Lost in provincia

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    Lavoro, app di dating online, difficoltà relazionali: la vita nella grande città può farci sentire insignificanti e soli. Ma non è che la provincia è pure peggio?

    Luglio venticinque del Terzo anno Post Pandemia, Lia aveva passato una notte di gastrite tamponata dal Pantorc e mezza mattinata in una riunione insopportabilmente lunga, idiota, full of inglesismi, per un oggetto basato sull’intelligenza artificiale inutile e stupido. Era una riunione anzi una call a distanza, in smart working, dove un mosaico simmetrico di visi stanchi discuteva del nulla, e Lia percepiva con sfinimento l’idiozia che pezzettino dopo pezzettino stava costruendo da dieci anni lì dentro.

    La catastrofe era arrivata a marzo ma gli indizi, a volerli leggere, erano chiari da gennaio e certo anche prima. Per distrarsi andava spesso la sera a Milano dall’amico Mario. L’amico Mario abitava all’inizio di via Paolo Sarpi, lato piazza Gramsci, Mario la portava fuori con amici a mangiare sushi, a fare apericene, dopocene, concerti o cinema più cene, lunghe letture di poesia e poi cene.

    Certo che a trentanove anni, diceva continuamente a Mario, i migliori anni buttati. Mario non faceva più caso agli anni migliori: io che ne ho quarantaquattro e sono precario cosa dovrei dire? vuoi che ci ammazziamo? tesoro se ti fai fuori tocca farmi fuori anche io, ci facciamo fuori insieme e d’accordo, però tu ti sei fatta troppi film, le aspettative uccidono, fatti una canna e scrolla un po’ di reel che la vita continua, su.

     

    Foto di Alex Ivashenko su Unsplash

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