Come risposta alla crisi cronica della politica rappresentativa e dei corpi intermedi, crescono nei territori forme di autorganizzazione diffuse ed eterogenee. Il rapporto del 2021 “I volontari e il terzo settore nel Lazio” del centro di ricerca del CSV del Lazio, dimostra ad esempio come la percentuale di popolazione regionale attiva in una qualche forma di volontariato è aumentata in maniera inversamente proporzionale a quella iscritta a un partito politico: si è passati dal 6,9% del 1998 al 9,7% del 2018 per la prima, mentre gli iscritti ad un partito politico sono passati dal 3,2% all’1,4% nello stesso intervallo temporale.
Il fenomeno del volontariato, sempre più istituzionalizzato attraverso i nuovi strumenti della co-programmazione e co-progettazione, introdotti dapprima con i Piani di zona per i servizi sociali della Legge 328/2000, e più recentemente con il nuovo Codice del Terzo Settore, si presta a interpretazioni potenzialmente ambigue. Se da un lato testimonia la spinta di una parte della popolazione a interessarsi dei problemi collettivi nonostante un individualismo imperante, dall’altro si sta traducendo in un vasto processo di esternalizzazione a ribasso dei servizi pubblici, giustificando l’agenda neo-liberista degli enti locali. La sua istituzionalizzazione rischia poi di anestetizzare i conflitti sociali e di produrre una spirale di de-politicizzazione della vita urbana.
Nonostante le dovute premesse, non vi è dubbio che i fenomeni del volontariato, dell’associazionismo e dell’autorganizzazione meritino un adeguato approfondimento a livello sia qualitativo che quantitativo. Come ha evidenziato recentemente Carlo Cellamare, alcune delle realtà di autorganizzazione attive oggi a Roma sono le uniche in grado di sperimentare forme di “democrazia territoriale autoprodotta” e innovare pratiche e politiche, che vanno dal mutualismo sociale – il quale durante la pandemia ha dimostrato di essere vitale anche per le amministrazioni pubbliche -, all’ecologismo, ispirando una transizione dal basso radicata su un nuovo approccio co-evolutivo tra città e natura, che superi i modelli conservazionisti tradizionali. Molte di queste realtà, inoltre, hanno maturato una capacità sorprendente di adottare strategie politiche ibride, in grado cioè di preservare un’attitudine conflittuale rispetto alle istituzioni garanti dei modelli di città neoliberale, senza rinunciare, ove possibile, a collaborare e fare rete per sostenere le progettualità più interessanti.
Una sfida cruciale per le politiche pubbliche urbane è allora quella di riuscire a riconoscere queste pratiche e sostenerle nella loro natura autonoma e decentrata. La proposta dei Poli Civici di Sviluppo Locale, sulla quale ha lavorato il Laboratorio di Studi Urbani “Territori dell’Abitare” del DICEA dell’Università Sapienza di Roma, l’associazione Fairwatch e la Fondazione Charlemagne, va esattamente in questa direzione.
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