Lunedì 19 marzo 2018
La partecipazione è libertà? Fare audience
 
«La libertà non è uno spazio Libero. La libertà è partecipazione» cantava il Signor G fin dai primi anni Settanta dal lato B di un 45 giri malandato che mio padre faceva suonare per intere domeniche. Io avevo pochissimi anni e la sola cosa che riuscivo a intuire dal suo sorriso sornione e compiaciuto, nonché dall’enfasi che Gaber metteva sulla prima sillaba di “partecipazione”, era che in quella parola doveva celarsi la chiave di una dimensione numinosa e salvifica, una verità evidente eppure intuibile soltanto dai meno sciocchi. Non è certo un caso che la lucida ricostruzione della storia delle pratiche e delle strategie intese a sviluppare la partecipazione culturale proposta da Francesco De Biase nel suo recente Cultura e partecipazione. Le professioni dell’audience–  edito da FrancoAngeli nella collana «Pubblico, professioni e luoghi della cultura» co-diretta dallo stesso De Biase – prenda le mosse proprio dalla temperie di quegli anni e del decennio precedente. A quell’epoca, osserva De Biase, la partecipazione assume le forme coinvolgenti/emozionali tipiche tanto del formato televisivo (le famiglie Nielsen, il pubblico in studio, le telefonate ai giochi a premi, le interviste di strada) quanto della militanza politica. In quest’ultimo caso si inserisce nell’alveo, potremmo aggiungere, di un insistito piglio pedagogico ora brechtiano, ora paternalistico, ora brechtiano e paternalistico, che traspare ad esempio anche nell’istruzione, con le scuole popolari, o in editoria, con le biblioteche di base. Fin dall’inizio, cioè, la partecipazione è al contempo un potentissimo strumento di impegno politico, sociale, di trasformazione, di liberazione, e anche un dispositivo di potere, di mantenimento dei rapporti di forza vigenti, che funziona in fin dei conti sul medesimo piano simbolico. Una dinamica che caratterizza tuttora i paradossi della sharing economy, dove spesso la partecipazione è mero storytelling, la facciata presentabile dell’economia estrattiva, del capitalismo di rendita, che a volte si presenta addirittura sotto le forme grottesche del redwashing. Nel rintracciare questo originario elemento di ambivalenza e nel seguirne l’evoluzione storico-politica fino ai giorni nostri, De Biase insiste però in chiave costruttiva soprattutto sugli elementi positivi, legati anche e soprattutto alle politiche delle amministrazioni e degli enti locali volte alla promozione della partecipazione intesa come attivazione dei territori, a cominciare da quelli urbani. Dalla metà degli anni Settanta in poi, infatti, la partecipazione assume anche le forme della riappropriazione della città e dei suoi spazi da parte di pubblici di diversa estrazione sociale e culturale, attraverso la riscoperta, la riapertura e la riqualificazione di edifici, strutture, monumenti, parchi, e grazie alle politiche di pianificazione culturale che conseguono all’istituzione degli assessorati alla cultura. Anche quando si tratta di esaminare più in dettaglio la questione della centralità dello spettatore, De Biase organizza la sua analisi intorno ad alcuni elementi di criticità. Innanzitutto i dati relativi alla non-partecipazione culturale in Europa, dove medialmente la spettatorialità assume tuttora in prevalenza le forme fredde della fruizione radiotelevisiva passiva. Ciò che allontana i pubblici dalla partecipazione culturale, poi, è soprattutto la mancanza di tempo, che è un fattore strutturale, e la mancanza di interesse, che invece sposta l’accento sull’adeguatezza di formati e contenuti, nonché sull’opportunità delle strategie politiche di promozione della cultura. In questo senso, De Biase riprende le critiche di quanti hanno rilevato che in diversi paesi europei gli investimenti in cultura si sono tradotti in un sostanziale fallimento perché hanno privilegiato l’offerta a discapito della domanda, ovvero proprio perché si sono curati poco o nulla della promozione della partecipazione, e della formazione e dello sviluppo di nuovi pubblici. L’attuale centralità dell’audience development nelle politiche culturali europee costituisce dunque un tentativo di risposta a questo fallimento attraverso interventi che danno priorità alla promozione dell’accesso alla cultura. In questo quadro, De Biase esamina allora l’emergere di  figure professionali nuove, che interpretano il lavoro sul pubblico e col pubblico da punti di vista differenti, a diversi livelli e con vari strumenti, ora più legati al management, al marketing, alla pianificazione e al dialogo istituzionale, ora di carattere più connesso a pratiche come la creazione di comunità, la spettacolarizzazione, la gamification ecc.: l’animatore culturale, il cultural planner, il manager culturale, il mediatore culturale, l’audience developer. Queste figure professionali richiedono l’attivazione di percorsi di formazione e aggiornamento culturale e professionale opportuni. La sezione centrale del libro, la più tecnica, è dedicata a una puntuale analisi delle criticità legate a questi iter formativi e propone alcune linee guida possibili. De Biase sembra però intenzionalmente lasciare tra parentesi la questione di chi debba erogare questa formazione, tenuto conto dell’inadeguatezza dell’attuale sistema formativo formale denunciata da più parti. Ma è un punto cruciale, e dalle premesse stesse che animano la riflessione di questo libro, nonché dalle esperienze che si vanno moltiplicando in questi anni, si può forse desumere che la strada sia soprattutto quella di un’auto-formazione non-formale e informale da parte delle stesse comunità di operatori culturali, anche in dialogo con il mondo scolastico e accademico, ma fuori dai canali e dai formati istituzionali. In ogni caso, come osserva lo stesso De Biase, la formazione rimane una delle condizioni essenziali affinché queste figure professionali possano svolgere un’azione efficace e trasformativa, cioè volta alla crescita culturale dei pubblici e allo sviluppo culturale del cittadino, e non tradursi in agenzie di propaganda. Perché se è vero che la libertà è partecipazione, non sempre la partecipazione è libertà.
Immagine di copertina: ph. Roman Koester da Unsplash
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