Esporre l’assente. Contro le mostre “immersive”

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    Nelle logiche di una selvaggia spettacolarizzazione digitale il nostro tempo è riuscito ad inventare e a legittimare il più inutile e kitsch degli eventi pubblici: la mostra d’arte in digitale, che un volpino lessico tecnologico sigla come “immersiva”. Scusate, no, mi correggo: non la mostra, ma la pseudo-mostra perché il pubblico macina chilometri e paga un biglietto per non vedere niente se non un contenitore trasformato in un sollazzevole Luna Park di avatar, mettiamo, vangoghiani.

    E come con i giochini del Luna Park è possibile immergersi nel fatato mondo matrixizzato che pretende di raccontare l’artista olandese rinunciando a ciò per cui si è torturato e scarnificato lungo dieci anni di fuoco creativo fino a morirne, ossia le opere nella loro unica, incontestabile e irripetibile verità materiale. Dico proprio le opere. Le opere alle quali Van Gogh, come qualsiasi altro artista, ha affidato il suo resistere oltre il tempo, la parte migliore di sé, la disperata e sublime prova che è esistito per qualcosa.

    Ma che vado mai a scomodare, io, così romantico e reazionario? Le opere? La sacralità della mistica del tocco? La lotta perché due tinte o una composizione funzionino dentro tutti i secoli? La fatica di trovare un proprio linguaggio formale dopo infiniti tentativi? Trascurabili orpelli! Oggi siamo al tempo delle pseudo-mostre costruite su un masturbatorio illusionismo di massa. Cosa aspettiamo? Abbracciamo anche noi, in nome delle nuove tecnologie, le forme divulgative del nostro tempo, pazienza se esse stanno all’opera d’arte come il porno al sesso reale. Insomma, gli stessi curatori ci tengono alla roboante, retorica dicitura “mostra immersiva”, quando sarebbe preferibile tracannare un sorso nel Lete per dimenticare all’istante l’offesa.

     

    Foto di Diane Picchiottino su Unsplash

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