Perché l’innovazione sociale non funziona?

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Perché l’innovazione sociale non funziona? A volte può essere utile porsi domande scomode e anche esagerate nella formulazione per evitare la peggior malattia di chi vuole cambiare (e non solo) ovvero l’autoreferenzialità. Una patologia di stagione verrebbe da dire, legata a una particolare fase del ciclo di vita dell’innovazione cioè quando singole esperienze cominciano a riconoscersi e a condividere, generando apprendimento ma, a volte, anche autocompiacimento.

    Un crogiolarsi che diventa un espediente per mascherare i propri limiti attribuendoli invece a cause esterne come quando gli atleti imputano solo o quasi a fattori ambientali la loro performance negativa. E’ già successo in passato – ad esempio nel campo del terzo settore e dell’impresa sociale – e probabilmente è normale che sia così, a patto però di non trasformare questa fase da transitoria a permanente.

    Perché così facendo l’innovazione sociale si condannerebbe allo stato di residualità, utile al massimo per fare da laboratorio di ricerca e sviluppo a favore di altri soggetti che, alla fine, ne estraggono il valore rafforzando ulteriormente la loro posizione dominante.

    Niente cambio delle regole del gioco e degli assetti di potere dunque, ma il solito rimpallo tra Stato e mercato che rende permanenti i fallimenti ciclici dell’uno e dell’altro con la società civile che gioca, alternativamente, i ruoli di tribuno della plebe rispetto ai bisogni insoddisfatti e di Sisifo che si trova, di volta in volta, a riparare i danni altrui senza mai affermarsi come vera e propria “terza via”.

    Sì, perché la risposta alla domanda iniziale è legata proprio alla capacità trasformativa dei processi di rigenerazione sociale attivati anche dalle esperienze che si autonarrano in questo volume (Il ritorno a casa degli Ulissi. Le professioni al tempo della rigenerazione urbana curato da Luca Bizzarri per Pacini editore, ndr.). Trasformazione che riguarda non solo le modalità di progettazione delle attività e di design dei soggetti organizzativi che se ne fanno carico, ma agisce anche sui comportamenti sociali e sulle preferenze delle persone, oltre che sulla governance di politiche non settoriali ma trasversali che muovono cioè lo sviluppo socioeconomico territoriale nel suo complesso.

    In una parola: impattano. È infatti intorno alla dimensione d’impatto sociale che si misura l’efficacia delle azioni volte a cambiare la destinazione d’uso degli spazi trasformandoli in asset comunitari. Da questo punto di vista, per usare un eufemismo, la strada da percorrere sembra ancora lunga considerando che oggi a dominare la scena non sembrano essere le comunità che agiscono in modalità di “normalità trasformativa”, coltivando cioè l’arte dell’apertura e della connettività inclusiva, ma piuttosto quelle rancorose che portano agli estremi il modello del “non nel mio giardino”.

    Le politiche: dai movimenti ai corpi intermedi

    Spostando l’attenzione dai movimenti nella pancia del Paese alle politiche la situazione non sembra migliorare, anzi.

    Le poche policy pubbliche che ambiscono ad essere “di sistema” non investono in modo significativo sul potere istituente, cioè di intermediazione, della società civile, ma piuttosto su un approccio che sparpaglia la cittadinanza attiva in micro iniziative che poi faticano a ricomporsi in piattaforme di cambiamento sociale.

    Un limite che forse tradisce una mancanza di volontà – questa davvero tutta politica – nell’abilitare un vero e proprio contraltare al monopolio sull’offerta di beni pubblici, nonostante quest’ultima soffra in maniera crescente non solo di qualità decrescente, ma sempre più in termini di capacità distributiva e di accessibilità.

    Gli sforzi della filantropia, che da questo punto di vista si configurano sempre più – in quanto nonprofit – come stampella del pubblico, si trovano nella classica, e scomoda, posizione dell’ultimo miglio. Hanno contribuito a sollecitare una grande quantità e varietà di esperienze promettenti alimentando anche la costruzione di quadri di significato utili alla costruzione di nuove politiche, ma faticano a effettuare il “trasferimento tecnologico” della loro innovazione in senso istituzionale perché scontano la loro diffusione a macchia di leopardo sui territori. Un divario di sviluppo che è sempre più evidente, peraltro non solo lungo le classiche coordinate Nord / Sud ma anche a livello geocomunitario.

