Nord Dakota, mezza stagione, primo pomeriggio di un giorno di nuvole e sole. Una ventina di uomini della Nazione Arikara, disposti a semicerchio a rispettosa distanza da un giovane cedro rosso che svetta nella vastità della prateria, esegue una lunga danza rituale in onore dell’albero. Il cedro rosso non è quello del Libano, non ha niente a che vedere: in effetti, detto volgarmente cedro, è in realtà una cupressacea, il Ginepro della Virginia.
Il suo legno è resistente, elastico, profumato, sgradito ai parassiti e i Nativi se ne servono per varie applicazioni, soprattutto per fabbricare gli archi da tiro. In un certo senso, da quelle parti è l’albero per eccellenza. Al centro di varie complesse cerimonie, rappresenta la Meravigliosa Grande Madre, mitica guida ancestrale degli Arikara. A seconda dei casi, la danza può andare avanti per qualche decina di minuti o per ore e ore, accompagnata da canti.
Che ti importa di quegli uomini, di quell’albero, di quelle danze? Cosa può mai legarti a tutto questo?
Se della scena abbiamo foto, una dettagliata descrizione delle cerimonie, spartiti dei canti, addirittura qualche registrazione su cilindri di cera, lo si deve all’opera monumentale di Edward Sheriff Curtis, autore di The North American Indian in venti volumi corredati da altrettanti portfolio zeppi di migliaia di stampe fotografiche. Il lavoro sul campo alla base della raccolta fu avviato ai primi del Novecento grazie a un lauto finanziamento del magnate John Pierpont Morgan, il fondatore della General Electric.
Come è stato dimostrato da Mick Gidley, docente di letteratura e cultura americana all’Università di Leeds ed esperto di cultura visuale, l’opera di Curtis era stata concepita fin dapprincipio come un prodotto editoriale di gran pregio, a uso dell’élite imperialista nordamericana a cui apparteneva il suo principale finanziatore. Avrebbe documentato le ultime tracce superstiti di nazioni indiane in procinto di scomparire, cementando ideologicamente, a supporto e giustificazione dell’impresa coloniale, l’idea che l’intrinseca debolezza di quelle culture fosse in qualche modo naturalmente e spontaneamente votata a cedere il passo alla “civilizzazione”.
Curtis, pioniere dell’antropologia sul campo e dell’etnologia, era prima di tutto un fotografo professionista: le immagini stesse sono in realtà delle messe in scena che rielaborano la realtà nativa con spostamenti di senso ora sottili ora vistosi, per conformarla agli standard minimi dell’estetica occidentale.
Per il momento dò per scontato che, se qualcuno ci scattasse una foto in posa e descrivesse cosa facciamo in questo momento, con buona approssimazione tu e io sembreremmo più simili e più prossimi a Curtis e Morgan che non agli Arikara riuniti intorno al cedro rosso.
La nostra nazione è alleata degli Stati Uniti, la General Electric ha un peso non secondario sulla nostra economia domestica e il nostro immaginario degli “Indiani d’America” deriva pressoché interamente dal lavoro di Curtis.
È ormai ampiamente dimostrato, grazie alle più recenti tecniche di neuroimaging, che le pratiche meditative determinano un particolare sviluppo e specifiche riconfigurazioni sia funzionali che strutturali del cervello.
Basandosi anche su questi studi, un discendente degli uomini della foto, il sociologo Michael Yellow Bird, cittadino delle Tre Tribù Riunite Mandan, Hidatsa e Arikara, direttore del dipartimento di Indigenous Tribal Studies della North Dakota State University, ha recentemente proposto un accostamento delle cerimonie degli Arikara alle pratiche spirituali di origine buddista basate su mindfulness e concentrazione.
Si tratterebbe infatti, nei due casi, di esercizi volti al raggiungimento di stati di profonda compenetrazione con l’oggetto della meditazione, qui l’albero.
In queste circostanze, le aree del cervello deputate all’elaborazione di una rappresentazione del “sé” basata sulla contrapposizione al “non sé” o all’“altro”, rimangono pressoché inerti.
