Cos’è Genera 20, il festival electro-indie trasmesso dai tetti di Cisternino

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Avviso ai naviganti lettori. In questo articolo vi racconterò del Genera 20, festival di musica electro-indie nato nel 2018 a Cisternino, in Puglia. Lo farò attraverso il mio angolo di osservazione, privilegiato, come privilegiato è lo sguardo di colui che cura la direzione progettuale ed artistica di un festival durante l’anno 2020.

    L’edizione di quest’anno, infatti, sarà curata e prodotta da Arti in Libertà, piattaforma di ricerca e produzione artistica transdisciplinare, fondata a Bari nel 2018 dal sottoscritto e Roberto Debellis.

    Ho provato quindi a raccogliere le idee, per condividere un viaggio, non ancora terminato, dove confluiscono entusiasmo, paura, sovversione delle pratiche di fruizione, difficoltà e responsabilità civica. Ho deciso di farlo ora quindi, perché il percorso di raccolta fondi per la realizzazione del festival è quasi finito e la progettazione più che ultimata. Tutto ciò che verrà di seguito sarà un turbine di adrenalina e velocità, che ci condurrà al 12 Agosto, giorno di inaugurazione dei concerti, sui tetti di Cisternino, palcoscenico del nostro festival.

    Sono costretto a fare un ulteriore avviso ai naviganti. Seppur la tentazione è decisamente incalzante, non mi tufferò nelle onde di una conversazione sulle ricadute che il virus ha provocato sul lavoro culturale, e più precisamente sull’organizzazione di un festival.

    Altri qui, su cheFare, si sono già espressi con particolare efficacia. Altri lo faranno. Non è infatti il mio obiettivo oggi costruire pratiche di emergenza culturale. Voglio solo raccontarvi una storia, quella del Genera Festival, e di chi lo produce, Arti in Libertà.

    Non so se è una storia a lieto fine, o per lo meno non siamo in grado di saperlo con certezza. Però è una storia adatta a questo anno così logorante e denso di preoccupazioni.

    Dobbiamo partire però dal principio, ovvero dal capire dove e perchè nasce il Genera.

    Come si diceva infatti, il Genera Festival è un festival di musica electro-indie nato nel 2018 a Cisternino, Puglia, dal concetto di “generatività sociale”, ovvero quel processo propulsivo ormai noto di germinazione di nuovi segmenti di collettività e sviluppo economico attraverso un impulso, di carattere culturale. In questo caso, l’impulso è rappresentato dalla musica, che opera come generatore di nuovi stimoli.

    Fin dall’inizio il festival ha forzato la sperimentazione di un linguaggio artistico fuori dalle coordinate sonore della variegata proposta artistica pugliese, e ancor più lontana dalla proposta culturale del borgo della Valle D’itria. Nonostante quindi la difficoltà di ritagliarsi un proprio posto all’interno del panorama estivo regionale, il Genera è riuscito a dialogare concretamente con la comunità, costruendo fin da subito relazioni con le attività commerciali locali, coinvolte nel processo stesso di ideazione e progettazione delle precedenti edizioni del festival, e ottenendo reazioni più che confortanti dal proprio pubblico.

    L’edizione 2020 nasce da un connubio, quello con Arti in Libertà, e da un punto di partenza che non è, in questo caso, la stagione precedente, ma il nulla causato dell’incertezza del lockdown.

    Ho sempre pensato, durante quei mesi di attesa, che quando sarebbe stato possibile, avrebbe avuto peso solo il compimento di un’azione: fare cultura. Non sarebbe stato così importante il come, ma il produrre contenuti e valore, anche se in forma traballante. E non perchè il come non sia importante, ma sarebbe stato conseguenza di una nuova forma di mondo, probabilmente imprevedibile.

    Il come, sarebbe stato forse inizialmente alieno, e forse peggiore del prima, ma secondario all’obiettivo inderogabile di generare valore culturale. Perché poi in fondo il come, si sarebbe trovato, magari guardando al contrario l’orizzonte, magari guardando verso il cielo.

    Però il fare sarebbe stato una scelta politica, forse sbagliata o forse giusta. Per me, per Roberto, per Giuliano e per tutto il team progettuale del festival, sarebbe stata la scelta giusta.

    Il Genera 20 è la concreta realizzazione della natura intrinsecamente attivista della cultura

    Il Genera 20 è quindi, a mio modo di vedere, la concreta realizzazione della natura intrinsecamente attivista della cultura e dell’arte, atto pregnantemente politico che si manifesta non solo nel gesto di prepotente volontà di noi organizzatori e progettisti di mantenere salda la relazione tra le città e i loro prodotti culturali, in sincronia con l’atto imprenditoriale e volontaristico dei suoi cittadini, ma anche nella prova di resistenza dell’organismo Cultura che, più o meno efficacemente, trova angoli sinuosi di manifestazione ad una comunità. Il nostro gesto, come quello di molti altri, è un atto di resistenza in sé, che cerca e necessita di dialogare con la comunità locale per cercare, nella gestualità del quotidiano, una convalida collettiva.

