Pubblichiamo in collaborazione con Luca Sossella editore una serie di estratti da Collassi, una collana di testi dedicati alle rivoluzioni tecnologiche che si traducono in sistemi sociali e nel precipitato inconsapevole della vita quotidiana. Oggi un estratto dal saggio Abitare di Luca Massidda e Stefania Parisi.
A partire da una rilettura di Veblen, Currid-Halkett (2017) prova ad aggiornarne le categorie al tempo presente, aiutandoci a spiegare il rapporto tra la nuova élite metropolitana (una classe “più o meno agiata”, come vedremo) e il consumo.
Intanto, questa classe aspirazionale, così definita per la propria vocazione al miglioramento di sé – e in prospettiva della società stessa – attraverso l’istruzione, le pratiche di consumo consapevole, le scelte di cibi biologici, la partecipazione attiva alla vita culturale e artistica delle città, e molte altri comportamenti fair, è una classe lavoratrice con radicate convinzioni meritocratiche.
Investe molto nella formazione come strumento finalizzato non all’arricchimento materiale ma, più in generale, all’accrescimento delle proprie competenze, come mezzo per compiere scelte più informate e attente.
Quello che la distingue dalle “vecchie” classi benestanti, non è la propensione ad abbandonare il consumo – tutt’altro. Ma i beni di cui si compone il paniere aspirazionale hanno poco a che vedere con i conspicuous goods indicati da Veblen come possesso distintivo della classe agiata statu- nitense del tardo XIX secolo.
I codici comportamentali di questa élite informata e non appariscente sono definiti ancora da consumi, ma – sostiene l’autrice – alcuni di essi non sono inaccessibili: che si tratti dell’abbonamento al New Yorker, della lettura del New York Times o perfino dell’uso di una particolare sfumatura di rosa pallido dello smalto per la manicure (ivi, pp. 46-48), quello che conta è mostrare di essere interni a specifici circuiti culturali, in cui si condivide una visione del mondo e la si esprime anche, ma non solo, attraverso consumi riconoscibili.
È, in sostanza, l’abbandono dei material goods da tycoon o da magnate della finanza in favore di uno spettro meno appariscente di beni e pratiche. Vuol dire che le nuove élite spendono complessivamente meno? Che hanno una propensione al risparmio più accentuata? Tutt’altro.
Ci troviamo, però, di fronte a una classe sociale urbana al cui interno sono presenti diversi gradienti economici: così, accanto a individui con redditi effettivamente alti, troviamo una “lower class” aspirazionale.
Gusto e sensibilità estetica, e nondimeno qualcosa di vicino a una nuova etica, guidano insomma i consumi di questa che è solo in parte una élite economica, e il cui stesso capitale culturale è solo in parte riconducibile all’insieme di competenze e conoscenze richieste dal mercato del lavoro.
Una élite che è senz’altro più propensa a spendere per servizi che le consentano di risparmiare tempo – baby-sitter, giardinieri – o che migliorino il benessere – lo yoga, gli alimenti biologici. Ma nonostante il prezzo di un caffè organic, consumato in una torrefazione che organizza incontri e seminari per raccontare della filiera che dai coltivatori ai selezionatori porta i grani di caffè fair a diventare la bevanda contenuta in quella tazzina, si aggiri intorno ai 5 dollari, è difficile pensare che questo nuovo tipo di consumi elitari riesca a diventare massa critica e a rimettere in partenza un motore economico affaticato.
Torniamo ai centri delle città, che riacquistano prestigio e desiderabilità, dopo i lunghi decenni in cui le zone residenziali iper-attrezzate e lontane dal caos avevano rappresentato il paradiso delle classi alte; siamo anche qui a un paradosso: nelle grandi città osservate dall’autrice, la upper class spende meno per arredare le case che per comporre il proprio look (pp. 178-179).
La stessa casa borghese in cui investire per consumi “di rappresentanza” perda attrattiva, perché è la città stessa ad essere la cucina, la sala da pranzo e il salotto delle nuove élite più o meno abbienti: lasciano così che sia la città stessa a svolgere funzione di supplenza rispetto a ciò che non possono permettersi.
