La Direttiva UE sul Copyright e la (nuova) geopolitica di Internet

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    “Governi del Mondo Industriale, voi giganti stanchi di carne e acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova casa della Mente. A nome del futuro, vi chiedo al passato di lasciarci soli. Voi non siete i benvenuti tra noi. Non avete sovranità sul luogo in cui ci riuniamo”

    La riconoscete? È l’inizio della dichiarazione di indipendenza del cyberspazio pubblicata da John Perry Barlow (ex autore dei testi dei Grateful Dead) nel 1996, in risposta al Telecommunication Act che il Congresso Americano avrebbe poi approvato quell’anno e che rappresentava il primo tentativo di regolamentare l’uso di Internet. Quella legge conteneva una sezione, la “section 230”, pensata per normare le responsabilità degli Internet Service Provider (ISP) e che ancora oggi regola le responsabilità dei nipoti degli ISP, cioè Facebook and co.

    Per via della «Section 230» della legge statunitense sulle Telecomunicazioni del 1996 gli intermediari che forniscono accesso a internet non possono essere considerati responsabili per i contenuti dei propri utenti. Gli ISP dell’epoca vennero considerati dalla legge al pari dei servizi telefonici, dei meri “canali conduttori di informazione”. Così come le compagnie telefoniche non erano responsabili per ciò che si dicevano le persone al telefono, chi forniva connessione internet non era responsabile per ciò che pubblicavano i suoi utenti. La legge sanciva “il diritto, ma non l’obbligo, di rimuovere contenuti e utenti che non rispettino i termini di utilizzo del servizio”.

    Questa legge, concepita per gli ISP della epoca 1.0 del web, vale anche per le piattaforme di social media ed è per questo che Facebook, negli Stati Uniti, non ha alcun obbligo legale, se non quelli che si è data internamente, nei confronti dei contenuti pubblicati dagli utenti. Tarleton Gillespie, nel suo recente libro Custodians of the Internet e sostiene che questa legge, di fronte alla necessità di bilanciare le interpretazioni individualiste e collettiviste del primo emendamento della costituzione americana (il diritto alla libertà di espressione), avesse scelto di favorire di più l’interpretazione “individualista”: proteggere gli imprenditori online a discapito dell’interesse pubblico.

    Dopo l’approvazione di quella legge, internet smise di essere il cyberspazio sognato da Barlow. Da quel momento in poi iniziò la colonizzazione massiccia di questo territorio senza stato, da parte di aziende multinazionali e stati nazionali. Non esiste più una rete disgiunta dalla giurisdizione degli stati nazionali. Facebook dipende dalle leggi americane, molto lasche in materia di responsabilità, ma ha iniziato anche ad adeguarsi alle leggi nazionali vigenti in molti paesi del mondo: da tempo assistiamo a una domesticazione della regolamentazione di internet, differente per aree geopolitiche e culturali.

    In Turchia Facebook è responsabile dei contenuti diffamatori nei confronti del fondatore della nazione, Kemal Ataturk; in Pakistan deve rimuovere la blasfemia, mentre in Vietnam quei contenuti anti-governativi; in Thailandia sono vientati i post critici nei confronti della famiglia reale. In Europa, invece, Facebook (e gli altri social media) è stata ritenuta responsabile, con l’approvazione della direttiva UE approvata il 26 marzo scorso, di verificare che i contenuti pubblicati dagli utenti non violino le regole sul copyright. Ed è questa direttiva che ha scatenato le critiche di milioni di cittadini europei contro l’Unione Europea, in nome di una libertà di espressione su internet minacciata dall’estensione del diritto di autore online.

    Proverò qui a dimostrare l’ingenuità di questa difesa di internet fuori tempo massimo e il significato geo-politico di questa direttiva (non mi soffermo su Wikipedia e i meme perché la direttiva spiega bene che Wikipedia e tutti i servizi no profit sono esclusi dalla norma, così come i meme).

