‘Solitudini Connesse’: il libro di Jacopo Franchi racconta come sprofondiamo nei social

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    Il vantaggio di aver lavorato per anni come social media manager non è quello di conoscere chissà quali “trucchi” per poter ottenere il maggior numero possibile di “mi piace” o di follower, bensì di aver misurato – spesso, sulla propria pelle – la distanza abissale che esiste tra la teoria e la pratica dei social. Tra ciò che diventa virale e ciò che virale non è e non ha alcuna possibilità di diventarlo. Tra quello che sappiamo dei social e quello che questi ultimi sanno di noi. Tra le aspettative che manager, politici e persone comuni ancora oggi ripongono nei social e quello che questi ultimi effettivamente restituiscono in termini di maggiori profitti, maggiore consenso o semplicemente maggiori opportunità e relazioni.

    L’algoritmo non è pensato per servire le nostre esigenze ma per servire quelle dei social

    Quest’ultimo iato tra aspettative e realtà dei social dal punto di vista delle persone comuni – ovvero, tutti coloro che non si autodefiniscono “influencer” – è l’argomento centrale del mio saggio, “Solitudini connesse. Sprofondare nei social media” (Agenzia X Edizioni) in libreria da oggi 24 gennaio.

    Solitudini connesse sarà presentato oggi 24 gennaio alle 18.3o a Milano da Wemake. Con l’autore interverrà Cosimo Accoto. Qui per info

    Dalla potenza all’impotenza

    Lavorare come social media manager, oggi, è forse l’unico modo per non parlare dei social in astratto, come se fossero piattaforme immutate nel tempo e non il risultato di continui aggiustamenti di funzionalità, servizi, opzioni a disposizione dell’utente.

    Solo lavorandoci tutti i giorni, e vivendoli in prima persona, è possibile rendersi conto di quanto sia forte lo iato esistente tra le loro infinite promesse e la diffusa mediocrità del loro quotidiano. Tra le possibilità offerte da un sistema di comunicazione universale e la nostra ignoranza di quei meccanismi che ci consentirebbero, forse, di sfruttarlo per esaudire a fondo i nostri desideri: realizzare connessioni autentiche, interazioni non fini a se stesse, avvicinarci agli altri senza limitarci al ruolo di follower a vita.

    Non ce ne andremo dai social, non per molto tempo ancora

    I social odierni sono il risultato di due tensioni tra loro opposte che sono andate rafforzandosi a vicenda nel corso degli anni: da un lato la possibilità di maggiori capacità comunicative e relazionali rispetto all’ambiente offline; dall’altro la restrizione, secondo regole per lo più sconosciute, di queste stesse possibilità a causa di un algoritmo che influenza in maniera incontrollata e, spesso, decisiva la nostra esperienza e percezione del mondo esterno. La vita quotidiana sui social è il risultato della combinazione di queste due forze, e non sempre siamo in grado di rendercene conto o di venire a patti con esse.

    Perché rimaniamo sui social, nonostante tutto

    Non ce ne andremo, non per molto tempo ancora. Non basteranno altre “Cambridge Analytica” per convincerci ad abbandonarli. I social non sono il paradiso degli egocentrici, degli estroversi, il regno dei complottari e delle fake news. Se così fosse, li avremmo già abbandonati da un pezzo. Nonostante questi elementi negativi e disturbanti, i social rappresentano ancora oggi un’estensione delle nostre capacità di relazione e comunicazione con gli altri. L’abitudine, forse, ha fatto sì che ci dimenticassimo quel senso di euforia e di esaltazione collettiva che aveva accompagnato i primi anni di espansione di Facebook e dei suoi consimili.

    Lavorare come social media manager, in questo senso, ha il vantaggio di permettere di riconoscere quegli aspetti dei social che più di altri hanno contribuito al loro successo. Ad esempio: il fatto che solo in rari casi sia possibile distinguere tra utenti online e offline o sapere chi ha visitato il nostro profilo ha fatto sì che potessimo usare i social in una modalità “passiva”, che è con ogni probabilità quella predominante: spiare gli altri, verificare che siano quelli che dicono di essere, osservarli mentre non se ne accorgono, seguire le discussioni e le vicende altrui decidendo quando e come palesare la nostra presenza.

