Meno di due mesi fa l’approvazione dello Statuto del Lavoro Autonomo, con le sue lacune e i suoi spiragli, ci faceva interrogare su quando i professionisti e le partite iva in generale avrebbero finalmente trovato il coraggio e la forza di organizzarsi per elaborare un pensiero critico sulla propria condizione di lavoratori e reclamare diritti e tutele.
Una risposta a quella domanda sembra arrivare a stretto giro il 13 maggio prossimo: forse per la prima volta nella storia della Repubblica i liberi professionisti scenderanno in piazza a Roma. Ma chi sono i “liberi professionisti”, e cosa chiedono?
La manifestazione del prossimo 13 maggio è partita dall’iniziativa di cinque ordini professionali provinciali (avvocati, ingegneri, architetti e medici, da Roma a Napoli) a seguito della sentenza della Corte di Giustizia UE C532-15, che riconosce la legittimità della normativa nazionale spagnola che assoggetta gli onorari dei procuratori legali a una tariffa stabilita per legge; è il vecchio tema caro agli ordini del ripristino delle tariffe minime, abolite nel 2006 dalle “lenzuolate” di Bersani per liberalizzare il mercato dei compensi professionali.
Un documento ufficiale del comitato promotore non è ancora stato reso pubblico, ma è online una petizione indirizzata al ministro Poletti e dal sito ufficiale dell’evento si può leggere che i professionisti scenderanno in piazza per chiedere la fine della “svendita incondizionata delle proprie prestazioni”; nel frattempo decine di ordini professionali, sindacati e associazioni hanno aderito all’appello iniziale e si pongono l’ambizioso obiettivo di affollare la piazza della protesta per eccellenza, San Giovanni in Laterano.
Che significato ha un evento del genere, considerato il momento storico e il suo carattere di “prima volta”? Anche se promosso da una delle poche istituzioni di epoca fascista sopravvissute fino ad oggi, può essere considerato un momento di svolta per la sindacalizzazione dei liberi professionisti? O è l’ennesima, trita prova di forza corporativista?
L’uomo della strada
Quando una categoria manifesta, dovrebbe preoccuparsi di dirigere le sue comunicazioni a due diverse tipologie di destinatari: da un lato, i componenti della categoria stessa, per far aderire il numero più alto di persone e raggiungere quella massa critica che determina il successo dell’evento; dall’altro, l’opinione pubblica – il cosiddetto “uomo della strada”; difficilmente infatti una forza di governo si preoccuperebbe di una manifestazione di categoria, se questa smuovesse solo l’opinione interna alla categoria. E in effetti “manifestare” significa proprio questo: rendere evidente un’istanza a chi di questa istanza è all’oscuro, e non a chi la conosce fin troppo bene perchè ne sente i morsi sulla propria pelle.
Il punto di vista che ci sembra più utile in questo caso, quindi, è questo: cosa pensa l’uomo della strada di una manifestazione di liberi professionisti per il reinserimento delle tariffe minime promosso da una coalizione di ordini professionali?
Detto così, non si ha tanto bisogno di sondaggi: probabilmente, niente di buono. L’uomo della strada sa che l’inserimento di tariffari comporterebbe un aumento dei costi per il consumatore, e sa che gli ordini professionali sono nella sostanza associazioni di liberi professionisti che chiaramente tirano acqua al proprio mulino.
Ma viviamo tempi interessanti, oltre che difficili: perché oggi quell’uomo della strada sa anche che i propri figli, laureati in architettura, in giurisprudenza, in ingegneria, ricevono compensi di pochi euro l’ora e sono in molti casi costretti ad andare a lavorare all’estero per vedere riconosciuta la propria professionalità.
D’altra parte, che differenza c’è tra un ordine professionale che manifesta per la dignità dei compensi dei propri iscritti, e un sindacato che manifesta per un salario dignitoso? Che differenza c’è – se siamo ancora capaci di vederla – tra una corporazione e un sindacato?
L’uomo della strada probabilmente è molto confuso. E se lui non sa cosa pensare, la politica può non agire.
Grande la confusione sotto il cielo, la situazione è dunque eccellente
Rispetto a qualche decennio fa, quando i professionisti rappresentavano l’elite della società che poteva barattare la mancanza di diritti (quello alla maternità o all’invalidità, per esempio, introdotti per molte categorie solo di recente) con compensi tali da poter accumulare risparmio personale, la situazione economica oggi è profondamente cambiata, ma è anche del tutto poco lineare e segnata da disparità di reddito e di condizioni lavorative tra professioni, territori, generi e generazioni.
In Italia tutte le professioni liberali vivono una crisi dei redditi grosso modo costante dal 2008 in poi; i redditi degli architetti sono calati del 40% tra il 2008 e il 2013; il reddito medio di un architetto è di 17.000 euro lordi l’anno, e circa il 34% dichiarava nel 2015 di guadagnare meno di 9.000 euro lordi l’anno (dati Cresme). Dati analoghi per il 27% degli avvocati, che nel 2014 dichiarava redditi tra gli 1 e i 10.600 euro (dati Cassa Forense).
Questi dati, letti da vicino, non sono solo dovuti alla crisi, ma anche all’ingresso nel mondo delle professioni di masse di rappresentanti di categorie “deboli”, e cioè donne e giovani, il che è dovuto a un fattore positivo e costante da decenni come l’accesso all’istruzione.
Se vengono scorporati tra uomini e donne, over e under 45, studi professionali grandi e piccoli, i dati improvvisamente si polarizzano: l’impoverimento medio dei professionisti è stato determinato soprattutto – anche se non solo – dall’impoverimento netto di queste categorie. Svantaggiate da sempre, e ancora di più con la crisi, analogamente a quanto accaduto in molti altri settori della società.
