Sarò io la prossima? La guerra a casa e a scuola

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    “Sarò io la prossima?”. Con questa semplice frase scritta a mano sul suo cartoncino, una giovane liceale statunitense ha preso parte alla grande manifestazione organizzata a Washington, qualche settimana dopo la strage di Parkland, per chiedere al governo maggiori controlli e limitazioni sulle armi da fuoco nel paese. Ovvero, per chiedere più sicurezza nella sua scuola.

    Quella della capitale è stata solo una delle numerose iniziative che compongono il quadro di un’intensa mobilitazione sociale e politica seguita alle stragi degli ultimi mesi.

    L’energia e l’impegno investiti dagli studenti e dalle persone che marciavano insieme a loro ben si spiegano guardando ai dati relativi alle tragedie provocate dall’indiscriminata diffusione delle armi da fuoco. Secondo John Woodrow Cox e Steven Rich del “Washington Post”, dalla strage di Columbine (1999) ad oggi, nelle scuole statunitensi le sparatorie con un numero plurale di vittime – i tristemente noti mass shooting – sono state almeno 193, contando solo quelle avvenute immediatamente prima, immediatamente dopo, oppure durante l’orario scolastico, ovvero quando i ragazzi e le ragazze sono in classe o in transito negli istituti: si tratta di una sparatoria al mese all’incirca. A queste andrebbero aggiunte quelle verificate in orario serale o notturno, oppure in luoghi non immediatamente connessi agli spazi di pertinenza dei campus scolastici. Secondo le stime ricavate dalla ricerca pubblicata dal Post, almeno 187.000 ragazzi e ragazze di scuole primarie e secondarie hanno assistito alle sparatorie avvenute nei loro istituti, uccidendo un numero variabile di ragazzi, bambini, insegnanti: hanno perso la vita 13 persone a Columbine, 26 a Sandy Hook, 17 a Parkland, per un totale di almeno 130 morti e 250 feriti in vent’anni.

    Sono certamente numeri impressionanti anche se rapportati a una popolazione di 300 milioni di abitanti. Per ridimensionarli, è necessario che li si confronti con le stime dei mass shooting che si verificano complessivamente nel paese, all’esterno delle scuole. Dal 2012 a oggi, infatti, si sono registrati circa 1500 mass shooting mentre, stando ai dati forniti dalla senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, nei primi 81 giorni del 2018 se ne sarebbero già contati 49. Messe a sistema con tutte le altre, insomma, le stragi scolastiche si riducono a una piccola componente di un fenomeno che fa apparire gli Stati Uniti come una sorta di enorme territorio dichiarato in stato di guerra.

    Una guerra interna, civile e permanente, combattuta con 250 milioni di armi in possesso di cittadini qualsiasi: pistole, fucili, fucili a ripetizione, qualche volta vere e proprie armi da guerra. Nella maggioranza dei casi i mass shooting fanno nemmeno notizia perché uccidono “solo” due o tre persone, oppure perché coinvolgono soltanto afroamericani o latinos residenti in zone a rischio. E non è solo questione di razzismo: semplicemente esistono quartieri e periferie dove lo stato di guerra è più intenso, noto e dichiarato, tanto che la morte per arma da fuoco, in sostanza, finisce con il rappresentare una componente del paesaggio, di cui nemmeno sembra necessario ci si occupi.

    Le scuole rimangono tuttavia un formidabile punto di osservazione per chi voglia ragionare sulla questione delle armi. Perché da Columbine ad oggi, i fatti hanno imposto un cambiamento nella cultura e nella pratica di chi fa scuola. Si sono diffuse esercitazioni anti-sparatoria, simulazioni analoghe a quelle prove di evacuazione e di governo dei momenti di panico di massa praticate nelle scuole italiane ed europee in funzione di eventuali terremoti o calamità naturali.

    A scuola, però, i bambini e le bambine dovrebbe andare per imparare a scrivere e leggere i nomi dei colori, degli odori, delle cose; per affinare la loro capacità di riconoscere e nominare i sentimenti; per apprendere come si ricordano i nomi delle persone, dei libri, dei racconti scritti dagli altri, così da diventare donne e uomini capaci di sostenere un discorso. Ma si va soprattutto per crescere con gli altri, per sviluppare nella pratica un’idea di cittadinanza più evoluta, democratica e plurale di quella più familistica e selettiva che si trasmette inevitabilmente in casa, dove sempre si frequentano le persone che piacciono e con le quali, in qualche modo, si ritiene utile stare.