    Tramite i social ognuno di noi può scrivere una storia personale – di successo, di amore, di felicità – che gli altri non sono quasi mai in grado di distinguere dalla realtà

    I social ci permettono di dialogare con altre centinaia di persone nei commenti di un post, sulla nostra bacheca o in un gruppo, e ci danno la possibilità di scegliere con attenzione le parole e le immagini migliori per esprimere quello che vogliamo dire veramente. Sono il sogno segreto non degli estroversi, di chi è a proprio agio con la propria immagine pubblica, ma della maggioranza dei timidi, degli insicuri, di chi soffre di qualche forma di fobia sociale o semplicemente non è abituato a relazionarsi con molte persone contemporaneamente. Prima ancora che degli influencer, i social sono il regno dei tanti “signor nessuno” che attraverso queste piattaforme possono esprimersi come mai prima d’ora è stato loro possibile.

    Un’altra possibilità che i social ci offrono è quella di ricostruire all’infinito la nostra storia personale decidendo liberamente quali post mostrare a tutti, quali nascondere a determinate categorie di persone, cancellando le foto, modificando i post, o “registrandoci” in luoghi che magari non abbiamo visto o abbiamo visitato solo di sfuggita. Tramite i social ognuno di noi può scrivere una storia – di successo, di amore, di felicità – personale che gli altri non sono quasi mai in grado di distinguere dalla realtà. Possiamo mentire, sui social, con lo scopo di mostrarci migliori di quello che siamo realmente, con la quasi certezza che nessuno lo verrà mai a sapere o che nessuno cercherà con costanza di ricostruire tutte le piccole omissioni e imprecisioni del nostro discorso.

    Prima ancora di volerci “disconnettere” dai social, abbiamo vissuto grazie a essi la possibilità di poterci “disconnettere” dalla realtà

    I social rappresentano ancora oggi la via di fuga, più economica e immediata, dalla finitezza e dalla frustrazione della vita presente, per darci la sensazione di poter vivere con i nostri occhi migliaia di altre vite, migliaia di altre esperienze contemporaneamente. Prima ancora di volerci “disconnettere” dai social, abbiamo vissuto grazie a essi la possibilità di poterci “disconnettere” dalla realtà, al momento desiderato. Infine, i social promettono di liberarci dall’oblio della morte, assicurandoci che il nostro doppio digitale e il ricordo di quello che abbiamo detto e fatto possa rimanere conservato in eterno all’interno delle loro piattaforme, a beneficio se non dell’umanità perlomeno dei nostri pronipoti. A prescindere dalla rilevanza di quello che abbiamo fatto e detto in vita.

    Perché vorremmo andarcene, ma non lo sappiamo motivare

    Dopo aver liberato queste immense energie e possibilità i social hanno tuttavia scelto di gestirle e incanalarle attraverso uno strumento che dimostra oggi tutti i suoi limiti, sempre più inadatto ad assolvere al ruolo di organizzatore di quel “dibattito globale” che prende forma ogni giorno su Facebook o Twitter. L’algoritmo, che decide al posto nostro quali post e quali persone possiamo vedere all’interno dei nostri flussi di notizie, in questo senso non è tanto uno strumento pensato per servire le nostre esigenze, quanto per servire le esigenze dei social media stessi nell’organizzare un immenso flusso di contenuti che vorrebbe diffondersi e raggiungere ogni persona, ogni luogo della terra.

    I social media hanno reso i giovani più tranquilli, casalinghi, silenziosi, in una parola controllabili dai genitori. ma li hanno anche portati in un mondo dove non si fanno esperienze ma si assiste a quelle degli altri, dove si può essere al massimo follower o hater di qualcun altro.

    Con il loro algoritmo che favorisce i post con maggiore interazione rispetto a quelli che ne ottengono meno, i post più dibattuti rispetto a quelli che generano solo qualche “mi piace” distratto, i social favoriscono la connessione tra chi ha una domanda da porre e chi potrebbe conoscere la risposta, o conoscere qualcuno (da “taggare”) che a sua volta potrebbe conoscere la risposta. I social sono il motore di ricerca della conoscenza inedita che l’umanità nel suo complesso, ogni giorno, accresce grazie allo studio e all’esperienza. Sono un costante “passaparola” che non ha più restrizioni geografiche e linguistiche. Anche se i contenuti sono falsi, non verificati, e per questo stesso motivo ancora più intensamente dibattuti.

    È l’algoritmo, e non i social in quanto tali, l’origine del nostro malessere e del disagio che proviamo oggi quando “sprofondiamo” per ore intere, quando non per giorni, all’interno di queste piattaforme. È lui che limita in automatico la visibilità dei nostri post, è lui che sceglie quali dei nostri “amici” e dei nostri follower potranno vederli, ed è sempre lui che decide che cosa possiamo vedere e chi possiamo vedere ai primi posti del nostro interminabile flusso di notizie. Anziché aiutarci a costruire un nostro personale palinsesto, ci ha reso una parte (mai troppo rilevante) del palinsesto di altre persone, nel tentativo continuo di conciliare ciò che possiamo dare agli altri con ciò che gli altri possono dare a noi, in termini di conoscenza ed esperienze condivise.

