Il museo è uno specchio che narra di poteri

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    Come soggetti attivi nel campo delle produzioni culturali viviamo un presente scosso da molteplici fenomeni. Non solo quello pandemico, che a più riprese ha messo in evidenza tutta la fragilità del rapporto fra umanità e ambiente, ma anche quello dei movimenti sociali di protesta, che dai Black Live Matter alle rivendicazioni per i diritti LGBT, hanno mostrato la diffusione globale di molteplici sentimenti di iniquità e conseguentemente la richiesta di giustizia e riequilibrio nelle dinamiche di potere.

    Queste trasformazioni e contestazioni sono partite spesso da un epicentro localizzato geograficamente e socio-culturalmente, come l’uccisione di George Floyd a Minneapolis negli Stati Uniti, e si sono diffuse a macchia d’olio interessando direttamente il patrimonio culturale, come hanno chiaramente dimostrato i vari attacchi alle statue simboleggianti il passato coloniale degli stati europei. Non è facile posizionarsi in questo scenario in costante evoluzione.

    Tanti sono i passati e i presenti da conoscere e il rischio di sminuire la valenza simbolica e politica di un fenomeno trapiantandolo da un contesto a un’altro senza interpretarlo è vivo. Decolonizzare il museo: dimostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati di Giulia Grechi (Mimesis, 2021) è uno strumento fondamentale per orientarsi in questo processo di lettura critica attuale sul ruolo delle organizzazioni deputate alla costruzione del sapere in un dibattito che riguarda l’interpretazione della memoria, della cultura materiale e della Storia in contiguità con il presente.

    Giulia Grechi, antropologa di formazione, compie innanzitutto un lavoro interessante e innovativo sul piano metodologico. Se il suo sguardo e le sue riflessioni sui display museali sono condotte dal punto di vista di un’antropologa e museologa critica che si muove nel campo della riflessione teorica, le proposte sulle possibili inversioni di rotta, che ci vengono presentate come un’ampio ventaglio di opportunità e mai come una serie schematica di approcci, provengono dal mondo dell’arte contemporanea. Hanno quindi un taglio fortemente pratico e in divenire. La Grechi, forte di oltre dieci anni di ricerca ed esperienza sul campo come curatrice, presenta un’analisi solidissima rispetto ai meccanismi che nel museo perpetuano prospettive coloniali e problematiche dal punto di vista della costruzione del discorso.

    In relazione alle possibilità di riattivazione ci mette però in guardia rispetto alle iper-semplificazioni possibilmente rappresentate da azioni come il ribaltamento nei punti di vista o l’inclusione di nuove voci. Il colonialismo è un passato che non passa, si perpetua negli sguardi incarnati di chi oggi vive la diaspora e nelle dinamiche di potere che legittimano l’esposizione di patrimoni lontani dai loro contesti di produzione e significato. La questione va affrontata, esplicitata, problematizzata – al museo come nei curricula scolastici – ponendo nuove domande e attivando processi diversi di condivisione ed elaborazione della memoria. Non ci sono semplici risoluzioni, occorre lavorare sulle fratture, grazie anche alla processualità dell’agire artistico. 

    II volume si snoda in tre capitoli le cui prospettive di lettura giocano sulla figura dello specchio. Specchio come metafora del museo e quindi dell’Europa che l’ha prodotto alle soglie dell’illuminismo, concependo questa istituzione come dispositivo per stabilire ordine e gerarchie fra saperi e culture. Lo specchio, come il museo, è anche una superficie che rischia non essere notata nel momento in cui è ampia e consolidata.

    Per questo l’autrice ci accompagna nel riconoscere i non detti, le epistemologie non esplicitate e le attribuzioni di valore imposte attraverso tassonomie occidentali e gerarchiche verso altre culture. Attraverso i musei l’Europa ha organizzato e istituzionalizzato il proprio sguardo sul mondo e i suoi approcci allo sviluppo di conoscenza, privilegiando notoriamente sensi come la vista poiché più vicini alla razionalità e all’intelligenza. Particolarmente stimolante è quindi l’invito a considerare il ruolo del corpo e di molteplici sensi nell’esperienza di vista. Non tanto per incrementare l’engagement, come ora è di tendenza, bensì con l’idea di restituire dignità e status a diversi modi di conoscere. Nelle descrizioni di musei, progetti curatoriali e casi studio che trattano queste questioni in una dimensione critica e mai risolutiva, l’autrice, nelle sue minuziose analisi, pare restituire dignità e vita agli oggetti.

