L’emergenza Coronavirus ci ha posti nell’ultimo anno e mezzo di fronte a numerose sfide, ma ha anche aperto orizzonti di possibilità prima impensabili. Uno di questi riguarda il reddito di base – entrato nel dibattito italiano attraverso il nome ‘reddito di cittadinanza’.
Il reddito di base, nella sua accezione più ampia, è una misura di sostegno economico che viene erogata a tutti i cittadini in maniera universalista. Non è basata quindi su caratteristiche o situazioni personali, come l’aver perso il lavoro o avere una disabilità, né è dipendente da condizionalità esterne: tutti hanno diritto di riceverlo. In Italia, la misura che più si avvicina al reddito di base è, da gennaio 2019, il discusso ‘reddito di cittadinanza’.
Si tratta di una politica di contrasto alla povertà che unisce il sostegno al reddito all’attivazione lavorativa: a differenza del reddito di base di tipo universale, l’erogazione del reddito di cittadinanza viene infatti sospesa se i lavori proposti al ricevente non vengono accettati. Il supporto economico è quindi condizionato alla ricerca di lavoro. In questo senso, il reddito di cittadinanza si avvicina quindi più ad una forma di rilancio dell’occupazione, come quelle presenti nei sistemi economici scandinavi, che ad un vero e proprio reddito di base.
Fin dal suo avvio il Reddito di Cittadinanza è stato accompagnato da critiche accese, da destra e da sinistra. I due principali oggetti della polemica sono, da un lato, la possibilità di accedere a un reddito al di fuori di un rapporto di lavoro, cosa che nella percezione di molti incentiverebbe la pigrizia, e dall’altro lato la possibilità di frodare lo Stato, ricevendo un sostegno economico senza averne davvero necessità. In particolare, la discussione si accende in prossimità dell’inizio della stagione turistica.
“Mancano gli stagionali, colpa del reddito di cittadinanza”
Questa primavera non ha fatto eccezione. Nonostante i ritardi organizzativi nel settore del turismo dovuti alla pandemia, da maggio sono stati pubblicati numerosi articoli sull’impossibilità di trovare lavoratori stagionali per colpa del reddito di cittadinanza, per le ragioni più diverse. Secondo alcuni, chi riceve questo sostegno non ha nessun incentivo a lavorare, perché riceve già denaro sufficiente a sopravvivere. Secondo altri il reddito di cittadinanza scoraggerebbe invece il lavoro regolare, poiché per mantenere il sostegno economico i percettori chiederebbero uno stipendio ‘fuori busta’. Si tratta di quello che Guy Standing definisce la ‘trappola della precarietà’: il rischio di perdere il sussidio e non riottenerlo più per colpa di un lavoro stagionale di breve durata rende in alcuni casi più ragionevole rinunciare al lavoro stesso. In realtà, moltissimi giovani percettori di reddito di cittadinanza sono definibili come ‘working poor’, vale a dire individui attivi in forme di occupazione che però non permettono di raggiungere un livello dignitoso di vita.
Questo livello di attività lavorativa è ormai la norma per moltissimi giovani adulti. Nonostante i numerosi tentativi di riforma volti a stimolare – almeno sulla carta – il mercato del lavoro, coloro che si sono affacciati alla vita lavorativa attiva a partire dagli anni 2000, ed in particolare dopo la crisi del 2007-8, hanno fatto esperienza di una realtà nella quale l’impiego temporaneo, insicuro e sottopagato (quando non addirittura gratuito) è ben più frequente del lavoro stabile e a tempo indeterminato. Ora, a causa della pandemia, questa situazione è destinata a peggiorare. Forse l’aspetto più interessante oggi è proprio l’accettazione di questa normalità: durante la pandemia, molti giovani sottoccupati con carriere frammentate, che vivono al di sotto della soglia di povertà relativa e che non avevano mai considerato l’ipotesi di richiedere un sostegno istituzionale, hanno preso coraggio e fatto richiesta di reddito di cittadinanza.
Allo stesso tempo, la difficoltà economica data dalla crisi pandemica sembra aver reso più comprensibile la condizione dei giovani nel dibattito pubblico, poiché il moto di indignazione riguardo la questione dei lavoratori stagionali appare quest’anno molto più sfumato. Sebbene il refrain dei giovani sfaticati rimanga onnipresente, da più parti è stata sottolineata la mancanza di tutele degli impieghi nei settori turistici e della ristorazione, nonchè l’estrema diffusione del lavoro nero imposto dall’alto, più che richiesto dai giovani.