    Perché senza essa, il rischio è quello di produrre un valore forse del tutto vuoto, o sterile, o ancor peggio autoreferenziale. Come vi dicevo infatti, qualche capoverso più su, non lo so ancora se questa è una storia a lieto fine, ma avremo modo di scoprirlo presto insieme.

    Chiarito quindi l’atto propugnatore del cosa, siamo pronti a dedicarci al come. La forma del Genera 20 di Arti in Libertà. Questa è, infatti, composta da due ingredienti: interdisciplinarietà (non era necessario progettare forme così integrate da essere addirittura trans-disciplinari), e rimodellazione dell’esperienza di fruizione musicale. Abbiamo perciò osservato il festival da una prospettiva sistemica, che ci garantisse una visione completa di tutte le componenti in gioco, esaminando quindi il dialogo tra il prodotto artistico e l’architettura del borgo antico di Cisternino, le sue attività commerciali e la sua gente. Da qui siamo partiti.

    L’ingrediente mancante è la condizione di distanziamento sociale imposto dall’emergenza attualmente in essere. Dovevamo quindi trovare una modalità per coinvolgere senza assembramenti, per rendere protagonista il centro storico e la sua angusta architettura senza che essa si rivelasse un pericolo sanitario, per garantire l’atto performativo senza che, ancora una volta, si rivelasse un limite.

    Abbiamo quindi deciso di utilizzare i tetti e trasmettere il suono su tutto il centro storico di Cisternino, in modo da creare un unico sistema immersivo durante l’atto di performance musicale. Elementare, ma efficace, perché in grado di isolare la componente sonora e moltiplicare gli spazi di fruizione, in verticale tramite gli altri tetti, e in orizzontale su tutto il suolo della parte antica del borgo. Mi piace pensare che quest’ultimo trasformi la propria vitalità e il proprio ritmo, in maniera tangibile per il pubblico e gli abitanti locali. Insomma, un soundground.

    Utilizzeremo i tetti per trasmettere il suono su tutto il centro storico di Cisternino

    Immaginate una cupola sonora, uno spazio di interazione immateriale con un confine urbano, reso materico attraverso una iperstruttura installativa, frutto del lavoro artistico di Martino Pezzola e Matteo De Angelis. Il soundground di Cisternino vivrà tramite l’interazione tra concerti, infrastruttura sonora ed installazione artistica.

    Le componenti quindi, apparentemente non in dialogo fra loro e sviluppate modularmente, sono tenute insieme proprio dall’architettura e dal capitale sociale del borgo antico, componente principale del lavoro artistico. Sarà esso lo spazio di movimento e d’interazione dell’utente culturale, e sarà sempre esso che dividerà suolo da cielo, che accogliere la musica, che salderà il legame tra i confini artistici e che aiuterà a gestire naturalmente gli assembramenti.

    Infine, il come è di tutti. Il festival è uno spazio culturale potenzialmente globale. Ciò significa garantire una fruizione che consenta tutti di essere parte di un processo culturale e di superare la progettazione in silos. Questa è stata la nostra bellissima sfida per iniziare, con il prezioso supporto di Cristina Amenta, ad immaginare un festival accessibile fisicamente, acusticamente e culturalmente.

    Non so ancora se questa storia è una storia lieto fine, come dicevo. E di certo non siamo in grado di valutarlo ora. Gli artisti che si esibiranno sui tetti della città ripescheranno, dentro una memoria lesionata, immagini di speranza di noi che dialogavano da tetto a balcone e viceversa.

    Gli artisti ci costringeranno a guardare verso l’alto, cambiando temporaneamente la relazione tra spazio urbano e cielo, sovvertendo la superficie vivibile e “consumabile”. Gli artisti saranno lontani, ma saranno presenti con il loro corpo, ridando senso a quella relazione corporale imprescindibile tra performer e pubblico.

    Abbiamo fatto una scelta quindi, sostanziale, di inderogabilità dell’atto presenziale dell’arte performativa, di dimostrazione che l’innovazione e l’adattamento dei contenuti culturali deve seguire un percorso di criterio e profonda conoscenza di quegli elementi basilari del rapporto tra chi la cultura la vive e chi la cultura la produce. Forse in fondo è per questo che la nostra è una storia a lieto fine.

    Note