Parole che non lo erano: da autocertificazione a Zoom, la neolingua della pandemia

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    “Il Coronavirus viaggia nei droplet ma permane anche in aerosol, e gli asintomatici non sono meno pericolosi per cui più ancora delle FFP2 è raccomandato il distanziamento sociale”. Oppure. “Zoom va bene per la Didattica a distanza, ma dopo il bollettino delle 18 vediamoci per un aperiskype”.

    Dice un adagio – suggestivo ma non sempre corretto – relativo ai cibi confezionati: leggi l’etichetta, se ci trovi più di tre ingredienti che tua nonna non capirebbe, non comprarlo. Ora, in meno di sei mesi, noi siamo diventati i nostri nonni. Prendiamo le frasi qui sopra, scriviamole su un foglietto e con la macchina del tempo spediamole a inizio gennaio 2020: nessuno ci capirebbe un accidente. Eppure oggi ci sembrano perfettamente sensate, anzi sono linguaggio di uso comune.

    La pandemia, tra le tante cose, ha cambiato la lingua

    La pandemia, tra le tante cose, ha cambiato la lingua. Per sempre? Staremo a vedere, come per le altre cose. Parlare di parole non sembri ozioso, uno sterile esercizio intellettuale, mentre lì fuori a milioni si ammalano e muoiono, a miliardi sprofondano nella povertà: le parole sono il modo in cui ci raccontiamo le cose; secondo i più estremisti, il modo in cui creiamo le cose. Qual è allora la nuova lingua della pandemia?

    Non siamo certo i primi a chiedercelo: la Treccani, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità, ha realizzato un elenco dei 100 vocaboli più usati durante l’epidemia di Covid-19; ma dentro, come si può immaginare, c’è di tutto.

    La linguista Vera Gheno ha fatto un’analisi altrettanto tecnica, ma partendo da un rilievo empirico: ha chiesto a ognuno dei suoi contatti Facebook di indicare le 3 parole personalmente più importanti. Dal lato opposto, l’artista Jacopo Rinaldi ha scritto un bellissimo mantra della fase 1, una poesia d’avaguardia, un rap silenzioso, una lista omerica.

    Più modestamente, vorrei qui far notare una cosa: ci sono vari livelli di novità nel linguaggio della pandemia, che funzionano in modo diverso. Possiamo dividere le parole in tre categorie: i neologismi veri e propri, spesso crasi di parole esistenti, quasi sempre calchi dall’inglese (coronabond, aperiskype, infodemia); i termini tecnici usati in un ambito ristretto e improvvisamente note a tutti (cluster, codice ateco, droplet, FFP2, R0, sierologico, spillover); infine le parole più interessanti, quelle in uso già prima, con un significato generico e neutro, che improvvisamente hanno subito un’accelerazione, una torsione, e ora hanno un senso ben preciso, nella maggior parte dei casi minaccioso. È questa ultima la categoria più stimolante: a seguire qualche esempio, senza pretesa di esaustività.

    Aerosol – Prima era la soluzione, ora è il problema. Dispersione di un liquido in un gas (aero+soluzione), è forse il caso più clamoroso di rovesciamento di significato: è passato dall’indicare un modo per curarsi le vie respiratorie (Gino, hai fatto l’a.?), a un possibile veicolo di contaminazione. Ma sarà poi vero che è possibile infettarsi passando dove un contagiato ha respirato ore prima? Come per la permanenza del virus sulle superfici, non è stato dimostrato, ma neanche smentito: la minaccia pende.

    Asintomatico – Altro passaggio clamoroso dal positivo al negativo: se prima avere una malattia senza sviluppare i sintomi veniva normalmente considerata una benedizione, oggi gli asintomatici sono come gli untori di Manzoni. Anzi peggio: ché per loro continua a essere un fatto buono, dato che sviluppano gli anticorpi, ma per la società l’asintomatico è una mina vagante, silente e subdolo diffusore del virus. Es: i bambini sono spesso asintomatici (motivo per cui è giusto che le scuole siano state la prima cosa a chiudere e saranno l’ultima a riaprire?).

    Assembramento – “Sciopero, centomila persone in piazza, tremila secondo la questura”. L’assembramento già ieri non era visto di buon occhio, ma oggi è il male assoluto. Con questo curioso rovesciamento di interpretazione: mentre prima tendevano a minimizzare, oggi le forze dell’ordine individuano assembramenti ovunque, anche in due colleghi che chiacchierano a fine turno.

    Autocertificazione – Da grande svolta della burocrazia contemporanea (da oggi non serve più chiedere il diploma in originale, basta l’a.) a solenne e probabilmente inutile seccatura. Ora sembra che ce la siamo lasciata alle spalle, ma non si sa mai.

    Bollettino – Il rito laico quotidiano, officiato dalla Protezione civile: pochi minuti in cui vengono sciorinati i numeri, seguiti da 24 ore di interpretazioni (ma per capirci qualcosa il più, aspettiamo il b. di domani).

    Curva – Senso stradale, matematico o traslato, quel che è certo è che non riusciremo per lungo tempo a sentire questa parola senza pensare alla c. epidemiologica, con l’inevitabile ansia connessa: continua a salire? Si appiattisce? Quando arriva il picco?