Il dibattito attorno al reddito di cittadinanza sembra quindi aver aperto una breccia verso una discussione ben più ampia, e necessaria, su lavoro e reddito, ponendoci finalmente di fronte a una domanda la cui risposta non è più rinviabile. Ovvero: come tenere insieme un mondo del lavoro che non riesce più a dare sicurezza e continuità, con la necessità di reddito da parte della popolazione?
Da UBI a RDC
Nel dibattito internazionale, il ‘reddito di base universale’ (o UBI, che sta per Universal Basic Income), è un tentativo di rispondere a questo dilemma. Negli ultimi anni il tema dell’istituzione di un reddito di base universale ha acquisito sempre maggiore centralità; grazie all’eterogeneità delle sue giustificazioni, questo vanta sostenitori provenienti dagli ambienti più diversi, da destra a sinistra, ed è stato oggetto di ampia discussione. C’è chi vede il reddito di base universale come una soluzione per le persone colpite da disoccupazione strutturale, per coloro i cui lavori sono stati sostituiti dall’automazione, per chi a causa di problemi di salute o di cura è temporaneamente impossibilitato a lavorare. Per altri, invece, con il reddito di base universale si eliminerebbero parte delle disuguaglianze nel mercato del lavoro, permettendo così a chiunque lo voglia di avviare una piccola impresa e contribuire al bene pubblico. Altri ancora vedono questa misura come una exit strategy per i lavoratori intrappolati in dinamiche abusive (senza tutele sul lavoro, per esempio, oppure dipendenti economicamente dal partner).
Il concetto su cui si impernia il reddito di base è in realtà costituito da tre parametri separati, ciascuno fonte di acceso dibattito. Prima di tutto, cosa significa universale? Secondo alcuni, il reddito di base dovrebbe essere abbinato a un requisito lavorativo: per continuare a riceverlo le persone dovrebbero impegnarsi in attività lavorative e sociali. Tuttavia, nella nostra società la popolazione non attiva (vale a dire, che non lavora e non può o non è interessata a cercare una occupazione retribuita) rappresenta circa tre quinti del totale. Non stiamo parlando dei disoccupati, che sono parte della popolazione attiva, ma di tutte quelle persone che si trovano in percorsi scolastici, in pensione, inabili al lavoro perché malati, o impegnati in lavori di cura della famiglia. Con questa premessa, più della metà della popolazione non potrebbe ricevere un reddito di base, perché impossibilitata a lavorare. Inoltre, anche per la popolazione attiva, la cosiddetta attivazione lavorativa collegata ai sussidi ha spesso risultati scarsi e di breve periodo, perché i lavori proposti sono in genere temporanei, di cattiva qualità, incompatibili con la salute o con la cura della famiglia.
In secondo luogo, c’è grande discussione riguardo alla soglia ideale di importo monetario elargito. Questo dovrebbe permettere di sopravvivere senza lavorare, o evitare solo di morire di fame? Meglio un importo che sostenga fino alla soglia di povertà relativa – il cosiddetto ‘reddito minimo’ – oppure una cifra tale da rendere il lavoro opzionale? Un aspetto interessante di questa discussione è rappresentato da tutti quegli esempi di espressione artistica nati in periodi di povertà degli autori: da Harry Potter ai Clash, sono tantissimi i casi in cui un sussidio ha permesso di creare qualcosa di apparentemente improduttivo che si è poi rivelato un fenomeno culturale importante. Forse un reddito di base potrebbe dare a più persone la possibilità di dedicare del tempo alla propria formazione, alla ricerca del lavoro ideale o a un progetto che altrimenti non vedrebbe mai la luce.
In terzo luogo, un punto rilevante riguarda il rapporto tra il reddito di base ed il welfare. L’erogazione monetaria del reddito di base dovrebbe sostituire completamente il sistema assistenziale, secondo alcuni, ma sarebbe problematico gestire tutte quelle questioni sociali per cui sono necessari servizi, più che erogazioni economiche. Secondo Nick Srnicek, autore di Inventare il Futuro, tenere conto delle diverse necessità delle persone, ad esempio di una disabilità che rende più complicato spostarsi, non può essere delegata all’iniziativa individuale attraverso un sostegno al reddito: in altre parole, i servizi necessari dovrebbero essere erogati indipendentemente dal reddito di base.
In Italia, come detto, sulle ceneri del ‘reddito di inclusione’ (o REI) istituito dal governo Gentiloni nel 2018 è emerso da questo dibattito il ‘reddito di cittadinanza’, sostenuto in particolare dal Movimento 5 Stelle, che nel 2018 ha vinto le elezioni promettendone l’istituzione. Nonostante tutti i punti deboli che hanno contraddistinto la sua implementazione, tra cui l’estrema difficoltà nella gestione dell’attivazione lavorativa personalizzata (il caso ‘navigator’) e l’esclusione di moltissimi aventi diritto a causa della clausola della residenza almeno decennale in Italia, questa misura ha rappresentato un primo passo importante nel porre l’attenzione verso l’insicurezza economica diffusa, che il mercato del lavoro non sembra più in grado di controbilanciare.