    E inoltre la messa a regime dell’innovazione sociale incubata dagli attori filantropici è ulteriormente difficoltosa perché essendo localizzata si scontra con un sistema di poteri pubblici locali disassato dove non è più chiaro “chi fa cosa” lungo la filiera della sussidiarietà verticale che dallo Stato centrale arriva fino agli enti pubblici locali (e viceversa).

    Allo stesso modo anche gli attori economici e finanziari faticano a esercitare un ruolo di infrastrutturazione di politiche “impact oriented”, nonostante utilizzino in modo intensivo questo termine per nominare strategie e prodotti / servizi dedicati. L’adozione da parte delle imprese di capitali di value chain capaci non di massimizzare ma di condividere il valore è ancora in attesa di una sua declinazione “glocal”, nel nostro caso all’interno di una nuova accezione non solo di cosa è ma soprattutto di cosa significa “made in Italy”, sfuggendo così dalla trappola di un’innovazione di prodotto fine a stessa.

    Le imprese di piccole e soprattutto di medie dimensioni paiono aver individuato nella coesione sociale un vero e proprio fattore di competitività

    Se il funzionamento è chiaro – incorporare la dimensione socio ambientale come componente strutturale della value chain – rimane da capire come può funzionare in una economia come quella nazionale a bassa (o nulla) crescita positiva, non solo del Pil ma anche della qualità della vita.

    Le grandi imprese, dai cui milieu culturali era stato partorito il concetto di shared value al fine di recuperare legittimità presso clienti che sempre più “votano col portafoglio”, sembrano aver “ritratto il braccio”, preferendo lavorare su un miglior confezionamento delle tradizionali azioni di responsabilità sociale, collezionando buone pratiche di rapporti con il terzo settore e l’imprenditorialità sociale senza però intaccare il loro modello business.

    Meglio invece le imprese di piccole e soprattutto di medie dimensioni che paiono aver individuato nella coesione sociale un vero e proprio fattore di competitività. Ma, in questo caso, l’attenzione è forse ancora troppo concentrata sui fattori più prossimi alla catena di produzione del valore, trattando ancora come semplici esternalità benefici creati a più ampio raggio, non riuscendo o non volendo fare la fatica di incorporare anche questi ultimi come asset d’impresa, magari trattandolo come un intangibile da finanziare e da mettere a patrimonio.

    Il caso del welfare aziendale è emblematico in tal senso perché la maggioranza delle imprese lo agisce come un potenziamento della funzione interna di gestione delle risorse umane e meno spesso come una leva lunga per meglio innervarsi nelle dinamiche socioeconomiche territoriali da cui trarre non solo elementi di natura reputazionale ma importanti conoscenze tacite.

    La finanza come agente di trasformazione sociale

    Allo stesso modo anche gli attori della finanza mainstream massicciamente riconvertiti ai dettami dell’impact investing, pur essendo molto proattivi presentano ancora limiti nel matching con l’innovazione sociale. Un po’ perché, da una parte, agiscono preferenzialmente la leva della finanza di debito che è ancora rinchiusa in cataloghi di offerta molto centrati sulla gestione corrente e su investimenti standard e non certo su iniziative, tendenzialmente più rischiose, di natura trasformativa.

    Un po’ perché l’apporto di capitale di rischio presuppone invece uno sforzo conoscitivo e di accompagnamento rispetto al quale non è ancora chiaro se “il gioco vale la candela”, ovvero se ha senso investire tempo e risorse in azioni di capacity building per poi investire in progetti e imprese a elevato impatto sociale. Oppure se sia meglio per gli investitori trasformarsi essi stessi in imprenditori che costruiscono veicoli d’impatto “a loro immagine e somiglianza”.