    Contactless – La mia preferita, perché è un neo-neologismo. Era da pochi mesi entrata in uso per indicare il pagamento fatto con i bancomat di ultima generazione, che non c’è bisogno di infilarli nel pos ma basta appoggiarli, anzi neanche dev’esserci contatto. Ora è la consegna di postini e corrieri, tra i pochi lavoratori a non essersi fermati mai, che sono costretti a questa ulteriore acrobazia, dare senza toccare.

    Diretta – Su Facebook, nelle storie di Instagram, su Twitch. Non ci sono mai stati tanti canali per trasmettere, non ci sono mai state tante persone con qualcosa da dire. Ma ci sarà qualcuno che ascolta, che guarda? Torna sempre in mente Troisi (“Io sono uno a leggere, loro un milione a scrivere”).

    Fase – Uno, due, due graduale… La domanda non è quando arriva la f. successiva, ma: quando smetteremo di contarle?

    Gel – Nessuno meno di me può rimpiangere gli anni ’80, per tutta una serie di motivi pubblici e privati. Eppure: non era bellissimo il gel nei capelli, così moderno rispetto alla brillantina dei nostri padri? La preghiamo di utilizzare il g. disinfettante, ci dicono nelle situazioni più improbabili: sarà per via del dispenser così simile a quello del sapone, sarà per l’odore, ma che voglia di sciacquarsi le mani, subito dopo.

    Hai lavato le mani? – Frase idiomatica del genitore ansioso al figlio incosciente, fino a ieri. Oggi, sembriamo tutti genitori germofobi (e/o figli impertinenti?).

    Immuni – Da Tangentopoli in poi, immunità ha indicato i privilegi della classe politica, la famigerata kasta. A una sola lettera di distanza dalla impunità, l’immunità è stato un cavallo di battaglia dell’antiberlusconismo. Ora siamo nel momento di passaggio tra il potere giudiziario e il potere sanitario: Immuni è l’app di tracciamento che ha salvato l’Italia dalla pandemia, o ho capito male?

    Paucisintomatico – Come asintomatico, ma più brutto.

    Prima – Da innocuo avverbio di tempo a bisillabo capace di scatenare una struggente nostalgia.

    Quarantena – Ne abbiamo parlato per mesi, usando il termine come sinonimo di lockdown, ma per una volta l’anglicismo non era inutile. La quarantena isola una persona, o un gruppo ristretto, che si sospetta infetto, da una popolazione sana che si vuole preservare; il lockdown impone il confinamento in casa di una popolazione che non si è in grado di valutare se sia sana o malata. Chiamare il lockdown quarantena, significa insinuare che tutta la popolazione è infetta: pura neolingua, al limite con il bispensiero.

    Ripartenza – Quando ero piccolo e seguivo il pallone, si parlava di contropiede. Poi il termine fu abbandonato – forse perché parte di un vocabolario antico, forse perché ricordava troppo il vergognoso catenaccio – in favore di ripartenza. A palla ferma – europei rimandati al 2021 e campionato bloccato chi sa fino a quando – la società si prende una feroce rivincita sul calcio, insieme alla parola ripartenza.

    Tampone – Da parola un po’ tabù, prurigine da società patriarcale, a mito irraggiungibile: nei momenti peggiori della pandemia, sembrava impossibile fare un t. anche a chi manifestava chiari sintomi di covid.

    Tracciamento – Anche per questo concetto, una bella parabola: nel mondo di prima, il tracciamento di movimenti e l’elaborazione di dati era sinonimo di distopia, società del controllo. Poi, è diventato uno dei pilastri della lotta al coronavirus: le 3 T, trace, test, treat. Infine, è entrato nel regno dell’utopia.

    Ventilatori – C’è carenza di v.: questa frase, fino all’anno scorso, sarebbe stata indice di moderata preoccupazione nel corso dei mesi estivi, e avrebbe accompagnato le consuete raccomandazioni a bere molta acqua e a non uscire nelle ore più calde. Oggi il pensiero va subito alle terapie intensive e alla ventilazione polmonare: uno dei tanti motivi per cui le nostre estati non saranno più le stesse.

    Wet market – Mercati umidi, come da traduzione letterale, fa un po’ ridere, ma trasmette anche a sufficienza quell’idea di disagio un po’ viscido. Peccato che molto probabilmente lo spillover, il salto del virus da una specie all’altra, non sia avvenuto per colpa di un improvvisato macellaio di pangolini, ma a causa della pressione dell’uomo sull’ambiente, del continuo land grabbing di aree riservate alle specie selvatiche. Ma a fini propagandistici addossare la responsabilità ai cinesi mangiatori di cani è molto più sottile, molto più funzionale che sostenere improbabili teorie del complotto con virus creati in laboratorio.

    Zona rossa – Per noi attempati no global la zona rossa sarà sempre quella inaccessibile ai manifestanti durante i G8 degli anni 90. Senti zona rossa e subito pensi a Genova, piazza Alimonda, Bolzaneto. Anche in questo ultimo caso c’è stato uno spettacolare rovesciamento di senso: prima nella zona rossa non si poteva entrare, adesso dalla zona rossa non si può uscire. Siamo passati da assedianti ad assediati, l’unica cosa che non cambia è il risultato.

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