Eppure, a molti il reddito di cittadinanza continua a non piacere. Nel calderone delle posizioni che, da varie prospettive, avversano questa misura, al netto delle posizioni ideologicamente schierate (“non mi piace perché lo ha proposto il M5S”) troviamo in prevalenza due ordini di discorso. Il primo è di natura sociale e culturale: risulta totalmente inaccettabile per alcuni (tipicamente, del nord e con un lavoro fisso) che questo strumento permetta ad altri (tipicamente, nella visione dei primi, del sud, senza lavoro o che lavorano in nero) di vivere senza lavorare. In questo senso il reddito di cittadinanza mette il dito nella piaga della tensione tra ‘nord produttivo’ e ‘sud fannullone’, sostanziando una visione ‘liberale’ del lavoro come contributo al bene comune, ma nascondendo in realtà una considerazione particolarmente paternalistica del Meridione, visto come un contesto sociale da disciplinare al lavoro in opposto al nord ‘locomotiva’ della produttività nazionale.
Il secondo elemento di posizione – che spesso si combina e salda al primo – tra coloro che avversano il reddito di cittadinanza è di ordine morale. L’idea che il reddito di cittadinanza elargisca ‘soldi gratis’ a una parte della popolazione in cambio di… niente è, per una parte di Paese, moralmente (e quindi socialmente ed economicamente) inaccettabile. Lo è, da un lato e per certi versi comprensibilmente, per coloro i quali il modello sociale novecentesco basato sul lavoro fisso è stato in grado di realizzarsi con successo nonostante il suo lungo tramonto – vale a dire, per chi è riuscito a entrare a far parte di quel che resta della mitologica classe media. Lo è però anche, dall’altro lato e paradossalmente, per molti di coloro che, avendoci provato, sono stati marginalizzati dal sistema.
Questi ultimi, nonostante – o meglio, proprio a causa di – decenni di precarietà e lavoro ‘di merda’, per citare David Graeber, avversano radicalmente l’idea che altri possano essere sostenuti senza ‘dare qualcosa in cambio’ e ‘senza soffrire’ (un concetto quest’ultimo che riprende quasi letteralmente l’accezione inglese di lavoro come ‘labour’ ovvero travaglio, fatica). Proprio questa parte di Paese è quella che, forse più di altre, mostra grande risentimento verso il reddito di cittadinanza, schierandosi in una ‘guerra tra poveri’ che i linguaggi populisti che dominano il discorso politico odierno – promossi, va detto, non solo dai partiti populisti – hanno gioco facile ad alimentare. Pur essendo, questi ultimi, le vittime più evidenti del fallimento di un sistema, quello (neo) liberale, che ha dissestato il mondo del lavoro e ingenerato disuguaglianze sociali ed economiche senza precedenti, allo stesso tempo ne sono i più indefessi sostenitori. In questo senso, il reddito di cittadinanza interviene per la prima volta a ribaltare completamente la narrazione di responsabilizzazione individuale di stampo (neo) liberale rispetto al lavoro (“è colpa tua se non trovi lavoro”), ammettendo di fatto l’esistenza di ragioni sistemiche e istituzionali che sottendono all’odierno mercato del lavoro frammentato, precario e instabile.
Una tensione generazionale
A questo si sovrappone infine, confluendovi, il tema generazionale. I giovani italiani sono cresciuti in una società in cui la disoccupazione giovanile è strutturale e nella quale l’approccio al lavoro è necessariamente caratterizzato dal pragmatismo. Il lavoro precario è concentrato nella fascia d’età dei giovani adulti (il 53% di tutti i lavoratori precari ha meno di 35 anni, ISTAT 2019). I cosiddetti Millennial, in particolare, hanno subito gli effetti più devastanti della crisi economica del 2007-08 ed oggi, nel mezzo di una pandemia mondiale, la loro esperienza di lavoro è caratterizzata da incertezza congenita. Con la pandemia sono stati proprio i Millennial ad essere colpiti da una nuova ondata di disoccupazione senza precedenti, mantenendo perdipiù accesso limitato a forme di protezione sociale. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), nel mondo più di un giovane su sei ha smesso di lavorare a causa del COVID-19 nel 2020. Molti contratti temporanei sono semplicemente scaduti dall’inizio della pandemia e non sono mai stati riattivati, il che significa che anche le misure di sostegno introdotte in questi mesi come il reddito di emergenza rimangono irraggiungibili per molti. L’insistenza sulla mancanza di volontà o sull’incapacità di lavorare dei giovani continua a scaricare la responsabilità di questo stato di cose sulle spalle dei singoli, quando al contrario è sempre più evidente come il problema non sia individuale, ma sistemico, e come tale vada affrontato.
