La diversità non è ancora inclusione, intervista all’astrofisica Ersilia Vaudo

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    Del mondo non conosciamo che il 5%, una piccola frazione che ad Ersilia Vaudo non sembra bastare. Avere a che fare con il cosmo e le sconfinate dimensioni dell’ignoto pare averle impresso una curiosità guerresca, instancabile e frenetica. La riconduce all’infanzia, quando a sei anni è stata costretta a letto per mesi a causa di una broncopolmonite, senza televisione o libri con cui ammazzare il tempo. La noia forgia l’immaginazione, dice. Mi domando se avesse anche lei le stelline appese al soffitto con cui sono venuti grandi in tanti. 

    Dal 21 al 23 ottobre si terrà a Rovereto la quinta edizione del festival organizzato dall’associazione Informatici Senza Frontiere, dedicato all’impatto sociale dell’innovazione tecnologica.
    Tre giorni di incontri, dibattiti, conferenze, laboratori per riflettere sulla tecnologia come fattore di inclusione e integrazione per anziani, disabili, giovani, migranti, e per tutte le persone che la travolgente mutazione tecnologica in atto rischia di marginalizzare.
    cheFare e Luca Sossella editore propongono un percorso di avvicinamento al festival con una serie di approfondimenti, dialoghi, recensioni che esplorano la frontiera lungo la quale linguaggi digitali e ridefinizione delle identità sociali si incontrano, interagiscono e si modellano reciprocamente. 

    È spigliata ed elegante insieme – “sono coquette, non c’è nulla da fare” – e ad averla davanti, nonostante la figura minuta, ci si sente all’improvviso piccolissimi. Si porta dietro la sua città natale, Gaeta, in quell’accento laziale addolcito dal mare che ancora conserva nonostante i trent’anni di vita parigina. La si immagina camminare per le vie della capitale francese con lo stesso passo sicuro che avrebbe a Gaeta o sulla Luna. Della luna però non si accontenta e sa bene che a imprimere un cambiamento si deve guardare agli astri mantenendo i piedi ben piantanti a terra. Parliamo di scienza, diseguaglianze socioeconomiche e di genere, inclusione e futuro e sfodera dati, statistiche, piani d’azione. Non le piace cincischiare, non le piace accondiscendere. Si è presa le stelle e le porta in giro per l’Italia, nelle zone di maggiore disagio educativo del paese, perché ne abbiano tutti un po’. Il suo tempo è diviso tra il lavoro all’Agenzia Spaziale Europea, l’impegno come divulgatrice scientifica e quello speso per progetti di inclusione sociale. 

    Se Monica Vitti era la “ragazza con la pistola”, mi dice, io sono “la ragazza con una lunga lista di desideri”.

    A cosa serve la diversità, dentro e fuori le aziende? 

    Io credo non possa nascere niente di nuovo dalla convergenza punti di vista simili. Approcci lontani ed esperienze diverse possono creare scintille inaspettate. La diversità però non è ancora inclusione. Essere invitati alla festa ed essere invitati a ballare sono cose diverse. Il valore intrinseco alla diversità si esprimerà solo eliminando barriere visibili e invisibili che ancora impediscono a molti anche solo di proiettarsi e pensarsi in un certo ruolo o ambiente. 

    All’Agenzia Spaziale Europea ricopre il ruolo di Chief Diversity Officer. Come si è affrontato il divario di genere?

    Anche in un’organizzazione moderna e proiettata al futuro come l’ESA il raggiungimento della parità di genere è lontano. Essenzialmente perché il numero di candidature da parte di uomini e donne è fortemente squilibrato. Per questa ragione stiamo dedicando un’attenzione particolare al modo in cui il settore spaziale si presenta.

    Per attrarre più ragazze abbiamo messo in campo diverse misure, cercando di valorizzare una narrazione più inclusiva, che racconti i mestieri legati allo spazio valicando la dimensione prettamente tecnologica. Più di tutto, ci impegnano ad evitare quell’enfasi di conquista e colonizzazione con cui di solito viene connotato il settore, cercando invece di presentare le carriere spaziali come un’opportunità per contribuire alle grandi sfide di domani, permettendo di trovare soluzioni al cambiamento climatico, alle povertà, ai bisogni energetici del Pianeta. Ci siamo poi sforzati di superare i tradizionali canali di contatto, agendo in collaborazione con altri organismi e attraverso azioni molto capillari. Abbiamo avuto risultati importanti: quando sono arrivata, tre anni fa, le candidature da parte di donne erano il 16%, oggi son il 28% e ogni anno, ormai, il 40% delle assunzioni riguarda le donne.

    Le donne hanno un approccio diverso alla scienza?

    È un discorso che mi interessa poco, rischia di diventare determinista. Credo che non sia tanto il maschile o il femminile a definire l’approccio, quanto il bagaglio di esperienze, le visioni, la formazione.

    Cosa ne pensa della retorica meritocratica, più spesso maschile che femminile, per cui le quote rosa svilirebbero le donne, in quanto considerate incapaci di raggiungere certi ruoli solo grazie al proprio talento e alla propria preparazione? 

    Io sono una fisica: il principio della dinamica dice che se vuoi imprimere un’accelerazione a un corpo fermo e pesante devi imprimere una grande forza. Non possiamo pensare che ci sono poche donne in posizioni apicali perché sono meno brave, questo divario è chiaramente frutto di un sistema che oppone resistenza. Serve una volontà forte.