    Il mito dell’internet libero e della neutralità delle piattaforme

    Barlow difendeva internet dall’ingerenza di stati, governi e corporation e lo dichiarava un territorio extra-nazionale, fuori dal controllo di qualsiasi governo. Nel 1996 avevo 19 anni, ero schierato con Barlow e passavo le notti a fare streaming happening con sconosciuti su internet. Ma la rete che utilizziamo non è più quella del 1996: è stata ampiamente colonizzata da corporation e governi. L’etica di Barlow è stata assorbita nell’ideologia californiana della Silicon Valley ed incarnata dai social media commerciali, che hanno sostituito “internet” con una serie di piattaforme, o giardini chiusi (walled garden) che hanno iniziato a minare dati personali per associarli a messaggi pubblicitari. Internet oggi è già un posto governato dalle piattaforme e controllato da stati autoritari o democratici (vedi alla voce Snowden, NSA).

    La “libertà di internet” che molti di voi hanno difeso ingenuamente, è la libertà di Facebook di continuare a decidere, arbitrariamente, che livello di moderazione dei contenuti adottare al proprio interno.

    State scambiando la libertà di esprimervi su internet, con la libertà di esprimervi su Facebook.

    Avete assorbito così tanto la “mentalità”, o meglio, l’etica neoliberale nella sua pudica declinazione wasp zuckerbergiana, da diventarne, inconsapevolmente, i più grandi sostenitori (qui un bell’articolo del collettivo Ippolita che spiega come l’anarco-capitalismo sia diventato una filosofia mainstream). Avete scambiato lo spazio privato di Facebook per lo spazio pubblico di Internet, perché siete abituati a pensare Internet come un territorio sovrapposto ai confini di Facebook. E avete gridato ingenuamente allo scandalo perché secondo voi ora Facebook potrà decidere cosa far entrare “nello spazio pubblico” e cosa no, cioè avrà la patente, concessa dalla UE, per censurare a monte alcuni contenuti, con la scusa che violano le leggi del copyright.

    Una critica del genere presuppone che prima di questa direttiva le piattaforme erano, come sostenevano di essere, neutrali.

    Hanno ripetuto così tanto la frase “Noi non siamo degli editori” che alla fine ci avete creduto. Eppure, come spiega bene Gillespie nel suo ultimo libro, queste piattaforme sono degli editori, ed esercitavano già, prima della direttiva UE, il loro diritto di “censura” e moderazione dei contenuti. Facebook oggi impiega 9.000 persone nel mondo per filtrare i contenuti caricati dagli utenti secondo delle arbitrarie e culturalmente americane pudicissime norme (community standard). Ammettere di essere editori responsabili dei contenuti pubblicati dagli utenti gli costerebbe solo di più, ma già avviene. Non abitate più dentro un internet libero e senza censura, SVEGLIA!!

    Avevo già scritto qui su cheFare i motivi per cui consideravo Facebook un editore: “Le norme di Gadda e le norme di Facebook, ovvero cos’è un editore”. Ma se non volete credere alle mie argomentazioni, potete leggere questo articolo scientifico di due tra gli autori più autorevoli tra gli studiosi di economia politica dei media contemporanei, Philip Napoli e Robyn Caplan: “Why media companies insist they are not media companies, why they are wrong and why it matters”.

    Quindi sì, credo che rendere responsabili le piattaforme sia una strada necessaria, anche se per il momento le si rendono responsabili soltanto per i contenuti che violano le norme di copyright, e non per altri tipi di contenuti, lasciati al governo delle regole interne di Facebook.

    L’ascesa della via Europea alle reti digitali

    Questa legge non è sul diritto d’autore: usa in apparenza il diritto d’autore come grimaldello per colpire economicamente i monopoli digitali americani, che si sono espansi “troppo” in Europa. È una battaglia politica tra EU e Usa che strumentalizza il diritto d’autore. Non bisogna stracciarsi le vesti per la morte di internet, quella che abbiamo di fronte è una battaglia tra vecchi e nuovi capitalisti. La UE non è riuscita a sviluppare piattaforme digitali in grado di colonizzare altri mercati e le sue industrie culturali hanno subito forti perdite per via della competizione portata dalle aziende tecnologiche americane, quindi sta cercando in tutti i modi di recuperare il terreno perduto, forse tardivamente, ma questa legge, insieme al GDPR, è il segnale che sta emergendo una visione “alternativa” al funzionamento della rete secondo il modello legislativo americano.

