Durante i primi anni della nostra casa editrice, che è Topipittori, mi capitava spesso, quando guardavo i resoconti delle vendite, o andavo in libreria e vedevo i nostri libri sugli scaffali, di provare un senso di incredulità. Che qualcuno comprasse i nostri libri in mezzo al mare di carta stampata esistente mi pareva un fatto straordinario. Non perché sottovalutassi le nostre capacità o non credessi in quello che facevamo e in come lo facevamo, ma perché in effetti il rapporto fra l’editore e la collettività a cui si rivolge ha davvero qualcosa di sfuggente, imprevedibile che si sottrae a ogni pianificazione e tentativo di conoscerlo.
Oggi mi viene da pensare che ci sono due modi di reagire a questo dato: accettarlo o pensare di controllarlo. Due atteggiamenti che determinano due modi di fare i libri. Noi apparteniamo al primo tipo di editore, quello che accetta; e la forma dei nostri libri nasce in larga parte da qui.
Un’altra cosa che ci capitava spesso di fare, all’inizio della nostra storia, era pensare a come volevamo crescere. Fa un po’ ridere: eravamo piccolissimi, pressoché sconosciuti, ma ci ponevamo un problema da grande casa editrice. Paradossalmente, però, è in questo momento che la crescita si sente di più, esattamente come capita quando si è bambini. Fra avere un mese e un anno, c’è di mezzo un abisso; fra avere 52 o 53 anni, ci sono pochi mesi. Perciò è normale che sia in questo momento che ci si chiede: cosa sto facendo, cosa sto diventando, cosa voglio diventare?
Noi, ricordo, eravamo pieni di dubbi. Ogni scelta ci pareva complicatissima. Avevamo cominciato per puro entusiasmo (che non significa in nessun modo da sprovveduti), e tutta la partenza era avvenuta, diciamo, di slancio. Ma poi? Che non fosse un gioco lo sapevamo. Ma sapevamo anche, e con sicurezza, una cosa: volevamo continuare a divertirci. Due necessità vagamente contraddittorie.
Cosa intendo con il termine divertirci lo spiego. Fare l’editore comporta un vasto campionario di grane, seccature, pratiche noiose, rischi e frustrazioni di ogni sorta, come peraltro capita in ogni professione. Molto spesso sono queste a prevalere, e prima di arrivare ad avere qualcuno che sbrighi per te queste faccende , devono trascorrere un certo numero di anni, ammesso che passino. Il divertimento sta nelle pieghe di questo sciame di fastidi e può essere reso da quell’espressione, un po’ astratta e pomposa che è fare cultura.
Fare perché l’editore svolge un lavoro praticissimo, la cui bellezza e interesse consistono specificamente nel realizzare in modo fattivo e concreto le idee, i progetti, il talento.
In sostanza avviene questo: appena decidi di fare l’editore, la realtà, la materia opaca di cui questa è fatta, ti si para davanti e ti costringe a prendere atto che qualsiasi risultato passa attraverso la soluzione concreta di una marea di problemi non solo materiali, ma soprattutto immateriali, che riguardano cioè sia le forme concettuali che le cose devono prendere per riuscire a essere trasmesse ad altri, sia il dialogo costante con la dimensione creativa di tutti coloro che concorrono a trovare queste soluzioni. La cultura è questo processo. Quindi grane e divertimento sono talmente interconnessi che è impossibile separarli.
E, sospetto, il giorno in cui le grane scompariranno, disgraziatamente scomparirà anche il divertimento (ciò non toglie che le grane siano grane; ci si può anche stancare ed è legittimo).
Naturalmente, il fare cultura non è esclusiva degli editori, tutt’altro. E nemmeno di tutti coloro che, professionalmente, operano in questo campo: università, scuole, biblioteche, teatri, amministrazioni, case di produzione cinematografiche, agenti, gallerie, musei, fondazioni, orchestre, reti televisive, ministeri, giornali, canali web eccetera. E nemmeno è esclusiva di tutti coloro che danno luogo a creazioni per conto di quelli appena nominati: registi, scienziati, scrittori, artisti, storici, danzatori, architetti, ingegneri, economisti, filosofi, musicisti, politici, giornalisti, grafici eccetera.
La cultura infatti, come tutti sanno, è un processo collettivo che in larga parte rimane spontaneo e inconsapevole, i cui risultati si manifestano nel tempo che a volte è molto lungo, anche oggi, nonostante le tecnologie che, se aumentano la rapidità, non è detto accrescano la chiarezza di percezione. Ed è questa la parte della produzione culturale più consistente, con cui la prima, quella di settore, interagisce quotidianamente ed è fortemente interconnessa.
In sostanza per tornare al nostro lavoro di editori, e tirando le somme, le cose stanno così: non è affatto scontato che, per quanto uno pensi di fare bene le cose, ci sarà qualcuno che seguirà il tuo lavoro, lo prenderà in considerazione, lo commenterà, lo farà suo, rilancerà la palla. Insomma farà quella strana cosa che l’uomo produce incessantemente, che lo voglia o no, lo sappia o no, che è, appunto, la cultura che a me fa venire in mente, non so con quanta pertinenza, l’ingegnosa nube d’inchiostro che i calamari si lasciano dietro per difendersi e spiazzare il nemico.
È questo ambito, precisamente questo, che determina quel fattore che sfugge a ogni previsione, pianificazione e analisi, di cui parlavo all’inizio. Perciò penso che il divertimento venga da questo: da quanto si sappia e si riesca a interagire e a intrattenere una relazione con questa complicatissima nube. E penso che il tentativo, e soprattutto la tentazione, di controllarla sia quello che determina la fine di ogni lavoro culturale, di ogni sua necessità, in sostanza la fine di ogni divertimento.
L’errore è sostituire alla capacità e alla necessità individuale e collettiva di comprendere e dare forma alle forme che prende il mondo in ogni momento, il tentativo di costruire forme create sulla base di ipotetici bisogni, aspettative, desideri della collettività, delineati in base a gratificanti esperienze pregresse. Questo tipo di lavoro è piuttosto noioso: la cosa che abbiamo sempre cercato di evitare.
C’è un Dialoghetto di Gianni Rodari, delizioso, ambiguo, diabolico, su cui ogni editore, grande o piccolo, dovrebbe riflettere. Dice:
Che cosa si aspetta da me la gente?
Che tu da lei non ti aspetti niente.
A volte non aspettarsi niente è una forma di rispetto; a volte, un atto di arroganza.