Pochi giorni fa su cheFare Paolo di Paolo ha pubblicato una lettera aperta nella quale denunciava come, nella vita culturale italiana, fosse «sempre più la logica del clan, dell’appartenenza che definisce rapporti, indirizza le curiosità, mette in moto strategie, attiva o non attiva un dialogo» domandando infine, non credo per mera retorica, se abbiamo ancora voglia di impegnarci a comunicare, a parlare veramente.
Ho esitato molto prima di rispondere. Innanzi tutto perché quella pratica di consorteria e di cooptazione più o meno interessata e piccina che lì si denunciava è un fatto innegabile e ci sarebbe, probabilmente, poco da aggiungere. Ma d’altro canto una lettera così accorata e, mi pare, così ‘vera’ – ovvero fondata su un bisogno o malessere che trovano le loro radici esattamente al di fuori del malcostume che essa denuncia – invita ad una serie di distinguo e precisazioni che forse ha senso condividere in pubblico; e soprattutto richiede una presa di posizione che non rimanga relegata nello spazio di un sms, o di una veloce email. Altrimenti mi sarei limitato a rispondere privatamente che sì: abbiamo voglia, o almeno io ho voglia di confrontarmi, di discutere, magari anche duramente, sul senso e le possibilità del nostro (provare a) fare lavoro culturale. Che è un modo per dire, senza enfasi ma anche senza nascondersi in un understatement di maniera, provare a riflettere e discutere sul nostro essere nel mondo qui e ora.
Ne abbiamo parlato più volte, anche se sempre di fretta e come en passant: sarebbe bello, necessario forse, fare una specie di convegno – purché, aggiungo, diversissimo da quelli così clamorosamente irrilevanti dell’accademia – per confrontare idee e posizioni; per scontrarci anche, ma comunque per finalmente dirci, per usare la tua espressione, «qualcosa di serio». Ma fin qui, probabilmente, non aggiungo nulla alla discussione.
Proverò allora, come per gioco, a fare l’avvocato del diavolo. Dunque: leggiamo solo quelli della nostra tribù? È vero, ma come fare altrimenti? Non c’è bisogno di sciorinare numeri e statistiche: è impossibile, oggi, non dico leggere tutto, ma anche solo la metà di quello che si pubblica. Come scegliere in questo delirio di sovrapproduzione se non iniziando da chi ci è vicino e da chi, presumibilmente, stimiamo? A patto, naturalmente, che la stima sia reale e motivata e non frutto di convenienza. E qui, probabilmente, sta il punto (o uno dei punti fondamentali): chiediamoci perché stimiamo X piuttosto che Y, diamo ragioni e confrontiamoci sul valore dei libri e delle idee piuttosto che su quello delle donne e degli uomini che quei libri hanno pubblicato. Non è forse questo, ed esattamente, fare critica?
Ha ragione Wlodek Golkorn quando, rispondendoti, ci ricorda che la letteratura nasce in seno ad una società e che la fine delle regole condivise – e di un’idea di futuro – vale oggi «anche per quanto riguarda la letteratura e il dibattito culturale». Difficile dargli torto. L’analisi è accurata, ma il dato non è irreversibile. Sta a noi – noi tutti che ne abbiamo voglia – cambiare le cose.
L’arte nasce in seno ad una società ma non si esaurisce certo nella sua mimesi; se non è anche, allo stesso momento, critica e spinta ideale, non è nulla. Lo scriveva a chiare lettere Adorno proprio al principio della sua Teoria estetica: alla base della vera opera d’arte c’è sempre anche «il desiderio di produrre un mondo migliore». E allora, al netto del nostro disincanto, del nostro cinismo – che funziona, ormai, quasi come un riflesso condizionato – dico che se nella nostra pratica quotidiana non recupereremo quella tensione ideale a produrre un mondo migliore, anche il nostro lavoro sarà, letteralmente, nulla.
Michel Houellebecq, in una pagina memorabile di In presenza di Schopenhauer, ad un certo punto scrive: «è irritante dover vivere in un’epoca di mediocri; soprattutto quando ci si sente incapaci di alzare il livello. Di sicuro non produrrò nessuna idea filosofica nuova; alla mia età, penso che ne avrei già dato qualche segno; ma sono altrettanto sicuro che produrrei romanzi migliori se, intorno a me, il pensiero fosse un po’ più ricco».
Anche Wlodlek Golkorn, forse con non meno durezza, parla di «libri modesti» e quindi di un deficit di autorevolezza: riunirsi in clan è la scelta più naturale e più comoda per chi può esistere solo nel gruppo. Non so se sia vero che i libri «bellissimi» siano davvero così pochi. Mi pare però che il lavoro culturale, che si tratti di letteratura o di altre arti, non si faccia solo a partire dai capolavori, ma sia in primo luogo conversazione sullo stato dell’arte e sulle sue possibilità. Quella conversazione che, come già ricordava il Leopardi del Discorso, è pur misera cosa, nondimeno è l’unico fondamento rimasto, dopo la fine delle illusioni, per la costruzione di una società, e della sua morale.
E vengo così all’ultimo punto. Paolo di Paolo scrive: «mi pare che in fondo, conoscendoci, conoscendoci di più, sia impossibile arginare un trasporto, un sentimento di complicità, di alleanza, una forma di superiore e perfino allegra pietà per tutti, per il fatto di essere vivi, insieme, in questo momento». È una frase che molto mi ha colpito, forse anche per motivi personali: da molto, infatti, sto riflettendo su letteratura e pietas, su come i libri che oggi mi sembrino più importanti siano quelli che hanno a che fare con la nostra intrinseca fragilità, con quel sentimento di pietas che non può non coglierci di fronte allo sgomento del
Tempo che ci (s)finisce e schianta. Ma dall’analisi sociologica entriamo qui nel dominio dei rapporti tra estetica ed etica, e devo concludere. Eppure quello rimane, a mio parere, il passo fondamentale della lettera di Paolo, quello da cui ricominciare.
E allora, insieme a Paolo, io dico: proviamoci. Confrontiamoci e cerchiamo di rendere significativo, e significativo non solo per noi addetti ai lavori (a chi parliamo? e parliamo nel modo giusto? Sono domande fondamentali, credo, che sarebbe bene affrontare insieme), questo lavoro culturale che tanto ci appassiona.