    A scuola, inoltre, le giovani generazioni dovrebbero acquisire i rudimenti pratici e teorici per capire il contesto in cui vivono, cosa si attende il mondo da loro e cosa possono attendersi loro dal mondo. Ecco, negli Stati Uniti di oggi, i piccoli americani si allenano a vivere nella percezione di trovarsi coinvolti in una sorta di guerra, circondati da soggetti che in media una volta al mese entrano in una scuola come la loro e ammazzano qualcuno come loro, mirando, o solo accidentalmente. E apprendono che una parte del loro tempo di scuola va dedicata a ragionare sulle tecniche per tutelarsi dalle pallottole vaganti o per fuggire in massa con i compagni in uno scantinato nel quale asserragliarsi in attesa che passi una bufera di proiettili, magari acquistati in un mall poco distante da un soggetto disturbato.

    Come dovrebbero crescere quelle bambine e quei bambini? Di quale idea di cittadinanza dovrebbero disporre? Ma soprattutto, in che società vivono? Di quale classe politica e dirigente sono le vittime?

    Come ricordava Mario Del Pero in un suo recente intervento, dopo la strage di Sandy Hook del 2012 l’allora vice-presidente della National Rifle Association aveva dichiarato: “L’unica cosa che può fermare un uomo malvagio con una pistola è un uomo buono con la pistola”. La stessa teoria fatta propria da Trump, qualche settimane fa, quando si è sentito di suggerire agli insegnanti statunitensi, come soluzione contro i mass shooting a scuola, di armarsi, per poter abbattere eventuali apprendisti stragisti. Tutto ciò si regge sull’idea di un diritto a portare le armi fondato sul tanto invocato quanto frainteso secondo emendamento della costituzione che, nella sua formulazione (“Essendo necessaria, per la sicurezza di uno Stato libero, una Milizia ben organizzata, non sarà violato il diritto del popolo di tenere e portare armi”) riconosceva, nel 1791, al popolo dei neonati Stati Uniti il diritto a portare armi in funzione di un’eventuale mobilitazione bellica, nella forma di una Milizia organizzata, a difesa del paese, in caso di attacco esterno. E ciò acquisiva senso, nel 1791, nel dibattito tra federalisti e antifederalisti, quando i coloni appena liberati rifiutavano l’idea di disporre di un potente esercito federale – come in seguito avrebbero resistito alla coscrizione obbligatoria – perché ritenuto un potenziale strumento di oppressione da parte del governo centrale.

    Questo secondo emendamento, destoricizzato e impugnato nei secoli a sostegno di una barbara idea di difesa personale e di legittima difesa, è diventato uno strumento di legittimazione di un perenne stato di guerra interna a bassa intensità, nel quale vivono milioni di uomini e di donne, con un’arma ciascuno in media, dove ci si ammazza a migliaia ogni anno, mentre si crescono i propri figli in istituti blindati. Ovvio che una tale situazione ha conseguenze devastanti sul tessuto sociale, politico e culturale del paese.

    E tale situazione dovrebbe suggerire a qualsiasi europeo di buon senso di lavorare al mantenimento della locale prassi in fatto di diffusione delle armi e di un concetto di legittima difesa meno esteso e più civile, cose che consentono agli europei di mandare i figli a scuola senza il rischio che glieli ammazzino in una sorta di mensile lotteria della morte. Occorre poi sperare nella capacità di resistenza dei giovani statunitensi che stanno marciando oggi nel loro paese.

    E occorre contare sul potente e liberatorio afflato di intelligenza che usciva dalla parole di una bambina nera di nove anni, Yolanda Renee King, nipote di un uomo che ha contribuito a cambiare la storia del suo paese: insistendo nella sua lotta insieme ad altri milioni di piccole donne e uomini come lei, Yolanda potrà portare avanti di qualche passo il suo sogno, una delle più grandi battaglie di civiltà in corso gli Stati Uniti contemporanei.

     

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