    Serve una volontà politica?

    Sì, come con la legge Golfo Mosca. Dobbiamo fare in modo che il mercato del lavoro cerchi le donne: ci sono e sono preparate. Una delle conseguenze più importanti sarà la capacità delle giovani donne di immaginarsi in grado di fare ciò a cui aspirano, senza che un ambiente respingente freni le ambizioni sul nascere. 

    Quanto sono importanti i modelli?

    I modelli sono importanti nella misura in cui sanno raccontare e trasmettere una passione. Che il modello fosse maschile o femminile nel mio caso ha avuto poca importanza.

    Non è mai stata intimorita dal disequilibrio di genere in ambito scientifico?

    No, ma forse è perché io avevo mia madre. Era una chimica biologa, appassionata di matematica, che sui barattoli in cucina non scriveva “sale” e “zucchero” ma scriveva le formule chimiche perché trovava che fosse importante capire che ci sono dei linguaggi della natura aldilà delle parole. Mia madre poteva stare fino alle tre del mattino a risolvere un’equazione di matematica e ci spiegava che anche un giallo di Agatha Christie poteva essere risolto con la matematica. Molto più della sua professione è stata la sua curiosità a permettermi di immaginarmi capace di ciò che volevo. Su di me, il modello della donna al potere ha poco effetto. 

    Ancora prima delle diseguaglianze di genere ci sono quelle socioeconomiche. La scienza è un campo elitario?

    La scienza sarà elitaria fino a quando la matematica sarà elitaria. Molti bambini vengono esclusi dall’apprendimento del linguaggio matematico già dalle elementari. Le prime storture, tanto di genere quanto di classe, emergono lì. 

    Quindi l’élite è costruita da un sistema educativo diseguale?

    Non è solo il sistema educativo inteso come scuola, conta anche il contesto domestico, gli stereotipi che si coltivano in famiglia. La scuola è però il luogo dove queste diseguaglianze andrebbero appiattite. Secondo gli studi OCSE-PISA, chi nasce in un contesto di disagio socioeconomico ha probabilità molto alte di essere escluso dall’apprendimento della matematica. È un determinismo sociale implacabile che toglie alla matematica il potere di essere abilitatore di futuro. Impossibile parlare di pari opportunità finché l’accesso alla matematica sarà diseguale fin dall’infanzia. In Italia, poi, la situazione è particolarmente critica. Siamo tra i paesi in cui, tra il 2015 e il 2018, il rendimento nelle materie scientifiche è diminuito in modo più drastico.

    In Francia, il valore strategico della matematica è fortemente riconosciuto, tanto da fare di questo tema un’urgenza politica, una priorità nazionale. C’è la consapevolezza che uno scarso rendimento in matematica può portare a una situazione socialmente ed economicamente disastrosa che, se non corretta, può pesare fortemente sul futuro sviluppo del Paese. Peraltro, l’esclusione dalla matematica ha un forte impatto psicologico, che determina una scarsa fiducia nelle proprie capacità e un restringimento delle possibilità e delle ambizioni dal punto di vista lavorativo. La mancata padronanza dei numeri, a lungo termine, induce un senso di inadeguatezza generale, produce cittadini più inclini a delegare ragionamenti complessi, a preferire semplificazioni e diffidare degli esperti. Non è quindi una questione da poco: ne va della salute della democrazia, oltre che dell’economia. Per questo è importante non escludere nessuno dalla comprensione di un linguaggio che permette di interpretare il mondo fisico e mentale che abitiamo ogni giorno. Se uno studente o una studentessa si convincono di non essere portati, abbiamo il dovere di portarli noi.

    Lei ha di recente lanciato il progettoIl cielo itinerante”, un’iniziativa volta a portare la conoscenza del cielo e in generale della scienza nelle aree più complesse e disagiate del nostro paese. Di cosa si tratta? 

    Lo scorso anno, insieme ad Alessia Mosca, nel quartiere napoletano di Forcella, abbiamo organizzato un campo STEM nel quale ragazzine e ragazzini si sono “sporcati le mani” giocando con la scienza, proposta loro in una modalità non scolastica e non tradizionale.

    Il principio della dinamica dice che se vuoi imprimere un’accelerazione a un corpo fermo e pesante devi imprimere una grande forza. Non possiamo pensare che ci sono poche donne in posizioni apicali perché sono meno brave, questo divario è chiaramente frutto di un sistema che oppone resistenza.

    Avevo poi in mente il progetto “The Traveling Telescope” dell’astrofisica africana Susan Murabana, che con il marito ha installato un telescopio su un’automobile e gira tra i villaggi per fare conoscere l’astronomia ai bambini. Abbiamo deciso di fare qualcosa di simile, portando ai bambini un telescopio per una scienza “da fare” e non “da studiare” nelle zone di grande povertà educativa, che con la pandemia non ha fatto che aggravarsi. La risposta dei bambini è stata meravigliosa, erano estasiati.

    Sollevare lo sguardo da terra è un esercizio che può aprire spiragli fondamentali, aiuta a proiettarsi oltre il contesto contingente. 

    Si considera ottimista?

    Sempre

    L’Italia del futuro sarà un paese più equo?

    Lo sarà se a questa domanda sarà data la possibilità di rispondere anche a chi oggi non ha voce.

    Note