Il disagio psichico e l’isolamento da pandemia

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    Quando si pensa il disagio psichico subito un’immagine può farsi presente alla nostra attenzione o in forma di un qualche ricordo visivo o in forza di un immaginario collettivo che nel tempo della storia umana si è sedimentato intorno alla follia: la condizione di isolamento di una persona che intorno a sé ha un vuoto di rapporti o a cui è difficile per gli altri avvicinarsi. In associazione a tali immagini è possibile sempre notare il misterioso fenomeno di beneficio catartico nella comunità umana che liquida così il male in uno spazio remoto. In verità gli studi di Michel Foucault, che ha delineato nella sua Storia della follia un excursus di come nelle epoche siano cambiati i sistemi di internamento, o la ricerca sul campo di Erving Goffman, che nel suo Asylums descrive, dopo essersi introdotto nel manicomio sotto le mentite spoglie di degente, i movimenti di una micro-societas interna dotata di vantaggi e servizi non forniti ufficialmente ma derivanti da reciproche identità e ruoli che l’istituzione cuce addosso al malato e dopo, infine, gli studi antropologici di Thomas Szasz sulla costituzione di un mito sociale della malattia mentale, è emersa chiaramente l’azione del meccanismo di capro espiatorio, in cui il paziente psichiatrico è posto e con il quale è espulso dal consesso sociale.

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