Nello slittamento semantico tra quella che l’autrice definisce classe, e che al contrario sembra avere più che altro le caratteristiche di un ceto, almeno se seguiamo la tradizionale definizione di Weber (1922), sta probabilmente una possibile lettura di questa crisi che non sembra potersi giovare dei nuovi stili di vita dei benestanti.
Se i perimetri dell’élite finanziaria e quelli dell’élite socioculturale non coincidono, e se ad abitare lo spazio urbano è un esercito borghese che ha sì pretese di egemonia culturale, ma che, in una significativa parte dei suoi ranghi, non dispone di alfieri capaci di sorreggere standard elevati, il meccanismo virtuoso che rilanciava le economie a partire dalla creatività e dall’innovazione urbana, non solo tecnologica ma anche culturale e di consumo, non può che incepparsi.
La casa perde attrattiva, è la città a fare supplenza rispetto a ciò che non ci si può più permettere
Differenziarsi “a costo quasi zero” è una buona strategia di risposta alla crisi, se osservata dal lato dei consumatori. Ma non aiuta il mercato a ripartire. E, soprattutto, lo studio di Currid-Halkett, non sembra prefigurare la possibilità che queste culture urbane d’élite generino meccanismi di imitazione – non per il momento, almeno, né fuori dalle metropoli statunitensi.
Quelle tratteggiate sono infatti culture egemoni solo nelle città più d’avanguardia, non viste come modelli dalla provincia, e l’escamotage di costruire uno stile a costi sostenibili (anche da parte di chi non si situa nei gradienti più alti della classe aspirazionale) non sembra in grado di raccogliere il testimone dei consumi della classe media estesa anche fuori dalle metropoli, che a lungo ha sorretto l’economia manifatturiera.
D’altra parte, è lo stesso Florida teorico della creative class come motore del nuovo rinascimento urbano a mettere radicalmente in discussione i presupposti del suo precedente lavoro in un saggio che fin dal titolo fa riferimento a una nuova crisi urbana, riconoscendo in essa le tracce dei processi incontrollati di gentrification che hanno migliorato la vita (e i redditi) solo per chi partiva già da una condi- zione socioeconomica e culturale di favore (Florida 2017).
La morfologia della città che rispecchiava gli stili di vita della classe creativa, con i suoi quartieri riqualificati e l’offerta culturale e di consumo alla moda e “di qualità”, è evoluta nemmeno troppo lentamente in una sostanziale scomparsa degli spazi urbani abitati dalla classe media, che sappiamo essere stata penalizzata dalla recessione dell’ultimo decennio.
Tanto i downtown quanto i sobborghi abitati dai benestanti sembrano cedere il posto a un puzzle di zone “bene” circondate – simbolicamente, quasi un assedio – da sacche sempre più vaste di marginalità e povertà.
Le forze creative che avevano dato vita alla rinascita urbana sono oggi causa delle disuguaglianze crescenti
Le stesse forze creative che avevano dato vita alla rinascita urbana – dei centri urbani – si presentano oggi come causa delle disuguaglianze crescenti, dell’insostenibilità della vita urbana per le classi disagiate o impoverite.
Dal punto di vista politico, quando resistono all’ondata populista, queste città appaiono comunque come enclave, mentre appena fuori (e non solo fuori) dal loro perimetro si agita lo scontento.
Affiora così, affiancando lo splendente ceto colto borghese – moderato, post-hippie, creativo, consapevole – che produce e guida i consumi, un magma sociale che abita le metropoli ma non ne detta le tendenze di consumo né partecipa dei codici socioculturali e dei riti urbani (o lo fa secondo altre traiettorie, in altri circuiti del loisir, in tempi, e templi, diversi del consumo).
Non assomiglia al proletariato storico più di quanto un BoBo non assomigli alla vecchia borghesia industriale, ma reclama la nostra attenzione, perché è a questi bacini del lavoro, in questa disponibilità metropolitana di workforce numerosa, variegata e affamata di reddito che la produzione attinge secondo necessità.