Tuttavia, oggi dopo un anno e mezzo di pandemia questa retorica individualizzante sembra perdere finalmente un poco la sua presa. La diffusione della difficoltà economica ha reso più pubblica ed intellegibile la fragile posizione dei giovani nel mercato del lavoro, ed è molto più difficile addossare colpe nel momento in cui tutta la popolazione ha provato cosa significa essere impossibilitati a lavorare. Da questa situazione disperata i giovani sembrano aver trovato la forza di iniziare a difendere la propria posizione. La maggior parte degli articoli a difesa degli stagionali introvabili era a firma di giovani giornalisti, e molti under 35 dall’inizio della pandemia si sono riscoperti sostenitori di un reddito minimo, almeno temporaneo. Paradossalmente, potrebbe essere almeno in parte proprio la presenza del reddito di cittadinanza a creare le condizioni per una riconfigurazione del mercato del lavoro stagionale: l’aumento del potere di negoziazione dato dal reddito di cittadinanza fa sì che i lavoratori senza tutele non accettino più la loro condizione in silenzio.
In definitiva, per la generazione Millennial il lavoro non può più essere messo al centro del sistema di certezze: è proprio la normalizzazione della precarietà lavorativa a portare sempre più giovani a riconsiderare il significato del lavoro, privilegiando altri aspetti della propria vita su cui si può avere un po’ più di controllo, come la formazione o l’espressione di sé attraverso passioni che non necessariamente possono sfociare in un’occupazione. Eppure, il loro termine di paragone per la mobilità sociale resta sempre la generazione dei genitori, che tipicamente sono i cosiddetti boomer, cosa che si traduce in ‘ottimismo crudele’, per citare la compianta Lauren Berlant, recentemente scomparsa, vale a dire il desiderio di emulare un ideale di vita (quello del Novecento e del posto fisso) nonostante la dolorosa constatazione quotidiana della sua sostanziale impossibilità.
Serve la politica, quindi. Ma quale?
La pandemia costituisce un punto di svolta nella problematizzazione della relazione tra reddito e lavoro ed il suo ruolo nella società. La crisi sanitaria decreta probabilmente la fine dell’utopia novecentesca della piena occupazione e del miraggio (neo) liberale del ‘siamo tutti imprenditori’. Dopo decenni di retorica e propaganda politica incentrata su questi modelli, è necessario e non più rimandabile ripensare il modello, immaginando soluzioni nuove – o, paradossalmente, riprenderne alcune molto vecchie e riadattarle al presente. E’ il caso dell’approccio neo-keynesiano proposto dall’amministrazione Biden, la quale ha capito che il vento sta cambiando e ha preso atto che le politiche di austerità e mercato a tutti i costi sostenute negli scorsi decenni non sono più adatte ai tempi. Il contrario, in sostanza, di ciò che sta accadendo in Italia, dove i cordoni della spesa pubblica restano saldamente in mano a chi ritiene che il mercato del lavoro si riformi liberalizzando e sopprimendo le tutele dei lavoratori, e dove per spendere i soldi del Recovery Fund si chiamano a raccolta esperti sostenitori dell’austerità. Come se dal 2007 a oggi fosse andato tutto benissimo.
Esiste – in Italia, ma non solo – un’incapacità strutturale di pensare un modello sociale alternativo alla società basata sul lavoro impostata dal sistema fordista. Il lavoro continua ad essere baricentro delle nostre vite, a mediare le nostre relazioni sociali e familiari, a guidare l’organizzazione del nostro tempo. Nella nostra società il lavoro, come afferma Kathi Weeks, “non è difeso solo per motivi di necessità economica e dovere sociale; è ampiamente inteso come pratica morale individuale e obbligo etico collettivo” (Weeks 2011: 11). Questo è vero a sinistra come a destra. Ma l’attuale ossessione per l’occupazione come espressione di valore e cittadinanza (anche per i diversamente abili e coloro che se ne prendono cura) rende ciechi di fronte alla necessità, ormai impellente, di riconsiderare il ruolo del lavoro come spina dorsale del nostro sistema sociale. Se non assolveremo noi questa necessità, sarà la storia a farlo al posto nostro.