    Sui social le persone con qualche forma, anche lieve, di disagio mentale, non hanno modo di godere di maggiore tolleranza o delle protezioni che il loro stato specifico richiederebbe.

    Quanti di noi sono in grado di adattarsi ai suoi continui aggiornamenti? Quanti hanno interesse a partecipare a una continua condivisione e validazione di nuove informazioni da immettere nel flusso? Quanti sono disposti a diventare una parte del palinsesto altrui? E in che misura l’algoritmo ci conosce veramente, o non conosce piuttosto quello che abbiamo deciso di mostrare di noi stessi, per piacere agli altri? Il fatto che ogni nostra azione sia costantemente misurata per definire quello che potremo vedere o non vedere nel nostro flusso di notizie è solo uno degli esempi di quanto le possibilità che i social ci offrono siano in misura se non inferiori, perlomeno pari a quelle che ci sottraggono.

    Le solitudini connesse

    È quindi una continua tensione tra infinite possibilità di relazione e comunicazione con gli altri, e infinite limitazioni alla diffusione dei nostri contenuti e al modo in cui vediamo quelli degli altri, quella che caratterizza i social e che ci fa continuamente oscillare tra l’entusiasmo e lo sconforto. Una tensione che, tuttavia, se genera un malessere sopportabile nelle persone comuni e consapevoli di queste dinamiche, può avere effetti deleteri per coloro che riescono meno di altri a sfruttare le possibilità offerte dai social e rimangono alla mercé delle loro, quelle sì, implacabili regole.

    Le solitudini collettive dei social sono anche quelle dei migranti, che attraverso i social conservano l’illusione di rimanere vicino a coloro che hanno dovuto abbandonare per sempre

    Sono le solitudini plurali, quelle di interi gruppi e categorie di persone che sono presenti sui social, che appaiono come utenti con le stesse potenzialità di altri, ma che in realtà si ritrovano a essere marginali anche su queste piattaforme, così come lo sono nella vita offline. Sono gli anziani, che non possono per raggiunti limiti di età e di lucidità tenere il passo con gli aggiornamenti costanti e l’imprevedibilità di piattaforme concepite per rispondere al bisogno di novità costante dei più giovani. Sono le persone con qualche forma, anche lieve, di disagio mentale, che sui social non hanno modo di essere distinte dalle altre e di godere di maggiore tolleranza o delle protezioni che il loro stato specifico richiederebbe.

    Le solitudini collettive dei social sono anche quelle dei migranti, che attraverso i social conservano l’illusione di rimanere vicino a coloro che hanno dovuto abbandonare per sempre, senza tuttavia avere la possibilità di entrare rapidamente in contatto con la popolazione che dovrebbe accoglierli e aiutarli. Sono le solitudini di chi si trova in condizione di povertà e che non ci tiene a mostrarla ai propri contatti, a condividere una situazione di disagio materiale agli occhi di amici, colleghi, possibili datori di lavoro. Non è un caso, infatti, che i social siano cresciuti nel pieno della crisi economica, dandoci la possibilità di rimanere “amici” di persone che sono repentinamente scomparse dal nostro flusso di notizie.

    A proposito del valore delle piattaforme social e dei dispositivi mobili per i migranti, leggi anche: Tiziano Bonini, Tornare a casa con ogni mezzo

    Sono le solitudini delle stesse élite, che attraverso i social possono illudersi di vivere in un mondo di soli scienziati, giornalisti, intellettuali, salvo poi risvegliarsi bruscamente ogni volta che la realtà si palesa all’interno del loro network autoreferenziale da cui si sono illusi di poter scartare preventivamente ogni opinione di segno opposto. Sono le solitudini, infine, degli stessi nativi digitali: i social media hanno reso i giovani più tranquilli, casalinghi, silenziosi, in una parola controllabili dai genitori, ma li hanno anche portati all’interno di un mondo dove non si fanno esperienze, ma si assiste a quelle degli altri, dove non si è mai “amici” alla pari, ma si può essere al massimo follower o hater di qualcun altro. E solo ora ci viene il dubbio, atroce, di aver lasciato i più giovani a misurarsi con un algoritmo che su di loro è stato testato e perfezionato nel corso degli anni. Senza che le nostre migliori menti siano ancora in grado di controllarlo, né tantomeno di comprenderlo.

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