Non viaggiamo quasi più in metro, anche se prima della pandemia ci abitavamo dentro

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    Uno dei cambiamenti imposti dalla pandemia coinvolge il nostro rapporto con i mezzi pubblici, che si è decisamente incrinato. Gli autobus, i tram e, soprattutto la metropolitana, dove non c’è contatto con l’aria aperta, sono stati indicati più volte come veicolo di trasmissione del virus e chi ha delle alternative e può scegliere, li evita.

    A Milano dall’anno dell’inaugurazione della M5, il 2013, a oggi, la rete metropolitana ha continuato a svilupparsi avvicinandosi a piccoli passi a quella molto più fitta delle più importanti città europee ma, con l’arrivo dell’emergenza sanitaria, i passeggeri sono diminuiti, sia per timori personali sia per le misure prese per limitare i contagi.

    Fino al 2015, a San Siro, quartiere dove sono cresciuto, il metrò non arrivava e per raggiungerlo bisognava prendere l’autobus o il tram e dunque calcolare, tra attesa e tragitto, circa venti minuti in più per raggiungere il centro. A parte questo disagio ormai superato, crescere vicino al Meazza, come si può immaginare, significa avere a che fare quotidianamente con un posto entrato nella storia perché casa di Inter e Milan, sede della prima partita della Coppa del Mondo del ‘90 e di più finali di Champions League, teatro dei mitizzati concerti di Bob Marley del 1980, di Bruce Springsteen del 1985 e di David Bowie del 1987. Un posto molto ingombrante, soprattutto quando ospita(va) eventi, un po’ meno il resto dell’anno, in cui comunque non perde mai la sua dimensione dominante nel quartiere. Quando è partito il dibattito pubblico sulla demolizione, a sua difesa è nato un comitato di zona composto anche da persone che spesso ne hanno sofferto la presenza, a conferma di questa sovranità.

    Nel 2013 mi sono spostato dall’altra parte della città, in una zona comunque periferica, subito a nord di Piazzale Loreto (dal 2016 nota come NoLo), con una maggiore densità edilizia e di popolazione e dunque più servizi, diventata dagli anni 60 in avanti punto di riferimento dell’immigrazione, prima italiana e poi straniera, e ora in piena gentrificazione.

    Qui ci sono tanti piccoli elementi che partecipano continuamente alla caratterizzazione del quartiere e non un solo imponente monumento che fa da centro di gravità. Uno dei fattori che mi ha portato a scegliere questa zona, visto che da anni ho abbandonato la macchina, è stata proprio la presenza della metropolitana. Da otto anni, insomma, in dieci o quindici minuti arrivo in centro: basta percorrere 400 metri a piedi e scendere le scale della stazione Pasteur, l’unica fermata del metrò milanese che condivide il nome con una omologa parigina. Per me quell’incrocio sui generis che si sviluppa sottoterra – tra Viale Monza, lo slargo di Via dei Transiti e Via Sauli – ha rappresentato da subito il nucleo del quartiere e così sono passato dalla tensione verso l’alto di San Siro a questa verso il basso di Pasteur. Da un anno a questa parte, però, per i noti motivi, si è creata una distanza con questo nucleo, fisica (non ho più rinnovato il mio abbonamento ai mezzi) ma non mentale.

    Il cognome del chimico e biologo francese che, ironia della sorte, ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dei vaccini, campeggia sulla targa toponomastica di una piccola traversa di Viale Monza molto vicina, appunto, a una delle entrate/uscite di questa stazione appartenente alla linea più vecchia della metropolitana milanese nel suo tratto prima dell’ex polo operaio di Sesto San Giovanni e dopo la strada più commerciale della città, Corso Buenos Aires. Via Luigi Pasteur non è la via più importante e battuta lì intorno, anzi, ma proseguendo il gioco delle corrispondenze, la scelta di inciderne il cognome sulla mappa sotterranea, può dipendere dal fatto che in Viale Monza c’è una frequenza di stazioni della metropolitana che ricorda proprio quella di Parigi, città in cui, in media, ogni 548 metri appare una fermata, come a voler salvare l’avventore smarrito.

    Dati del 2018 dicono che, ogni anno, circa 60 produzioni cine-televisive scelgono il metrò parigino come location e sul sito ufficiale dell’azienda che lo gestisce, RATP, c’è proprio una pagina dedicata al cinema. Anche gli italiani che non sono mai stati nella capitale francese conoscono quei sotterranei di Parigi perché ricordano alcune scene di film come Il favoloso mondo di Amélie, Zazie nel metrò o L’odio.