    Quel che sembra mancare, in questo campo, è una saldatura di natura ecosistemica tra almeno quattro diverse componenti: attori finanziari che accettano di ridisegnare ancor più nel dettaglio i loro prodotti, soggetti filantropici che accentuano funzioni di supporto all’innovazione embrionale, enti pubblici con funzione di garanzia (e di cofinanziamento) e, non da ultimo, piattaforme e altri intermediari che svolgono funzioni di brokeraggio delle risorse apportate dalla crowd degli investitori singoli. Una quadratura ancora di là dall’essere realizzata, anche da parte dei soggetti storici della finanza sociale.

    Il ruolo dell’economia sociale

    All’appello dei possibili policy maker mancano infine i rappresentanti dell’economia sociale. Un settore che, va ricordato, in Italia rappresenta una componente strutturale della società e un attore significativo in segmenti importanti dell’economia come agricoltura, welfare, sport, cultura. Si notano, su questo versante, diversi tentativi di strutturare relazioni, e non solo semplici incontri, tra gli attori dell’innovazione sociale emergente con soggetti più consolidati, in particolare del mondo cooperativo e associativo.

    Una strategia di annidamento tutto sommato ben definita nella sua architettura, però forse poco accelerata in fase di esecuzione a causa di un investimento di risorse ancora non adeguato. Risorse che peraltro non sono solo economiche, ma anche conoscitive e culturali in senso lato perché richiedono una ridefinizione profonda dei fondamenti dell’economia sociale.

    Concretamente: la governance associativa e cooperativa applicata a iniziative di innovazione sociale del nuovo millennio non “tornerà a casa” allo stesso modo, ma verrà profondamente risignificata nelle forme e nelle ritualità per il fatto di venir praticata in nuovi settori e all’interno di nuove soggettività ibride che spingono i meccanismi cooperativi e associativi oltre l’alveo delle forme giuridiche tradizionali del settore. Inoltre questa stessa modalità di fertilizzazione incrociata che è al tempo stesso intergenerazionale e intersettoriale non sembra ancora del tutto riconosciuta come applicazione sui generis di un’innovazione aperta autenticamente cooperativa.

    Un processo capace cioè di prototipare prodotti e servizi con incorporata una cultura d’uso collaborativa e di condivisione che rimane nelle mani di coloro che lo alimentano, non venendo invece capitalizzato nei conti economici e patrimoniali dei big players della sharing economy.

    Anche in questo caso i limiti non sono solo esterni, legati cioè alle caratteristiche dei competitor capitalistici che hanno individuato negli scambi delle reti sociali una nuova area di business, ma risiedono anche nelle modalità attraverso cui l’economia sociale si legge e si rappresenta.

    Ad esempio una conoscenza solo o quasi incentrata su “dati muscolari” che enfatizzano le caratteristiche distintive e le performance delle organizzazioni nonprofit e cooperative può alimentare, anche se solo fino a un certo punto, l’analisi interna, ma è certamente poco utile a cogliere in maniera più approfondita i segnali di nuova socialità che prendono forma, sempre più numerosi, anche (e forse soprattutto) fuori dai confini settoriali.

    Aprire la black box del mutualismo

    A fronte di una situazione che non è di immobilismo ma sembra piuttosto ricordare l’impasse di certe gare di ciclismo su pista prima dello sprint, quale contributo possono dare esperienze di innovazione sociale libere dall’autoreferenzialità e in grado di gestire i rischi di isomorfismo come quelle narrate in questo volume? Un contributo, forse è meglio ricordarlo, che riguarda non solo il loro sviluppo in senso stretto (e forse neanche del loro ecosistema di riferimento), ma piuttosto un cambio di paradigma ormai non più rinviabile per far fronte a sfide sociali dove oggi a prevalere è la non-soluzione della chiusura?

    Riprendendo in particolare le ultime considerazioni sull’economia sociale una soluzione può consistere nella capacità di queste iniziative di riscrivere il codice sorgente dello scambio mutualistico.

    Troppo spesso infatti il cooperare viene additato come la panacea di tutti i mali attraverso una riproposizione ipersemplificata o ideologica. Ma in questo modo diventa velleitario poter contare sul suo apporto per eseguire un upgrade del sistema sociale ed economico senza conoscerne nel dettaglio il potenziale trasformativo.

