Il 22 agosto 2017 il Times of Higher Education pubblicava un articolo dal titolo emblematico Academics face higher mental health risk than other professions (Else, 2017). Sin dalla prima lettura, si rivelava un articolo dissonante rispetto alla narrazione dominante del lavoro accademico, generalmente definito come un lavoro privilegiato fatto da persone sovra-pagate che vivono in una torre d’avorio.
Di contro a questa narrazione, l’articolo si riferiva alla ricerca di Susan Guthrie, Catherine Lichten, Janna van Belle, Sarah Ball, Anna Knack, Joanna Holman e commissionata dalla Royal Society e dal Wellcome Trust, Understanding mental health in the research environment. A Rapid Evidence Assessment (Guthrie et al., 2017).
La ricerca si proponeva di stilare una rassegna della letteratura che negli ultimi anni si è occupata della trasformazione della salute mentale di chi fa ricerca nelle università. Secondo i risultati presentati, la maggior parte dei lavoratori universitari considera il proprio lavoro stressante.
Il personale accademico riporta livelli di burnout più elevati che nel resto delle professioni. Non solo, ma il burnout accademico sembra equiparabile a quello di individui che lavorano in settori ad alto rischio come la sanità.
La ricerca sottolinea che in proporzione il numero di studenti di dottorato e personale accademico che riporta di avere sviluppato un problema mentale è più elevato rispetto al resto della popolazione. Secondo il rapporto, elevate proporzioni (più del 40%) di studenti di dottorato riportano sintomi di depressione, problemi emotivi o livelli elevati di stress.
Tra i fattori determinanti di questa situazione, la ricerca cita il genere, a significare che le donne riportano un’esposizione allo stress più elevata rispetto agli uomini e una maggiore difficoltà a bilanciare il lavoro e la vita familiare.
L’altro fattore messo in evidenza dagli autori è «la personalità accademica», a intendere che l’attitudine all’autocritica rende gli accademici più suscettibili allo stress e a volte più inclini a esprimerlo o a riportarlo. In questo senso, continua la ricerca, «è poco chiaro se lo stress sia il risultato di un certo tipo di ambiente di lavoro o se l’ambiente della ricerca attragga un certo tipo di personalità».
Tra i fattori causali, il dato più interessante era però la «competenza percepita». Avargues Navarro, Borda Mas e López Jiménez (2010) hanno evidenziato come l’essere percepiti come persone competenti abbia una forte correlazione con la soddisfazione personale (Guthrie et al., 2017, p. 15). Opstrup e Pihl-Thingvad (2016) evidenziano come la soddisfazione professionale serva a mitigare lo stress.
In modo simile, Hargreaves et al. (2014) sottolineano come uno degli elementi che aumenta lo stress sia l’insicurezza sul lavoro e l’insicurezza circa le proprie capacità di fare ricerca secondo gli standard richiesti.
La ricerca continua citando un articolo del New York Times che traccia una connessione tra la crescita percentuale di casi di suicidio di studenti universitari e la «cultura della perfezione» (Scelfo, 2015), la tendenza diffusa tanto tra studenti quanto tra personale accademico a evidenziare l’esistenza di una linea assai sottile tra la tendenza all’hyper- achievement e l’angoscia del fallimento.
In molti casi, il semplice fatto di sbagliare un test di ammissione o un esame induceva giovani studenti a concluderne di «essere» un fallimento, invece di limitarsi a pensare di aver fallito un obiettivo, scriveva Scelfo (2015).
Secondo l’autore, possiamo parlare di cultura della perfezione ogniqualvolta la percezione di dover eccellere nelle proprie attività si traduce nell’esperienza di stati d’animo di «scoraggiamento, alienazione, ansia o depressione». In questi casi la colpa si traduce nella sensazione di essere «in difetto [defective] o, per dirla in un altro modo, di non essere bravi abbastanza». «Non si tratta di aver fatto una performance non buona», continuava Scelfo, «si tratta di essere dei buoni a nulla».
Qualche tempo fa, Mark Fisher (2014) scriveva un articolo appassionato intitolato precisamente così: «Good for nothing» − buono a nulla. Mark Fisher in quell’articolo tratteggiava la relazione tra la depressione, la percezione di inadeguatezza e la competizione neo-liberale.
Diversamente dalle interpretazioni della scuola di pensiero dominante in psichiatria che individuano le origini della depressione «nel malfunzionamento della chimica del cervello, un guasto che deve essere riparato con prodotti farmaceutici», e diversamente dalla psicoanalisi, che ne ricerca le radici nell’ambiente familiare, per Mark Fisher la causa della depressione è quella sorta di «inferiorità ontologica» nella quale la società democratica nasconde l’esistenza di un progetto di ri-subordinazione della società.
