Tiziano Bonini recensisce ‘Entreprecariat’ di Silvio Lorusso, un’exit strategy dal realismo capitalista

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    Entreprecariat. Siamo tutti imprenditori. Nessuno è al sicuro è un libro che arriva al culmine di anni di discussioni sull’ascesa del precariato e la sua trasformazione in imprenditore di se stesso.

    Il titolo va a completare una costellazione di pubblicazioni recenti, anche in italiano, che ruotano tutte attorno allo stesso tema: dal fortunato libro di Ventura, Teoria della classe disagiata, a La Società della prestazione, di Simone e Chicchi. Ma se su questo tema fioriscono, negli ultimi anni, così tanti titoli, significa che gli editori hanno sentore di una crescente domanda di mercato da parte dei lettori, che poi spesso sono l’oggetto stesso di questi libri, quei precari che hanno bisogno di capire il mondo in cui vivono e che si rivolgono a questi libri perché non hanno 80 euro a settimana da spendere presso uno studio di psicanalisi.

    Lorusso scrive una certosina e originale genealogia dell’ascesa dello spirito imprenditoriale e della corrispondente diffusione della precarietà

    Questo libro rappresenta in effetti una terapia, che prima ne descrive chirurgicamente i sintomi, poi ne analizza le cause e infine propone un’“exit strategy” finale.

    Rispetto ai suoi predecessori che descrivono cose simili (per esempio l’affinità tra la “disforia di classe” descritta da Ventura e la “dissonanza cognitiva” di Lorusso), questo libro ha un dono particolare: quello di fornire una sintesi del pensiero di tutti quegli autori che hanno parlato di precarietà e imprenditorialità, da Sennett a Butler, da Standing a Foti e a Ventura.

    Lorusso ha il merito di affrontare con rigore da accademico ma con linguaggio da scrittore pop particolarmente ispirato tutta la letteratura che lo precede, animando i pensieri degli autori a partire dai quali costruisce la sua impalcatura. Ma questo lavoro certosino di dissezione del pensiero di chi lo ha preceduto nell’analisi delle dimensioni della precarietà lo svolge con un linguaggio particolare, non pedante, illuminante.

    Il futuro è come Medusa e non c’è scampo per nessuno: per non essere pietrificati, siamo chiamati a metterci in gioco e investire costantemente su noi stessi

    Il tono di Silvio Lorusso mi suona come quello di un documentario televisivo del servizio pubblico degli anni ’70 sulla vita precaria. O come quei documentari per la BBC di Adam Curtis:

    “La vita sociale diventa così un elevator pitch in un grattacielo dai piani infiniti” (p. 153)

    Il futuro è come Medusa e non c’è scampo per nessuno: per non essere pietrificati, siamo chiamati a metterci in gioco e investire costantemente su noi stessi. Siamo tutti risk-taker” (p. 19)

    “La pressione dell’imprendicariato non si limita a richiedere l’incessante upgrade delle tradizionali capacità professionali, ma invade anche la sfera del carattere, facendo del buon umore, dell’ottimismo e della cordialità un vantaggio competitivo da esercitare tramite pratiche meditative e psicologia comportamentale sotto forma di app per il telefonino.” (p. 19)

    Lorusso, e ancor di più Lovink, scrivono con questa lingua luminosa, che taglia a fette il reale

    Questa chirurgia linguistica assomiglia alle migliori performance editoriali di McLuhan, capace di coniare aforismi dall’alto potenziale memetico e si ritrova, ancora più luminosa, nella prefazione curata dal maestro di Lorusso, Geert Lovink:

    Non possiamo semplicemente vivere la vita, siamo condannati a progettarla. Questa è la dichiarazione programmatica di Silvio Lorusso. (Lovink, p. 9)

    L’ordinario non è più sufficiente. Noi, il 99%, rivendichiamo lo stile di vita esclusivo dell’1%. È questa l’aspirazione del pianeta H&M. (Lovink, p. 9)

    Stiamo diventando curatori della nostra vita. (Lovink, p. 9)

    Il problema del lavoro contemporaneo

    Lorusso, e ancor di più Lovink, scrivono con questa lingua luminosa, che taglia a fette il reale. Magari non riesce a proporre una teoria generale, ma è capace di indicarci dei frammenti del mondo in cui viviamo e di tesserli assieme in maniera nuova.
    Lorusso scrive una certosina e originale genealogia dell’ascesa dello spirito imprenditoriale e della corrispondente diffusione della precarietà. Il contributo originale di questo libro sta nell’aver individuato, nel nesso tra imprenditorialità e precarietà, la radice del “problema”, il campo da studiare per capire cosa ci sta accadendo.

