e fabbricazione digitale.

    Partecipano:
    Enrico Bassi – docente di fabbricazione digitale e tecnologie produttive, OpenDot.
    Giorgio Falco – scrittore, autore di “Ipotesi di una sconfitta”, Einaudi.
    Andrea Fumagalli – professore di Economia Politica, Università di Pavia, Advisory Board Manifattura 4.0 Comune di Milano.
    Cecilia Manzo – ricercatrice di Sociologia Economica, Università di Firenze, Advisory Board Manifattura 4.0 Comune di Milano.
    Modera Andrea Daniele Signorelli – giornalista 21.00 – Dj set di Matteo Saltalamacchia


    La crisi del 1974 dà avvio alla lenta agonia della fabbrica, che si conclude nel 1984 con la chiusura. Nella lettera che gli operai scrivono al commissario straordinario Brugger si legge: “Per Lei ‘lettere di licenziamento’ sono tre parole che sono ‘una conseguenza inevitabile’. Per ciascuno di noi quelle tre parole sono un attacco e un insulto alla nostra dignità, alla vita nostra e delle nostre famiglie. […] Per Lei noi possiamo apparire come “conseguenze” in mezzo o in fondo a un bilancio le cui cifre si possono non difficilmente manovrare. Ma questa “morale” noi la rifiutiamo. Per noi la vita umana, la dignità dell’uomo, il diritto di tutti a vivere in modo uguale, viene prima delle cifre e dei bilanci. Sappiamo che attualmente questa morale è perdente. Ma allora ci sembra che sia perdente anche la vita. A chi e che cosa serve la Sua professione? Le abbiamo scritto queste cose perché sappia che la nostra condizione di classe ci porta ad avere una morale in contraddizione con la Sua. Appunto per questo noi Le auguriamo di non dover mai provare nella Sua vita l’offesa, la sofferenza, l’incertezza che noi stiamo provando”.

    Quella morale già perdente sulla serrata della vecchia ferreria, diventa “ipotesi di sconfitta” nelle parole e nei passaggi di vita di Giorgio Falco. L’autore misura il lavoro per sottrazione rispetto al senso del lavoro del padre, si confronta con il lento sgretolamento di quei passaggi, poiché, “come sempre, a ogni passaggio mediato dall’umano, qualcuno, sopraffatto dall’altro, perde qualcosa”. Nelle pagine del libro si passa dall’intellettualizzazione del lavoro manuale alla taylorizzazione del lavoro intellettuale, processo destinato alla sconfitta, così come le traiettorie precedenti.

    Come scrive Andrea Fumagalli, “nel capitalismo bio-cognitivo, tale rapporto non è più unico. La composizione tecnica cambia natura e non è più definibile né in senso teorico-astratto, né in senso “politico”. L’ibridazione tra umano e macchina spariglia le carte. E scompagina le forme della rappresentazione politica del lavoro e, di conseguenza, le forme della rappresentanza del lavoro. Diciamolo con franchezza: il lavoro (al singolare) non ha più possibilità di rappresentazione, dal momento che la soggettività (del lavoro) si decompone in mille rivoli.”

    Se la soggettività si decompone, come si può resistere al sopruso e limitare la perdita?

    Quella perdita di sopruso viene descritta da Cecilia Manzo come la distanza tra il costante surplus di capitale umano e il deficit di beni collettivi. In altre parole, solo attraverso la condivisione, per dirla con i dipendenti della Redaelli, la solidarietà o nel lessico contemporaneo, lo sharing si può ovviare quella sopraffazione, perché la mediazione non è più individuale, ma collettiva.
    Il maker space/fablab nasce con quella velleità di condivisione delle macchine, per ridurre lo sfacelo della sconfitta, e collocare, nelle ipotesi, la produzione e il lavoro relazionale non più in contraddizione, né tantomeno in esclusione, ma in costante arricchimento. Nasce dalle pratiche di costruzione collettiva di linguaggi e di saperi, che diventano poi prassi di lavoro e di comunità. Un’utopia lavorativa, profondamente politica, che richiede tuttavia di essere problematizzata, cercando di raccogliere l’eredità di quella classe che si sentiva esclusa da una morale tesa al profitto.

    Ad Opendot, negli spazi di un ex fabbrica, ora riadattati al sapere digitale e alla produzione condivisa, tra le vie del quartiere di Molise-Calvairate, proveremo a capire quali ipotesi si possono formulare sul futuro della relazione tra le macchine e le persone. In che rapporto stanno il lavoro, il capitale e il sociale, l’oscillazione tra l’individuale e il collettivo a Milano oggi, a fronte di trasformazioni tecnologiche che evocano una quarta rivoluzione industriale, tanto è radicale la portata del cambiamento in atto? L’incontro parte senza risposte, ma sicuramente con alcune domande.

    In che modo il rapporto tra persone e macchine ha cambiato la dimensione del lavoro? E in che modo le nuove macchine possono o non possono funzionare da aggregatori, e i fablab agire come spazi di riconoscimento e non di produzione tout court? Se nella teoria classica la macchina era lo strumento principe dell’alienazione, nella nuova narrazione della Manifattura 4.0 e dei suoi strumenti, la macchina è il falò intorno al quale si sviluppano le relazioni sociali tra gli utenti, spesso indicati col nome di “community”: la macchina è il cuore delle nuove manifatture.

    Si possono mettere in crisi entrambe le narrazioni. La fabbrica è stata anche lo spazio e il laboratorio della riflessione politica e culturale che ha portato alla trasformazione delle condizioni di lavoro, in chiara opposizione con la dimensione alienante. Per quanto riguarda invece la rappresentazione narrativa della manifattura 4.0, quanto questa riflessione sulla “community” è pratica solidaristica di scambio e quanto invece è tesa, ancora una volta, allo sfruttamento?

    Proveremo a rispondere a queste domande insieme a Enrico Bassi – docente di fabbricazione digitale e tecnologie produttive, OpenDot, Giorgio Falco – scrittore, autore di “Ipotesi di una sconfitta”, Einaudi, Andrea Fumagalli – professore di Economia Politica, Università di Pavia, Advisory Board Manifattura 4.0 Comune di Milano, Cecilia Manzo – ricercatrice di Sociologia Economica, Università di Firenze, Advisory Board, Manifattura 4.0 Comune di Milano. Modererà Andrea Daniele Signorelli – giornalista.

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