Nel 1915, David Wark Griffith girava il film muto The Birth of a Nation, un film cruciale nella storia del cinema mondiale – considerato da molti critici un capolavoro assoluto – e di grande interesse per chi voglia comprendere aspetti importanti della politica statunitense.
Il film, infatti, proponeva una lettura storicamente falsata del periodo a cavallo della Guerra Civile; e, in particolare, descriveva i presunti effetti che avrebbe avuto la fine della schiavitù sulla società degli Stati Uniti. Tanto risultava un innovativo capolavoro dal punto di vista tecnico, tanto il film di Griffith era reazionario e violentemente razzista nei suoi intenti, sfumando il conflitto tra Nord e Sud in uno tra bianchi e neri.
Una delle scene centrali si proponeva di dare conto di come venisse condotta una sessione di lavori presso la Camera dei Rappresentanti del South Carolina nel 1871 dove, dopo la liberazione degli schiavi e il loro accesso alla vita politica, risultassero eletti 101 afroamericani contro soli 23 bianchi.
Gli onorevoli neri dipinti dalla pellicola di Griffith apparivano come esseri dai tratti sostanzialmente scimmieschi: mangioni ingordi, beoni ignoranti, gente incapace di tenersi le scarpe ai piedi in un’aula parlamentare, oltre che incompetenti, goffi e inaffidabili nella gestione di qualsiasi funzione burocratica. Secondo Griffith, insomma, dei subumani avevano corrotto la società e la politica americana. Occorreva quindi rendere gloria al Ku Klux Klan che intendeva rimettere i neri al proprio posto, riprendere le aule del governo, ristabilire l’ordine razziale e risarcire così i bianchi, considerate vittime di un’orda di “neri fuori controllo”.
Gli uomini e le donne che hanno marciato su Washington il 6 gennaio intendevano riprendere, con i simboli della supremazia bianca alla mano, il controllo perduto della presidenza e del parlamento statunitense.
La presa del Campidoglio da parte di sostenitori trumpisti armati di fucili e di bandiere degli Stati Confederati del Sud mi hanno riportato alla mente la scena che ho appena descritto. Perché gli uomini e le donne che hanno marciato su Washington il 6 gennaio intendevano riprendere, con i simboli della supremazia bianca alla mano, il controllo perduto della presidenza e del parlamento statunitense: e intendevano farlo proprio nel giorno in cui il reverendo Raphael Warnock veniva eletto primo senatore nero della Georgia – con l’importante contributo dell’organizzatrice afroamericana Stacey Abrams –, quasi a porre una sorta di sigillo simbolico sulla fine del ciclo di rivalsa suprematista aperto da Trump nel 2016, dopo otto anni di presidenza Obama.
Mentre la polizia liberava il Campidoglio, gli osservatori si scatenavano nel proporre ipotesi sulle tipologie di soggetti che potessero essersi prestati a una tale impresa. In realtà, però, si dibatte dal primo giorno circa il profilo politico, economico, sociale e demografico dell’elettorato di Trump, oscillando tra tante semplificazioni e, spesso, brutalizzazioni di quello stesso elettorato, perché molti osservatori “urbani” faticano a fare i conti con il fatto che milioni di cittadini statunitensi possano apprezzare e si identifichino con una persona come Donald Trump.
Si oscilla così tra diverse rappresentazioni mistificanti, come quella secondo la quale il presidente uscente sarebbe sostenuto da un popolo di beoti e ignoranti, una sorta di sottoproletariato demente; oppure, tra le più gettonate soprattutto nei primi giorni successivi alla sua elezione, ci sarebbe quella per cui Trump sarebbe stato il presidente eletto dalla working class statunitense nel suo complesso, là dove era già presente nei numeri dell’elezione di Trump un’indicazione in altro senso, dal momento che venne eletto con tre milioni di voti popolari in meno rispetto a Hillary Clinton. Cruciale, nel 2016, fu eventualmente il voto operaio bianco in pochi stati chiave, al quale Trump seppe dirigere efficacemente i propri messaggi in campagna elettorale: ma è un altro discorso.
Ad ogni modo, la realtà dell’elettorato trumpista è ben più articolata e non si presta a semplificazioni del genere. Certo, come diverse ricerche hanno dimostrato, Trump prevale tra i maschi bianchi, middle class, di religione cristiana, senza una laurea, caratterizzati da un forte approccio anti-intellettuale. Ma è stato votato anche da percentuali ridotte di donne, di ispanici, di afroamericani; e, certamente, trova consenso tra soggetti di diversa classe sociale.
