Il disastro come gestione sociale

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    Se disorganizzazione e smarrimento costituiscono insieme la manifestazione e la prova che un disastro ha avuto effettivamente luogo, quel che diviene interessante per l’etnometodologo è quanto tale condizione di frattura abbia da dire rispetto alla «normalità»: all’ordine, cioè, che precedeva il disastro.

    Non di rado, infatti, il tempo del disastro e quello che lo segue sono da considerarsi come «acceleratori» o «aumentatori di realtà». Frequentemente, infatti, la disomogeneità con cui i danni materiali si presentano nei differenti settori di un’area afflitta da un cataclisma, oppure il tipo di intervento riparativo che lo Stato o le altre istituzioni prospettano, raccontano molto del grado di disuguaglianza presente in una società oppure del regime socioeconomico dentro cui gli avvenimenti maturano. Come suggerito da Powers (2006), eventi calamitosi di varia natura, legati tuttavia per buona parte a uragani, che hanno colpito per esempio gli Stati Uniti in differenti momenti della loro storia, hanno prodotto esiti molto diversi a seconda dell’ideologia e dei gruppi di interesse che sostenevano l’azione del governo in carica.

    Ma il disastro rende anche evidenti le cornici storiche dentro cui si compie. Per esempio, il Grande incendio di Chicago del 1871, che, nel giro di poco più di un giorno, uccise circa trecento persone e lasciò priva di casa un terzo della popolazione locale, composta all’epoca da circa 300.000 abitanti, è entrato a fare parte dei «miti fondativi» della città (Sawislack 1995). La città post-incendio, infatti, tramanda la narrazione di una popolazione, di una economia e di un sistema di scambi inscalfibili, sorretti dalla fiducia e, per questo, immuni agli effetti del disastro.

    Al contrario, il Terremoto di Messina del 1908 colpisce una delle città portuali più importanti del Mediterraneo in una fase di decadenza di quegli stessi scambi che ne avevano decretato la grandezza sino a poco prima. Complice certamente l’estensione del numero delle vittime (tra 50 e 65.000 su un totale di circa 140.000 abitanti), che determina di fatto l’annientamento della borghesia imprenditoriale locale, la città dello Stretto precipita in una morsa di dipendenza inedita. E com’è ovvio, la memoria locale messinese, al contrario di Chicago, ricorda quel sisma come l’evento da cui origina l’attuale marginalità cittadina e come una storia di deprivazione che ha annientato una città monumentale e ricca (Baglio e Bottari 2010).

    A livello più generale, gli esiti di un disastro possono dire molto circa il rapporto che intercorre tra la zona colpita e il «centro» politico. Spesso i modelli di ricostruzione etero- e auto-diretti applicati in una zona disastrata riflettono infatti la centralità o la perifericità dell’area afflitta da un evento critico (Nimis 2009). Le zone disastrate messe in condizione di autogestire la ricostruzione sono sovente quelle dotate di maggiore potere di negoziazione, in ragione presumibilmente della solidità degli interessi locali presenti in loco. Viceversa, le aree in cui la ricostruzione ha un carattere verticistico e imposto sono spesso quelle maggiormente marginali, destinate non di rado a diventare spazi di speculazione e saccheggio.

    Con intensità e modalità diverse, le aree colpite da disastri prendono generalmente a collocarsi dentro il modello dell’«economia dello shock» descritto da Klein (2007): quel processo, cioè, che consiste nell’intervenire nella fase acuta di un evento disastroso – spesso un evento prevedibile e anticipabile, a cui però si lascia fare deliberatamente il proprio corso – secondo le modalità tipiche delle procedure d’emergenza. Modalità, cioè, slegate dalle normali procedure burocratiche di controllo, che premiano normalmente gruppi ristretti di fornitori di servizi e che reificano ed estraggono valore dalle persone e dalle comunità in difficoltà. Terremotati o rifugiati asilo – poco importa – diventano così il motore di un’economia dell’intervento umanitario, che si alimenta dei corpi delle vittime e necessita periodicamente di nuove urgenze ai fini della propria riproduzione.

    Implicita, in questo ragionamento, è l’importanza assunta dall’urbanistica del disastro e della ricostruzione, intesa sia come il complesso delle progettazioni e delle implementazioni che precedono un evento catastrofico, sia come quelle che seguono l’evento indesiderato (Siembieda 2012). Il problema, insomma, concerne banalmente quali interessi prevalgano nella costruzione e ricostruzione di un centro urbano: se prevalga, cioè, una logica intimamente privata oppure pubblica (Gotham e Greenberg 2014).

    In termini più concreti, se il disastro – per esempio, in caso di sisma – sia la conseguenza, prima ancora che dell’evento naturale, della prevalenza di un’edilizia disordinata e insensibile ai temi della sicurezza. E, in seguito, se la ricostruzione, oltre a essere condotta secondo quegli stessi principi di sicurezza, si riveli o meno un’occasione per speculazioni fondiarie che estendano l’area da riurbanizzare, erodendo ulteriormente l’ambiente; se generi dinamiche clientelari fondamentali per comprendere i processi di inclusione, esclusione e ritardo nell’accesso alla casa, con la conseguente comparsa e crescita di aree di transizione (baracche e slum) destinate a durare nel tempo; se tenga presente istanze e bisogni delle popolazioni e sia atta a garantire dunque la qualità della vita in termini di collocazione, servizi e infrastrutture (Musmeci infra).

    O, ancora, se la ricostruzione sia un modo per intercettare e materializzare una certa idea di «modernità» dentro cui proiettare le aree colpite, attraverso l’apporto dell’architettura e dell’urbanistica, oppure un modo strumentale di riscoprire il passato, procedendo di caso in caso a forme complesse di patrimonializzazione del nuovo e del vecchio, del futuro e della memoria (Palumbo 2003).


    Estratto dall’introduzione di Fukushima, Concordia e altre macerie a cura di Pietro Saitta (Edit Press).

    Note