C’è da scommettere che la risposta agli attentati di Bruxelles dello scorso 22 marzo sarà un’ulteriore stretta securitaria in tutti paesi dell’Unione europea e un’intensificazione della guerra nei territori in cui presumibilmente sono attivi i militanti del cosiddetto Stato islamico, con la conseguente chiusura delle frontiere per evitare l’invasione di nuovi pericolosi clandestini. Esattamente come è prevedibile che alla crisi finanziaria seguiranno, come accade ormai da circa dieci anni a questa parte, provvedimenti improntati all’austerità. Riforme delle Costituzioni con accentramento dei poteri nell’esecutivo, tagli alla spesa pubblica per rispettare il patto di stabilità, riforme del mercato del lavoro per liberare la produzione dai vincoli di una legislazione avvertita come un freno per la crescita, trattati per rendere più fluido il movimento delle merci, riscrittura dei trattati limitanti la circolazione all’interno dell’Unione.
Tutto ciò si ripropone ogni volta con la stessa necessità con cui si verificano le leggi che regolano la gravitazione dei pianeti. Chi decide tutto ciò? Quasi sempre organi non elettivi: il Consiglio d’Europa, la BCE, la Troika, il FMI. E gli Stati sovrani? Comparse in un teatro di ombre con la funzione di rendere esecutive scelte prese in un altrove indefinibile.
L’Europa appare, così, come una mera espressione geografica. Un territorio su cui si estende una fitta rete di distribuzione di merci prodotte recuperando materie prime ed energia per lo più da paesi che prima erano colonie dei vecchi Stati-nazione. Un grande mercato, insomma, regolato dalla legge ferrea della razionalità neoliberista. Dopo ogni crisi, dopo ogni attentato questo sistema si rafforza, perfeziona i suoi dispositivi, diviene più efficace e insieme più efficiente.
Per chi esplodono, allora, le bombe? A chi parlano quei corpi dilaniati dalle cinture-esplosivo? Cosa minacciano le esibizioni di teste mozzate? Ogni attentato conquista milioni di elettori alla causa della guerra e ne sposta altrettanti tra le fila di movimenti reazionari funzionali al mantenimento dello status quo. Per ogni attentatore ucciso o catturato il consenso alle politiche securitarie dilaga come per incanto, e ogni possibilità di critica alla ricostruzione ufficiale delle cause e degli effetti è schiacciata nel recinto del dissenso. Una sorta di ipnosi collettiva in cui stanno l’uno di fronte all’altro la massa e il nulla, una costante deviazione della meta che trasforma tutti noi in spettatori e spettatrici, che annienta ciò che di politico è in noi. L’improvviso boato seguito alla deflagrazione genera l’impolitico, rende intere masse incapaci di trovare nell’eccezionalità dell’evento le sue profonde radici politiche. Pare essere questo l’unico bottino di guerra del terrorismo a fronte della sua totale inefficacia sul piano militare: nessun danno reale all’economia, nessun danno a strutture strategiche, nessun danno per le strategie militari. Dopo ogni attentato resta narcotizzante il dolore per vite spezzate, tanto (troppo) simili alle nostre.
All’opposto, lontano dai confini europei si combatte e ci si accorda per ridefinire la geografia politica di una vasta area da cui ricaviamo le risorse energetiche per sostenere l’attuale sistema di produzione, e vinceremmo facilmente se scommettessimo sul fatto che coloro i quali oggi diciamo di voler combattere in un prossimo futuro saranno i nuovi acquirenti delle “nostre” merci prodotte con il gas e il petrolio che loro stessi ci venderanno (a buon prezzo).
Questa Europa impolitica è, insomma, il prodotto di un sistema economico che sta ridisegnando i rapporti di forza a livello globale e che ha la pretesa di proporsi esso stesso come l’unica dimensione del politico. Un ente metafisico che si presenta come un dato di fatto non discutibile, come strumento neutrale per la regolazione delle nostre esistenze. Il lampo improvviso degli attentati ha, così, la stessa funzione del fuoco nella caverna del mito di Platone: proietta le ombre del reale, alimenta la finzione, potenzia l’incanto. Se recuperassimo l’elemento politico del nostro esistere ci accorgeremmo forse che i provvedimenti presi immediatamente dopo ogni attacco nulla hanno a che vedere con gli attentati ma che, piuttosto, hanno ad oggetto il nostro vivere, il nostro potenziale essere politici.
Intanto, questo sistema produce, insieme ad una falsa rappresentazione del reale, anche i corpi di chi disperatamente attende alle frontire, di chi da precario sta come un capitale vagante in attesa di “rendimento”, di chi si ammala e muore per l’ennesimo disatro ambientale. Gli stessi che non hanno avuto parola nella costruzione dell’unità politica europea e che restano esclusi dalla sfera della decisione. C’è da sperare e lottare affinché dalle contraddizioni di questo sistema prenda forma concreta un movimento plurale di carattere europeo che riporti i contenuti politici dentro i contesti dell’attuale forma produttiva, che restituisca alla Politica i destini dell’Europa.
Immagine di copertina: ph. di Sebastian Spindler da Unsplash