In generale, però, Trump appare il presidente più capace di coagulare attorno a sé soggetti sensibili alle più varie tipologie di retoriche a carattere vittimistico e paranoico, che vedano nella concretezza della forza la sola soluzione ai propri problemi. Come i klaner di The Birth of a Nation, molti sostenitori di Trump lo hanno votato e lo votano perché vedono in lui la promessa per il loro paese di un’inversione di tendenza in senso suprematista, dopo anni trascorsi “con un nero alla Casa Bianca”, che peraltro parlava di ambientalismo e di diritti delle donne e degli omosessuali.
Trump fu sostenitore fin dal principio della falsa teoria secondo cui Obama sarebbe stato un ineleggibile, perché nato in Kenya, e già questo pareva ai suoi elettori un messaggio buono per dimostrare il suo intento di ristabilire l’ordine, le gerarchie e le distanze razziali, rimettendo nelle mani degli statunitensi bianchi quel che credevano dovesse appartenere loro.
Altri elettori ed elettrici, invece, sostenendo Trump, rispondevano e rispondono alla paura di perdere il proprio status sociale ed economico – o al dramma di avere già perso il proprio status a causa dei processi attivati da decenni di deindustrializazione – ma non necessariamente erano e sono mossi da un’ideologia xenofoba o razzista. Al seguito di Trump troviamo poi QAnon e la galassia del complottismo, che meglio di qualsiasi altra cosa incarnano la logica della paranoia e del vittimismo, costituendo il più fertile terreno per i discorsi a carattere autoreferenziale, prodotti in quel grande contenitore ad alta capacità di moltiplicazione del falso e di occultamento delle fonti che possono essere i social media.
Ancora, per il presidente uscente è decisivo il sostegno dei membri delle tante denominazioni coagulate nella destra religiosa, soggetti che sentono i propri valori e la propria fede minacciati dall’alleanza di liberal, omosessuali, anticlericali, marxisti: non a caso, Trump, ha spesso brandito la bibbia in pubblico. Per la stragrande maggioranza dei suoi sostenitori, comunque, appare decisiva la sua capacità di presentarsi come un uomo e un presidente forte, pragmatico, concreto. Un elettore bianco middle class raccontava così Trump a Chiara Migliori, durante un’intervista un paio di anni fa: “È forte, è uno stronzo, ma è il mio stronzo. Sono con lui, voterei per lui oggi e voterò per lui la prossima volta. Perché lui è ciò che sono e ciò in cui credo: la forza. Trump fa dei casini a volte, ma lo stesso facciamo noi e faccio io” [“He’s one of us”: pandemia, proteste e il significato della figura di Donald Trump per i suoi elettori, “Ácoma”, 19, 2020, p. 131].
Da questo quadro emergono figure di elettori diverse, che paiono oscillare tra disinformazione, cattiva informazione e contro-informazione di serie B; persone senza troppo interesse per le “verità oggettive”, perché semplicemente impegnate nella ricerca di conferme in merito alle proprie “verità soggettive”; attraversate da un’importante vissuto vessatorio e da una forte sfiducia nelle istituzioni politiche, informative e nei loro rappresentanti.
Una sfiducia che, però, arriva da lontano. Come ha scritto Alessandro Portelli: “Quando Reagan diceva che lo Stato è il problema e non la soluzione, apriva la porta a un’antipolitica qualunquista legittimata da un’ideologia neoliberista a cui la sinistra non ha saputo opporre una resistenza significativa” [Dentro il cuore di tenebra, Il Manifesto, 8/1/2021]. La pretesa di capire il trumpismo schiacciandosi su alcune sue figure del tempo presente, in altri termini, è un’operazione molto miope, anche quando si sia motivati dalla volontà di comprenderne le particolarità e le specificità, per distinguerlo da eventuali altri “populismi” del nostro tempo.
Certo, con l’attacco al Campidoglio ha preso corpo oggi un fantasma eversivo senza precedenti nel mondo democratico statunitense, tuttavia, per capire qualcosa dei processi in corso, la lente non va collocata sugli ultimi 4 anni ma, perlomeno, sulla piega che gli ultimi 40 anni hanno impresso alla politica, liberando e rivitalizzando gli spiriti più violenti e inquietanti che abitano la società degli Stati Uniti d’America.