    Il rischio è di generare effetti molto limitati che perpetuano fenomeni di nicchia senza alcuna possibilità d’impatto o, forse peggio, di vaticinare un sorta di ritorno al passato rinunciando così a cogliere i benefici di una stagione epocale di trasformazione sociotecnologica. Occorre quindi aprire la black box del mutualismo, probabilmente hackerandone alcune componenti, come dimostrano molte delle esperienze raccolte in questo volume.

    Tre in particolare sembrano i cortocircuiti del sistema operativo mutualistico sui quali agire.

    Il primo consiste nel passaggio da minoranza attiva a comunità del cambiamento. Queste esperienze nascono grazie a piccoli gruppi di attori in possesso di competenze e soprattutto di una visione comune che consente loro di attivare processi dalla forte componente imprenditiva perché agiscono su risorse non riconosciute come tali attraverso modalità di ricombinazione sui generis che rappresentano il cuore della loro innovazione sociale.

    Ma se, in fase quasi immediata, non si attiva un processo di costruzione di una comunità allargata anch’essa intraprendente, il rischio è che i pionieri rimangano non solo “col cerino in mano” rispetto all’avanzamento di processi complessi (e, in quanto tali, rischiosi), ma che non siano in grado di generare l’impatto sociale atteso, rinculando sulla già citata modalità autoreferenziale.

    Non si tratta di promuovere un assemblearismo piatto e artificiale che svolge, se va bene, una mera funzione di “coro greco” rispetto ai promotori. Tutt’altro. Si tratta di comunità composite e coese in senso intenzionale che trovano il loro collante in corso d’opera, sulla base dell’impatto che intendono co-generare.

    Il secondo meccanismo riguarda l’apertura all’investimento. La ricchezza del mix di risorse (economiche, cognitive, materiali) attivate grazie ai processi di rigenerazione sociale dovrebbe rappresentare – utilizzando il gergo dei prodotti finanziari – una sorta di garanzia e di effetto leva per l’accesso a ulteriori risorse.

    Queste ultime potranno essere non così sofisticate nella loro dimensione di significato, ma comunque in grado di garantire l’innalzamento della scala dell’impatto. In questo senso più il patrimonio iniziale è ricco non solo in termini assoluti (economici e materiali) ma soprattutto come potere segnaletico rispetto al carattere “comune” del percorso di rigenerazione e più sarà in grado di svolgere efficacemente azioni di scouting e di ingaggio di risorse esterne, senza le quali, va ribadito, nessuna trasformazione sociale è possibile.

    Infine il terzo meccanismo che alimenta l’innovazione dello scambio mutualistico riguarda la ricomposizione dell’indotto. Le iniziative di rigenerazione sociale restituiscono infatti un business model davvero peculiare e per certi versi antitetico rispetto a quanto affermato dalla letteratura manageriale (anche nel campo dell’economia sociale).

    Si basa infatti sulla costruzione di una infrastruttura (in questo caso l’asset comunitario) nella quale si concentrano i principali elementi di creazione del valore e che poi viene resa accessibile (e modificabile) guardando a una pluralità di attori, alcuni dei quali probabilmente ne beneficiano in modo inconsapevole, quasi come un effetto alone. Questa modalità che, in estrema sintesi, individua nella funzione di apertura (openness) la chiave del successo di un’organizzazione anche di natura imprenditoriale richiede, quasi in modo paradossale, di essere regolata.

    Il tutto però non con intenti di esclusività come a volte traspare da regolamenti d’uso iper normativi, ma piuttosto per favorire una maggiore capacità connettiva. È un’azione, quest’ultima, che trova soluzione attraverso modelli di governance ispirati ai beni comuni che poggiano su norme generali di natura “costituente”, ma non solo. È anche l’esito di un’azione educativa basata sul riconoscimento di capacitazioni ad ampio raggio che l’azione di rigenerazione dei luoghi sa pazientemente suscitare e ricomporre e in un quadro di significati capace di materializzare quel nuovo paradigma di relazioni sociali ed economiche verso il quale è necessario accelerare la transizione.


    Il brano è tratto dall’introduzione del volume Il ritorno a casa degli Ulissi. Le professioni al tempo della rigenerazione urbana curato da Luca Bizzarri per Pacini editore.

    Note