L’immedesimazione è tale che viene rimossa l’idea stessa di medesimo. Parole e idee non bastano più. Con le dovute cautele, possiamo ora dire che questo si vede anche a livello neuronale.
È dunque anche in riferimento a queste scoperte che, nell’ambito generale dei postcolonial e dei subaltern studies, Yellow Bird ha potuto elaborare una teoria e soprattutto una pratica della decolonizzazione specificamente intesa come neurodecolonizzazione. Si tratta, in parole povere, di ristabilire le competenze cerebrali rimosse dalla colonizzazione e di darvi nuovo sviluppo.
Quando diciamo “rimosse”, il riferimento non è, genericamente, a una ricaduta indiretta, sul piano culturale, di una dinamica strutturale, bensì a una deliberata politica di genocidio (anche) culturale. E mentale. Con l’insegna di “uccidi l’indiano, salva l’uomo” e la guida del tenente Richard Henry Pratt, fondatore e ideologo della Carlisle Indian School, infatti, il potere coloniale si dedicò a un’opera sistematica di rieducazione e americanizzazione che doveva per prima cosa sradicare proprio i processi cognitivi del “pensiero selvaggio”, rimpiazzandoli con lo spirito e la forma mentis adeguati alla Weltanschauung imperialista. Bambini e ragazzi venivano dunque sottratti alle famiglie e immersi in ambienti scolastici normalizzanti, dove era proibito l’uso della lingua nativa, degli abiti, delle acconciature, degli schemi di comportamento, dei saperi tradizionali ecc. in modo che i processi mentali potessero essere riconfigurati alla radice. L’equivalente di una lobotomia o, come ha scritto Ngugi wa Thiong’o, a proposito del contesto africano, nel suo Decolonising the Mind, di una “bomba culturale” sganciata dall’imperialismo.
Quando parliamo di americanizzazione, la cosa suona già più familiare. Ma è necessario fare un passaggio di scala, perché tutto questo può parlarci di qualcosa che va oltre il piano traumatico dei territori, dei confini geografici, delle nazioni e ha la natura cronica di ciò che attacca e muta le forme di vita.
Nel secondo volume della Teoria dell’agire comunicativo, Habermas mostra come nella nostra società la razionalità amministrativa ed economicista tenda a inglobare forme altre di saperi, propri di piani di esistenza in cui operava una razionalità pratica, duttile e non binaria. Su questo piano di esistenza, caratterizzato da una “riproduzione simbolica del mondo della vita”, osserva Habermas, “la mediatizzazione del mondo della vita assume la forma di una colonizzazione”.
Nelle stesse società occidentali, dunque, in questo senso, nel simbolico, si avrebbe l’esperienza di una “colonizzazione del mondo della vita”. Prolungando il pensiero di Habermas oltre i suoi limiti storici, e seguendo la ripresa di interesse occidentale per la critica postcoloniale in chiave gramsciana, in particolare di Franz Fanon, potremmo dire che oggi la messa a disposizione di ogni aspetto della vita e di ogni esercizio della mente a beneficio del modo di produzione capitalista, si basa su un processo implicito e originario che ha anch’esso la natura di una colonizzazione.
Una colonizzazione tuttavia non più frutto dell’imperialismo originario, quindi senza processualità, senza progresso e senza “altro”, già sempre data, dunque ammantata dell’idea di inevitabilità e ineffabilità che notoriamente caratterizza la forma attuale del capitalismo.
Secondo Michael Yellow Bird, la pratica della mindfulness e della concentrazione in vista della neurodecolonizzazione può condurre a prendere consapevolezza dei circuiti mentali coloniali, a guadagnare fiducia nella possibilità di eliminarli, dunque a spezzarli, e a (re)introdurne di nuovi e liberi. Gli uomini intorno al cedro possono indicarci una strada per decolonizzare anche la nostra mente.
La consapevolezza del lavoro, i precedenti contributi: Il fenomeno mindfullness, Mindfulness & millennials