    Che ci piaccia o meno, Internet è stato “addomesticato” dagli stati e si sta regionalizzando. Esiste un modello anarco-liberista americano, dove le aziende tecnologiche hanno fin qui goduto di una vasta immunità (“safe harbour”, la chiama Gillespie); esiste un modello cinese, dove le aziende private sono strettamente controllate dallo Stato e ora sta nascendo un modello europeo, più attento alle ricadute collettive, economiche, culturali e sociali, della disruption operata dalla Silicon Valley in Europa.

    Mentre mi documentavo per questo articolo, ho trovato la stessa posizione condivisa anche da José van Dijck, Thomas Poell e Martijn de Waal, gli autori di Platform Society (Oxford University Press, 2018, presto tradotto in italiano) e ve la riporto qui di seguito: “Stretta tra il modello americano e quello cinese c’è l’Unione Europea, i cui stati membri, non possiedono né gestiscono alcuna grande piattaforma digitale, né in Europa, né negli altri due ecosistemi di piattaforme (Usa e Cina), ma dipende, per la sua infrastruttura online dalle piattaforme americane.

    Nei prossimi anni sarà cruciale per l’Europa sviluppare una strategia di ampio raggio riguardo la platform society. Per la sopravvivenza delle democrazie europee nell’epoca dell’informazione digitale, le sue città, i suoi governi nazionali e le sue strutture giuridiche sovranazionali, dovranno collaborare per una strategia comune di governo del digitale. Il GDPR e questa nuova direttiva sono solo l’inizio di una nuova fase di geopolitica del digitale. Con l’emergere dell’intelligenza artificiale, dell’automazione robotica e dell’Internet delle cose, le sfide alla politica, la democrazia e l’economia degli stati europei saranno ancora maggiori.

    In questo scenario, gli stati-nazione sono sempre meno equipaggiati per contro-bilanciare quelli che Saskia Sassen in un suo libro del 2006 chiamava “global assemblages” di capitali e tecnologie che sono, o si considerano, più capaci e autorevoli degli stati nella fornitura di beni e servizi.

    Se l’Unione Europea vuole mantenere il suo statuto democratico fondato sullo stato sociale, non può certo aspettarsi che i mercati si auto-regolino e allo stesso tempo si facciano carico del bene comune. Deve necessariamente intervenire a livello sovra-nazionale, nazionale e locale per aggiornare gli strumenti giuridici e normativi a sua disposizione per tentare di governare questi “global assemblages” e costringerli a farsi carico di alcuni interessi collettivi, se non addirittura, essa stessa, favorire lo sviluppo di nuove piattaforme europee, pubbliche o no profit, che possano sostituirsi a quelle commerciali”

    Se è difficile immaginare che nell’immediato futuro nuove piattaforme europee finanziate dalla UE possano sostituire Facebook o You Tube, è però possibile immaginare che nuove piattaforme europee basate su blockchain, internet delle cose e intelligenza artificiale, possano diventare rilevanti in futuro in quei settori dell’economia digitale non ancora giunti a maturazione.

    Questa posizione, lo ammetto, è quella di un vecchio socialdemocratico europeo, che tiene all’indipendenza dell’Europa rispetto ai poli americano e cinese. Ma poi il giovane libertario che ero negli anni 90 ai tempi della dichiarazione di indipendenza del cyberspazio torna fuori e mi chiede: ma per noi che speravamo in un internet libero da governi e corporation, non cambia molto che internet sia americano, cinese o europeo, in ogni caso sono tutti tre modelli ideologici di appropriazione della rete. E’ vero, hai ragione, la direttiva UE non è “giusta” in sé, non è naturalmente più etica, è giusta secondo il modello social-democratico europeo.