Insomma: il calo dei redditi, pur così violento, non ha riguardato tutti alla stessa maniera; ciò significa che l’abolizione dei tariffari di riferimento, mai pienamente applicati nel mercato privato, è solo una parte del problema.
Certo, oggi il mondo delle professioni intellettuali vive un enorme problema sul fronte dei compensi: in un mercato completamente deregolato, chi aveva scarso potere contrattuale – donne e giovani, appunto, ma anche professionisti di lungo corso rispetto a società strutturate e altri clienti “forti” – ha visto smentire completamente il principio costituzionale del compenso commisurato alla prestazione.
Al contempo, ai consumatori mancano quelle conoscenze di tipo tecnico che possano dare elementi per valutare quando una prestazione è qualitativamente adeguata ed effettivamente commisurata al compenso: parliamo di opere come la progettazione di un ponte, la difesa di un diritto, la cura di una malattia, che hanno spesso risvolti sull’intera collettività, e non solo sul cliente che la finanzia.
Le tariffe professionali abolite nel 2006 dovevano avere questo obiettivo e gli ordini dovevano vigilare sulla loro applicazione nell’interesse della società: ma se era così, perchè allora il loro costo veniva scaricato solo sui professionisti, creando un fastidioso corto circuito tra arbitro e giocatore?
Se la situazione economica dei professionisti non è omogenea e lineare, quindi, quella della loro rappresentanza lo è ancora di meno: l’esistenza degli ordini, a iscrizione obbligatoria e con potere di vigilanza sull’applicazione delle tariffe professionali, ha di fatto negli anni costituito un punto di riferimento per i professionisti che vi hanno visto naturalmente la propria istituzione preposta alla rappresentanza – che non passa solo per la tutela, ma prima di tutto, per la costruzione dell’identità – pur non avendo l’ordine alcun potere in tal senso e divenendo anzi un deterrente alla costituzione di veri e propri sindacati dei professionisti.
Questo ha contribuito ancora di più a generare nel tempo un sentimento di sfiducia non solo dei consumatori, ma anche dei professionisti stessi verso l’ordine, sentito come un ente sempre più inutile.
Sindacati con poche migliaia di iscritti, ordini a iscrizione obbligatoria che non sono sindacati, consigli nazionali (una sorta di super-ordini nazionali eletti dai consiglieri degli ordini) che a questo punto non si sa cosa sono: se è chiaro di cosa hanno bisogno i liberi professionisti, non si sa come ottenerlo e a chi chiederlo. Ma a questo punto, che lo chieda un ordine, un sindacato o un’associazione conta poco, visto il deserto di rappresentanza in cui il libero professionista si trova.
Conosci te stesso?
Non è tempo di sottili disquisizioni intellettuali per chi ha redditi sotto la soglia di povertà oggi e nessuna protezione dal punto di vista del welfare, ma subito dopo la manifestazione del 13 maggio, la categoria dovrà interrogarsi profondamente sul proprio sistema di rappresentanza, se vuole in qualche modo che quella manifestazione di una volontà diventi un percorso di costruzione di una politica. E dovrà per forza di cose ammettere, anche, che questa volontà non è credibile, se proviene da chi, non avendo vigilato sopra certi sistemi di svendita nella categoria, non fa prima una profonda autocritica.
Perchè il nodo è tutto lì: quello che il fascismo voleva fare creando gli ordini professionali era mettere insieme lavoratori e datori di lavoro di una categoria e spegnere ogni tipo di protesta sindacale – la differenza tra corporazione e sindacato.
Oggi che a quella categoria ha avuto accesso anche chi non aveva protezioni di reddito e di censo, i risultati si vedono. Non è tempo di sottili disquisizioni intellettuali, appunto, ma dopo il 13 maggio gli ordini che scrivono che “il professionista dispensa formazione di alto livello in particolare verso i giovani lavoratori”, dovrebbero anche avere l’onestà intellettuale di dire che spesso le prime forme di sfruttamento del lavoro e di ribasso della propria prestazione il giovane lavoratore le impara presso il suo collega; che le protezioni che reclamiamo dal Governo le abbiamo abiurate per primi nella nostra categoria, scaricando sui più deboli la perdita esponenziale di potere contrattuale, in un gioco al ribasso che ha finito per travolgerci tutti; che se quello che oggi chiediamo non è la reintroduzione di un prezzario unilateralmente stabilito, ma un tavolo di contrattazione – particolarissimo, perchè non si parla solo di prezzi ma anche di prestazioni intellettuali con ricadute sulla collettività non quantificabili nell’immediato – dovremo misurare per forza di cose il nostro potere di rappresentanza e la nostra capacità di costruirla: siamo in grado di farlo?
Abbiamo uomini e donne, dentro le nostre istituzioni – a qualunque titolo rappresentative – in grado di assumersi questo compito? Siamo pronti a impegnarci noi in prima linea? Siamo pronti a mettere in discussione l’intero sistema di autogoverno e rappresentanza delle professioni, andando a rinnovare nella struttura un insieme di istituzioni create per un mondo che era profondamente diverso e che non esiste più?
Un grande laboratorio ci aspetta, un terreno difficile su cui le professioni intellettuali sono chiamate a dimostrare che sono prima di tutto in grado di elaborare la costruzione della propria identità politica all’interno della società.
La manifestazione del 13 maggio non dovrebbe essere altro che l’inizio di questo percorso.