Per Fisher, la voce interiore che l’ha accompagnato per tutta la vita e che ripeteva continuamente, «sei un buono a nulla», nasceva qui, nel tentativo di negare la percezione ultima di una violenza di classe, la violenza con la quale la società neoliberale decide di espellere dal mercato e dalle protezioni sociali tutti coloro che vengono giudicati incapaci di apportavi un valore aggiunto.
Lo scopo di questo testo è di iniziare a esplorare il concetto di inadeguatezza. La sua tesi è che l’inadeguatezza nasconda l’introiezione, e pertanto la legittimazione, dello sguardo attraverso il quale l’epoca neoliberale decide di espellere intere porzioni della società dal mercato.
L’università incarna buona parte delle responsabilità dell’espulsione odierna. Per dirla con le parole di Kenneth J. Arrow (1973), nel momento in cui il mercato ha raggiunto la piena occupazione, l’istruzione terziaria è stata incaricata di agire da filtro sociale.
Per Arrow, non a caso, l’università è un filtro, uno screening device che «non contribuisce in nessun modo alla performance economica, né aumenta le capacità cognitive o la socializzazione», ma «serve come un dispositivo di catalogazione: ordina gli individui secondo le loro abilità, e offre questa informazione agli acquirenti di lavoro» (Arrow, 1973, p. 195).
Come spiega Kenneth Burdett (1978), non si tratta solo di catalogare, ordinare e schedare il capitale umano, ma di scremarlo: si tratta di schedare e scremare studenti e ricercatori (intesi come capitale umano), saperi (la ricerca applicata rispetto alla ricerca di base) e strutture (atenei e dipartimenti), in modo tale da allocare le risorse in quelle e sole unità produttive in grado di aumentare la competitività del mercato.
Da allora, docenti e studenti, saperi e strutture sono al centro di un processo di quantificazione, misurazione, valutazione e selezione fondato sul monitoraggio costante della propria performance attraverso il quale stilare una classifica delle risorse produttive in grado di portare il maggiore valore aggiunto.
In questo contesto, l’inadeguatezza del digital academic quale condizione affettiva dell’università digitale non deriva da una «inferiorità ontologica», per riprendere le parole di Mark Fisher, ma dalla violenza intrinseca alla decisione politica di scremare il numero di individui legittimati a ottenere un riconoscimento economico e sociale.
L’eccellenza e fallimento, in questa prospettiva, non sono conseguenze della condotta individuale. In una intelligente analisi dell’utilità dei ranking che ordinano le 17 mila università al mondo, Andrejs Rauhvargers (2011), che da anni si occupa di implementare i criteri di valutazione degli atenei globali, ricorda la domanda retorica giustamente posta da Jamil Salmi. «Quante università possono esserci tra le migliori 500?» E la risposta era naturalmente, «500».
In questo contesto l’eccellenza e il fallimento non sono risultati della condotta individuale ma il risultato strutturale di una politica che fa dell’ordinamento gerarchico uno strumento di espulsione centrale nella politica contemporanea, uno strumento altresì così in antitesi con i valori della cultura democratica da richiedere d’essere presentato come una conseguenza dell’inadeguatezza di parte della società. Si tratti di studenti che non riescono a accedere a un numero chiuso, di ricercatori precari che non riescono a trovare un posto fisso, o di progetti di ricerca che non riescono a trovare un finanziamento, nell’interpretazione del mercato questi non sono esempi di espulsone sociale, intesa alla maniera di Saskia Sassen (2015), bensì di inadeguatezza, progetti insufficienti, studenti «buoni a nulla», saperi inutili.
L’inadeguatezza, in questo senso, è una sorta di «condizione nervosa» che produce una specie di lacerazione nell’accademico contemporaneo che da un lato si vede continuamente attraverso gli occhi del mercato e dall’altro è ostaggio di una violenza d’espulsione ampiamente disconosciuta.
Riprendo il concetto di condizioni nervose dal vecchio libro di Tsitsi Dangarembga (1988) in base al quale gli individui talvolta si trovano prigionieri di due diversi regimi di verità, tra loro in contrasto e che devono essere decifrati per interpretare se stessi e agire nel mondo che li circonda.
La domanda è, come coesistono questi valori contraddittori nell’accademico digitale? In che modo subisce e in che modo gestisce la competizione per la sopravvivenza? In ultima analisi, è possibile trasformare l’inadeguatezza individuale del digital academic in una sorta di indignazione per il processo di espulsione nel quale l’università neoliberale opera in modo determinante come filtro sociale?
Prima parte di tre di un articolo originariamente pubblicato nella Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione, nel numero speciale “La ‘Grande Trasformazione’ dell’Università” (1/2018) a cura di Davide Borrelli e Marualuisa Stazio accessibile a questo link: http://www.rtsa.eu
Immagine di copertina: ph. Jordy Meow da Unsplash