    È il miglior modello possibile? Qui possiamo dividerci, ma i tempi dell’internet libero non torneranno più e se bisogna scegliere tra l’ideologia californiana, quella autoritaria cinese e quella europea, forse meglio quella europea, anche se per il momento sembra che l’UE non abbia un’idea molto chiara di come dovrebbe essere questo internet europeo. Nel frattempo, mette i bastoni tra le ruote all’ideologia californiana, poi si vedrà.

    Non credo che da sola, questa direttiva sia in grado di mettere in difficoltà le piattaforme. Qualcuno sostiene che Facebook e gli altri, per rispettare la normativa dovrebbero spendere molto di più nella moderazione e verifica dei contenuti caricati e ciò avrebbe un impatto considerevole sui margini di guadagno, non altissimi, delle piattaforme. Facebook però nel 2018 ha guadagnato almeno 22 miliardi netti e i margini sono in crescita, anche se la redditività rispetto al suo valore di mercato è più bassa di altri tipi di industrie.

    Ma poniamo che davvero questa direttiva avesse un impatto negativo sulla nostra esperienza di circolazione dei contenuti su Facebook. Se anche tutto questo rendesse Facebook un posto peggiore, non sarebbe un dramma. Sarebbe lo stimolo a uscirne fuori, a usare altro. I movimenti politici globali del 1999-2003 e quelli del 2009-2013 sono stati supportati da due generazioni diverse di media: email, indymedia e web 1.0 (1999-2003) e social media commerciali (2009-2013). Dubito che la prossima ondata di movimenti sociali continuerà a utilizzarli, perché Snowden ci ha svelato quanto facile fosse per i governi accedere ai nostri dati pubblicati su Facebook. Se davvero questa direttiva rendesse più difficile pubblicare video di manifestazioni politiche su You Tube o se fosse più complicato linkare un articolo da un giornale online di una testata che non ha dato la licenza a Facebook, potremmo finalmente avere una ragione in più per mollare Facebook e sviluppare altre piattaforme che abilitino le nostre discussioni politiche e la logistica dell’azione collettiva online.

    Forse più persone inizieranno a muoversi, prima in piccoli gruppi, poi in massa, verso altri servizi non commerciali (ultimamente di parla molto di Mastodon) o nuovi servizi che nasceranno nei prossimi anni. Forse semplicemente le useremo di meno, e basta e torneremo a riprenderci il controllo di una parte del nostro tempo libero. Tornare offline non è poi tanto male.

    Forse invece accadrà ciò che prevedono Antonio Calleja López, Xabier Barandiaran e Arnau Monterde, in un capitolo del bel libro Datacrazia (a cura di Daniele Gambetta), in cui rileggono la storia della società in rete attraverso tre diverse ondate di connessioni: le prime reti (il web 1.0) sono servite a intermediare informazione, connettendo individui e nuove conoscenze, la seconda ondata (il web 2.0) ci ha connesso tra persone, facendo da intermediaria di relazioni sociali. La terza ondata di reti potrebbe essere quella attraverso la quale inizieremo a prendere decisioni politiche insieme (gli autori del testo sono coinvolti nella piattaforma del comune di Barcellona Decidim).

    In ognuna di queste ondate, il potenziale di connessione espresso è sempre stato “colonizzato” e appropriato dal mercato, eppure continua a rimanere aperto uno spazio per la produzione di commons digitali, uno spazio più che mai necessario, se vogliamo che l’ecologia dei dati non sia totalmente assorbita dal mercato. Decidim è l’esempio di questa terza ondata di reti, capaci di intermediare informazione, relazioni sociali e decisioni politiche, al di fuori del mercato. Prima che Zuckerberg diventi presidente degli USA e ci faccia usare Facebook per autenticarci al voto elettronico.

    Conclusioni: né con la UE né con Zuckerberg

    Questa direttiva non è di per sé una buona norma. Poteva essere scritta meglio? Assolutamente sì. È il frutto di lobbysti di vecchi capitalisti in crisi che tentano di recuperare qualche indennizzo da chi gli sta rubando il dominio sul mercato dell’attenzione.