    Il problema del lavoro contemporaneo non è solo che si precarizza, o non è solo che ci trasforma tutti in imprenditori di noi stessi, ma è che queste due dimensioni – imprenditorialità e precarietà – si sono per la prima volta nella storia, forse, fuse assieme:

    «l’imprenditorializzazione del lavoro non sarebbe altro che l’altra faccia, quella fittiziamente venduta come positiva e creativa, del processo di precarizzazione dell’impiego salariato». Se imprenditorialità e precarietà si mescolano dando forma a un’esperienza indifferenziata in cui non si sa più dove finisce l’uno e comincia l’altro, Entreprecariat si propone di discriminare, ovvero levare il velo imprenditoriale che avvolge la questione precaria e decifrare la strumentalizzazione dell’imprenditorialità per far fronte ai processi di precarizzazione” (p. 67)

    Se imprenditorialità e precarietà si mescolano, Entreprecariat si propone di levare il velo imprenditoriale che avvolge la questione precaria

    “Il brand Entreprecariat è una cosa e il suo contrario, esso incarna le contraddizioni sociali e individuali determinate dallo scontro tra precarietà e imprenditorialità” (p. 74).

    L’entreprecariato non individua una classe sociale specifica, ma un insieme di valori, un regime discorsivo, anzi, IL regime discorsivo dominante dei nostri tempi. Lorusso pone giustamente l’enfasi sull’aspetto linguistico della condizione entreprecaria e mostra come questa condizione sia la conseguenza di un’estensione costante del linguaggio proprio del management, di una cannibalizzazione della vita sociale da parte dell’immaginario mercantilista e individualista, basato sui valori della prestazione, della misurazione e del successo personale.

    L’entreprecariato non individua una classe sociale specifica, ma un regime discorsivo, IL regime discorsivo dominante dei nostri tempi

    Se è vero che il lavoro artistico e creativo è sempre stato precario (ricordate il protagonista di Illusioni Perdute di Balzac del 1830?), quello che sta accadendo oggi è che la precarizzazione e la corrispettiva trasformazione in imprenditore di se stesso, si sta estendendo, come un’epidemia, al resto della società. E si espande così velocemente, come un velo invisibile, che chi ci si trova dentro non si accorge nemmeno più dell’esistenza di questo velo. La condizione entreprecaria si naturalizza.

    L’uso della parola entreprecariato allora è utile per disinnescare questa naturalizzazione e svelare la faccia nascosta di una medaglia che appare avere solo un lato. La narrazione dominante ci presenta solo la faccia positiva dell’ascesa dell’imprenditorialità: Stay high, stay foolish. La precarietà sarebbe invece quel dark side of the moon celato dal discorso ideologico neoliberista diventato dominante.

    Stay high, stay foolish: la condizione entreprecaria si naturalizza

    Se disinneschiamo la maschera della neo-lingua liberista, che presenta i corpi degli imprenditori di se stessi come dei vincenti sempre sorridenti nelle foto postate su Instagram, quello che rimane è un corpo nudo e precario, stanco e ansioso, un corpo entreprecario: “l’imprenditorialità, una forma mentis proveniente da una pratica specifica, si è tramutata in un sistema di valori diffuso tanto radicato da risultare impercettibile. A occupare un piano di quello che Mark Fisher ha definito «realismo capitalista» in un libro omonimo, c’è il naturalismo imprenditoriale: l’intraprendenza come qualità innata dell’essere umano.

    Nel frattempo la precarietà si è imposta come norma, posandosi sull’esistente come fosse un agente atmosferico. Ne deriva un sentire comune fondato sulla paura o sul cieco entusiasmo: l’impossibilità di immaginare l’avvenire condiziona l’esperienza del presente, radicalizzandola” (p. 19)

    La mutata percezione del tempo comprime tempo di lavoro e tempo libero fino ad annullarne i confini; la mutata percezione dello spazio trasforma la vita entreprecaria in una vita nomade, la mutata concezione mentale di una vita produttiva è ridotta alla misurazione costante della performance e alla meditazione trascendentale codificata nelle app di mindfulness.

    Una volta vivisezionata la letteratura su precarietà e imprenditorialità, e fatte entrare in collisione queste due dimensioni per dare forma al nesso entreprecario, Lorusso inizia un lungo piano sequenza sulle manifestazioni estetiche e culturali (le tre parti del libro: valori, asset e piattaforme) della condizione entreprecaria: la mutata percezione del tempo, che comprime tempo di lavoro e tempo libero fino ad annullarne i confini; la mutata percezione dello spazio, che trasforma la vita entreprecaria in una vita nomade, la mutata concezione mentale di una vita produttiva, ridotta alla misurazione costante della performance e alla meditazione trascendentale codificata nelle app di mindfulness.

