Quando lo stipendio fisso è quello che è, le mance si sa fanno la differenza.
Non è un caso che blogger, podcaster, youtuber e influencer- che oggi rientrano tutti sotto la categoria di creators– abbiano così a cuore le visualizzazioni e i feedback (iscrizioni al canale, like, commenti, condivisioni) della loro nicchia di audience; oltre al confronto costruttivo o meno con i propri fan, quel seguito porta un guadagno che spesso costituisce l’unica fonte di finanziamento degli stessi contenuti.
Alcune piattaforme come Youtube o Twitch retribuiscono già i propri creator sia attraverso le visualizzazioni, sia attraverso forme di abbonamento e donazioni.
Nell’epoca dei social però, la questione è più intricata poiché il confine tra creatori professionisti e amatoriali è sempre più sottile: sono creators i musicisti, i comici, i poeti, gli artisti e più in generale qualsiasi tipo di creatore di contenuti, dal personal trainer al divulgatore di scienza, che in qualche modo soddisfa un interesse verso una community, generando e spesso sottraendo audience ai media tradizionali. Sono creators, i commentatori seriali di post, gli haters, i pubblicatori compulsivi di foto di gatti e di stories di cibo. Sono un creator io che sto scrivendo questo articolo e probabilmente la maggior parte di quelli che lo stanno leggendo.
Qualcuno sta finalmente pensando allo sfruttamento delle content industry e di tutti quei produttori di contenuti digitali di qualsiasi natura che lavorano quasi gratis?
Ecco perché alcune dichiarazioni del nuovo proprietario di Twitter Elon Musk, non sono solo le solite dichiarazioni eccentriche, a cui l’imprenditore ci ha abituato. Dietro alla promessa della lotta alla censura, si “nasconde” un’idea ben più ampia di social network; lo stesso Elon ha usato la metafora della cinese Wechat per descrivere il suo progetto di platform multicanale, una sorta di superapp in cui poter messaggiare, inviare mail, condividere video e testi, ma anche fare pagamenti o chiamare un taxi. Fin qui niente di diverso dalle solite mire espansionistiche tipici degli imperatori dell’informazione . Una delle prime iniziative della nuova dirigenza Twitter però, sarà quella di allungare i testi (prima limitati ad un formato standard) e soprattutto ridistribuire parte delle entrate degli abbonamenti e delle pubblicità ai creatori di contenuti: non solo ai grandi publisher ma a tutti.
Perché i creatori di contenuti come Musk ha recentemente twittato: “hanno bisogno di guadagnarsi da vivere” …
Qualcuno sta finalmente pensando allo sfruttamento delle content industry e di tutti quei produttori di contenuti digitali di qualsiasi natura che lavorano quasi gratis formando quell’insieme di lavoratori nell’ombra che Kate Eichhorn chiama content capital, cioè una ricchezza artistica quasi a costo zero che per anni è stata estratta dalle piattaforme monopoliste?
Speriamo di sì. È più probabile però, che Twitter stia solo seguendo la tendenza del momento.
Il sistema delle pubblicità online è in crisi. I maggiori attori di questo modello come le grandi piattaforme social sono alla ricerca di nuovi canali per profilare e veicolare la nostra attenzione verso i capitali degli inserzionisti.
Per anni, le piattaforme hanno sfruttato il lavoro di creatori, editori e publisher per veicolare l’attenzione generata sottoforma di dati, “impacchettandola” e fornendola agli inserzionisti: in cambio, sono diventate aziende da trilioni di dollari.
Grazie ai nostri dati lo scorso anno solo Amazon, Google e Facebook hanno guadagnato oltre 352 miliardi di dollari dalla pubblicità. In Italia queste tre aziende rappresentano circa l’80% degli investimenti pubblicitari. Tuttavia, le recenti normative sui cookie di terze parti stanno diminuendo i rendimenti delle campagne di advertising e spingendo l’inserzionisti a ricollocare parte dei budget.
Lo scorso anno Amazon, Google e Facebook hanno guadagnato oltre 352 miliardi di dollari dalla pubblicità e in Italia rappresentano circa l’80% degli investimenti pubblicitari.
Come afferma sempre la Eichhorn in Content: “quello di cui la maggior parte delle persone non si rendeva conto tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila è stato come, dove e in che modo i contenuti che condividevamo gratuitamente online, avrebbero aiutato a generare guadagni ad aziende private”.
Ognuno di noi è una fabbrica che produce continuamente dati: non solo intesi come tracce ogni volta che siamo fruitori passivi di contenuti, ma anche quando siamo ascoltatori attivi, potenziali compratori o potenziali creator (o potenziali lavoratori sottopagati).
Forse più che motivare le cause dell’acquisto da 44 miliardi di dollari Twitter o cercare di capire come Elon vuole sfidare il modello cinese, sarebbe interessante interrogarsi e capire come siamo arrivati a cedere così tante fette di libertà a delle aziende private.
Come siamo arrivati al punto in cui se un azienda privata come Twitter, decidesse in un mondo sottosopra di ribaltare il sistema della pubblicità e ridistribuisse i guadagni tra i creators ( per non parlare di tutto il mondo delle gig economy) potrebbe fare una delle riforme del lavoro più epocali della storia, sconvolgendo le intere industrie culturali, dal giornalismo alle case discografiche, dai grandi gruppi editoriali alle piccole case editrici emergenti, da qualsiasi forma di testo pubblicato, musica e video, rinegoziando cioè con una semplice mancia tutto quello che la rivoluzione di internet ha portato ma anche distrutto?
Niente paura, ancora è un progetto meno probabile della mobilità totalmente elettrica o della vita su Marte. Fino ad allora, cari creators, resistiamo.
Immagine di copertina di Akshar Dave da Unsplash