    Porta con sé anche molti dubbi di natura tecnica sull’effettiva applicazione delle norme: l’efficienza e i costi di realizzazione degli “upload filter” e il rischio, per testate online di piccole dimensioni, di vedersi escluse da qualsiasi remunerazione, perché troppo marginali per i volumi di traffico di Facebook e quindi ignorate da qualsiasi contratto con le piattaforme.

    Il rischio è di gettare via il bambino con l’acqua sporca: se Facebook stipulerà contratti solo con grandi e riconosciute testate giornalistiche eliminerà molte delle fonti che spesso hanno generato fake news, ma insieme a loro verranno silenziate molte fonti di informazione no profit o piccole imprese editoriali di ottima reputazione. Inoltre, che benefici riceveranno i lavoratori dell’informazione, come giustamente sostengono Gambetta e Manconi in questo articolo? La norma non vincola le aziende editoriali che vengono remunerate dalle piattaforme a investire quei soldi nei propri lavoratori.

    E ancora, siamo sicuri che questo tipo di norme bastino a disinnescare le esternalità negative di Facebook e compagni? Il monopolio per ora rimane solido. La UE non sembra voler applicare norme anti-trust né sembra interessata a imporre ai giganti tecnologici l’obbligo di interoperabilità dei servizi, che sarebbe davvero il prossimo passo da compiere per iniziare a smontare questi monopoli, limitando l’effetto lock-in degli utenti e riportando un po’ di competizione nel mercato digitale.

    Ma ripeto, non dobbiamo cadere nella trappola di schierarci per l’anarco-capitalismo americano, né per la debole social-democrazia europea. Se anche questa riuscisse, in maniera unitaria (lol), a imporre tasse, regole anti-trust, interoperabilità, responsabilità editoriali alle piattaforme, avremmo forse un mercato digitale migliore, ma le nostre vite sarebbero anche esse migliori?

    Forse saremmo esposti a meno fake news, forse gli editori avrebbero più soldi per investire in giornalismo, forse gli stati avrebbero qualche miliardo in più per la sanità, forse saremmo più liberi di usare servizi diversi che comunicano tra loro e tutto questo sarebbe magnifico, ma in fondo, ci renderebbe davvero più liberi nel modo in cui comunichiamo?

    Dobbiamo ripensare l’ecologia dell’informazione in cui abitiamo. Non possiamo chiedere soltanto più libertà di competere e più protezione della proprietà intellettuale. Alziamo la soglia dell’ambizione!

    Come cittadini europei, dobbiamo chiedere più risorse per lo sviluppo di tecnologie pubbliche, trasparenti, aperte allo scrutinio di terzi, aperte alla modifica, orientate alla costruzione di beni comuni digitali e che soprattutto siano a basso impatto ambientale. Oggi scaricare un brano in streaming da Spotify ci fa consumare due volte e mezzo l’energia necessaria per acquistare un cd in un negozio.

    Chiudo con una nota. Venerdì scorso ero a Napoli alla Federico II per tenere un seminario su questi temi. All’uscita incrocio un noto giornalista che insegna lì ed è un acuto analista della nuova economia dei media digitali. Questo giornalista si è detto scettico rispetto all’efficacia di questa direttiva, perché tenta di normare una materia liquida, in continua trasformazione. E ha detto: “Non puoi fotografare il ghepardo, puoi solo ucciderlo”.

    Non lo so se questa direttiva riuscirà a fotografare il ghepardo, né se gli creerà qualche danno, né se sia proprio giusto ucciderlo, ma di certo non mi sento di difendere il ghepardo. Piuttosto mi preme rimanere in rete e connettermi con persone e idee interessanti per fare cose assieme e tutto questo si può fare anche senza Facebook e Twitter. Per esempio, potreste (ri)prendere l’abitudine di visitare la home page di cheFare, invece di aspettare che vi compaia un articolo di cheFare sulla vostra bacheca Facebook.


    Immagine di copertina da Unsplash: ph. Markus Spiske

    Note