    Di nuovo, anche in queste sezioni, non c’è un argomento nuovo, non facciamo scoperte che non abbiamo già fatto in questi anni di dibattiti sui lati oscuri e ansiogeni dell’auto-imprenditorialità, ma il libro è comunque capace di dirci qualcosa di nuovo, di illuminare di una luce nuova cose che sapevamo già. E’ la tessitura certosina, anche qui, che rende il testo leggibile e attraente.

    Ciò che rende importante questo libro sono le sue conclusioni, estremamente umane e prive di quella critica depressiva che attraversa tante delle pubblicazioni sulla precarietà.

    Ma ciò che rende questo libro importante, da leggere, non è tanto la sua parte centrale, anche se scritta in maniera luminosa e dalla struttura chirurgica delle argomentazioni. Ciò che rende importante questo libro sono le sue conclusioni, estremamente umane e prive di quella facile ironia o della critica depressiva che attraversa tante delle pubblicazioni sulla precarietà.

    Se è possibile immaginare una via d’uscita a questo realismo Uber-capitalista, sostiene Lorusso, la soluzione non è individuale (digital detox, sottrazione individuale alla logica della prestazione ecc…) ma è collettiva e parte dall’accettazione della precarietà non come prodotto del capitalismo di piattaforma, ma come caratteristica ontologica dell’esistenza.

    Riprendendo il pensiero di Judith Butler, Lorusso sostiene che si può contrastare l’ascesa dell’entreprecariato solo considerandoci precari non perché imprenditori di noi stessi, aperti al rischio e indipendenti da qualsiasi forza, ma precari perché umani, limitati e fragili, bisognosi del sostegno degli altri, dipendenti dagli altri. Rifiutare l’autonomia di stampo individualista che si nasconde dietro la retorica dell’imprenditore di se stesso: “Ammettere la propria impotenza vuol dire riconoscere la propria insufficienza individuale abbracciando l’interdipendenza ovvero, detto in parole più semplici, il vivere in comune.

    Se lo spirito imprenditoriale mira a sopprimere qualsiasi espressione di impotenza, lo spirito precario ne fa il proprio orizzonte condiviso.

    Tale ammissione, che si inserisce nel discorso sulla precarietà ontologica avviato da Judith Butler, si pone a conferma del fatto, sottolineato da Sennett, che dipendenza e indipendenza non si escludono a vicenda. (…) Rivendicare l’impotenza non vuol dire arrendersi.
 Al contrario, vuol dire tracciare i contorni della propria limitatezza. Impotenza non significa nemmeno passività perché corrisponde al riconoscimento attivo di vuoti di potere individuale, essa è un invito alla cooperazione e alla mutualità.

    Impotenza vuol dire tregua, vuol dire abbassare le armi della competitività e dell’agire strategico. Se lo spirito imprenditoriale mira a sopprimere qualsiasi espressione di impotenza, lo spirito precario ne fa il proprio orizzonte condiviso”. (p. 200)

    Se dobbiamo fare tre lavori per portare a casa un reddito e pagare l’affitto nel nostro quartiere gentrificato, finiremo per andare a letto con la nostra tabella Excel postando foto sorridenti su Instagram.

    Vivere in comune, cooperazione e mutualità, sono le parole chiave per far sì che lo spirito dell’entreprecariato non si impossessi definitivamente dei nostri corpi. In fondo, si tratta di dare più valore al tempo dedicato alle relazioni sociali e al loro mantenimento, piuttosto che al tempo dedicato alla produzione di manufatti e servizi. Perché poi la sera, quando cala la notte, si rischia di andare a letto con la propria tabella Excel invece che con un’altra persona a cui vogliamo bene.

    Non sono sicuro che sia una exit strategy realistica ed efficace, perché per potersi dedicare di più alle relazioni che contano nella nostra vita, bisogna poterselo permettere, avercelo questo tempo. E se dobbiamo fare tre lavori per portare a casa un reddito e pagare l’affitto nel nostro quartiere gentrificato, finiremo per andare a letto con la nostra tabella Excel postando foto sorridenti su Instagram prima di addormentarci stanchi e depressi. Qualcuno dice che un reddito universale di base possa liberare questo tempo. Vorrei sperarlo, ma nell’attesa inizierei a lavorare meno la sera.


    Immagine di copertina da Unsplash

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