    Attraverso i musei l’Europa ha organizzato e istituzionalizzato il proprio sguardo sul mondo e i suoi approcci allo sviluppo di conoscenza.

    È un merito importante poiché in maniera sottile ci insegna a vedere la cultura materiale da altri punti di vista e a considerare il valore della conservazione come relativo anziché indiscutibile, quasi fosse la base del museo e dell’umanità stessa. È un’ampliamento di prospettiva cruciale, specialmente se riflettiamo sulle implicazioni che le restituzioni potrebbero avere per alcune popolazioni africane dove le nuove generazioni hanno un passato e identità culturali da costruire. Che diritto hanno le civiltà europee di conservare oggetti acquisiti illegittimamente e violentemente esponendoli secondo la propria lente interpretativa? O ancora peggio, di tenerli nei depositi poiché troppo difficili da studiare o forse dolorosi da contestualizzare, sia che vengano utilizzati per parlare delle culture colonizzate o di quelle colonizzatrici? 

    I dilemmi etici sollevati nel libro sono molti e costituiscono le premesse per un ragionamento critico realmente contemporaneo sul senso e sul ruolo dei musei. Negli ultimi anni la comunità museale mondiale ha iniziato un processo condotto dall’International Council of Museums (ICOM) di revisione sulla definizione di museo. E’ curioso notare come molti dei concetti criticati come astrusi nella proposta discussa e non approvata a Kyoto nel 2019, come l’aggettivo polifonico, emergano con forza nel libro Decolonizzare il museo. Ci vuole un pizzico di visione e la capacità di guardare oltre per evitare di limitarsi a registrare l’esistete senza cogliere le trasformazioni virtuose. Invece l’ultimo report recentemente pubblicato da ICOM sulle parole chiave per la nuova definizione mostra un chiaro passo indietro anche rispetto al dibattito che la stessa organizzazione ha proposto negli ultimi anni.

    Emergono nuovamente come prioritarie le funzioni conservative, di salvaguardia e di ricerca tradizionalmente intese e vengono aggiunte le parole comunità, diversità, accessibilità e inclusione come fossero aspetti di un trend emergente, quello del ruolo sociale. Non si tratta di definire in percentuale, come tristemente viene fatto nel report, quanto i musei debbano occuparsi di pubblici e comunità rispetto alle collezioni. Si tratta di ripensare in maniera olistica gli assi portanti dell’istituzione museale in collegamento fra loro: la conservazione in rapporto ai pubblici e l’inclusione rispetto al museo stesso, poiché spesso questo si auto-emargina rispetto alle questioni che realmente contano nella società civile.

    Ed ecco che la Grechi torna ad offrirci un messaggio importante, quello che più mi tocca e in cui da sempre credo con convinzione assoluta: bisogna mettere in discussione le epistemologie dominanti e ridisegnare collettivamente e criticamente nuove mappe di significati e valori. Una testa mummificata non è un reperto etnografico ma un resto di un corpo umano brutalmente mutilato. Merita di ritornare nel proprio contesto di appartenenza secondo la forma di commemorazione proprio di quella cultura.

    Bisogna mettere in discussione le epistemologie dominanti e ridisegnare collettivamente e criticamente nuove mappe di significati e valori.

    Nell’ambito di un allestimento museale, fermo restando che una testa umana molto probabilmente non dovrebbe essere esposta per ragioni etiche, acquisirebbe ad ogni modo più dignità se osservata in risposta alla domanda “perché sono qui?” invece di “quale cultura rappresento?”. Il libro offre perlopiù esempi di musei etnografici, dove evidentemente alcune dinamiche sono più lampanti. Sta quindi a noi lettor_ il compito di andare oltre. Sotto il profilo interpretativo molte riflessioni potrebbero infatti estendersi ad altre tipologie di museo.

    Anche una tela devozionale del ‘500 ha più da raccontare se indagata in relazione a quesiti come “dove ero esposta e perché?” che non “quale artista mi ha realizzato e cosa contraddistingue la sua tecnica?”. Dobbiamo vincere la sfida, tutta occidentale e museale, di congelare gli oggetti in trame narrative disciplinari, coloniali ed eteronormative. Resta poi da chiedersi, specialmente in rapporto all’attuale processo di ripensamento sull’idea di museo, se questa dimensione organizzativa e simbolica sia quella meglio deputata alla fruizione del patrimonio culturale.

    Sinceramente non ne sono più convinta. 

    Note