    Ma è il secondo lungometraggio di Luc Besson, Subway, ad aver sfruttato di più questa ambientazione: dal 1987, un anno dopo la distribuzione nelle sale italiane e due dopo quella in Francia, la nostra tv commerciale ha iniziato a trasmetterlo con una discreta frequenza. Dopo una sequenza iniziale girata per strada, i protagonisti scendono sottoterra e non escono mai da un vero labirinto di cunicoli, facendoci credere che sia possibile una vita sotterranea parallela e scandita dal passaggio dei treni. Subway – con un Cristopher Lambert dall’acconciatura punk e una Isabelle Adjani fin troppo elegante – idealizza la metropolitana parigina e non importa se, tra le stazioni in cui è ambientato, non figura Pasteur, perché è tutta la rete locale ad assumere fascino, specie agli occhi di chi non la può o deve frequentare quotidianamente.

    Anche la musica ha fatto la sua parte. Les casse-pieds non sono uno dei gruppi più noti ma uno dei più caratteristici della scena rock indipendente francese esplosa tra la seconda metà degli anni 80 e la prima dei ’90, la stessa da cui è venuto fuori Manu Chao – soprattutto grazie all’esperienza con i Mano Negra ma ancora prima con Hot Pants e Los Carayos. Nel 1991 “I rompiscatole” – così si può rendere il nome in italiano – incidono un album che oltre a un pezzo rifatto dai Mano Negra, Darling, contiene anche Le métro: il divertente video ufficiale, in rotazione anche sulla nostra Videomusic, è ambientato proprio in una carrozza della metropolitana in cui i membri del gruppo si esibiscono con un’attitudine da veri busker disturbatori.

    La stazione in cui si intrufolano portandosi dietro tutti gli strumenti, contrabbasso incluso, è Porte de Lilas, già cantata da Serge Gainsbourg nel suo primo successo, datato 1958: Le poinçonneur des Lilas. Oltre al transito passeggeri, questa stazione ha proprio una parte chiusa al pubblico dedicata ai set cine-televisivi, un ramo fantasma con banchina e treni a disposizione dei registi.

    E gli scrittori, che nel vagone hanno il vantaggio di essere una presenza molto più discreta, quasi anonima? Zazie nel metrò prima di essere un film è un romanzo di Raymond Queneau ma è il saggio del 1985 di Marc Augé, Un etnologo nel metrò, a penetrare nelle 16 linee sotterranee descrivendone riti e passeggeri.

    Fino agli anni 90, a Milano, quasi tutti chiamavano la metropolitana con il francesismo “metrò”, anche perché è l’abbreviazione scelta dai nostri linguisti, comprovata da un’origine etimologica inequivocabile come “chemin de fer métropolitain”. Più o meno a partire dagli anni 80, in molte città italiane, ci si inizia a lamentare della diffusione dell’italiano parlato a Milano, spesso imbastardito da termini gergali o di altre lingue (specialmente l’inglese, in effetti spesso usato a sproposito). In questo caso non si tratta di una licenza o di una cattiva abitudine, e il suono della parola metrò, coi suoi rimandi a Parigi, dove la prima linea ha esordito nel 1900, ben 64 anni prima della Rossa milanese, in qualche modo nobilita i nostri mezzi pubblici più veloci, di certo non celebrati come in Francia. A parte esempi d’autore come il poliziesco di culto tratto da Scerbanenco, Milano Calibro 9 di Fernando Di Leo, o La bionda di Sergio Rubini, i film più noti dove si vede la metropolitana di Milano sono il nazionalpopolare Nati stanchi con Ficarra e Picone ma soprattutto gli “stracult” anni 80 di Carlo Vanzina, che ha ambientato varie scene nella stazione di Amendola-Fiera, la più curata dal punto di vista architettonico, non a caso ben mostrata anche nel documentario di ATM del 1982 In metrò.

    Vanzina la usa come location sia nel film che, per dirla con Marco Giusti, ha “evidenti echi dei Guerrieri della notte”, I fichissimi, sia nella pellicola che, per Giovanni Buttafava, ripropone “l’eterno tormentone dieghiano dei guerrieri della notte caserecci”, Il ras del quartiere.

    Proprio nel doppiaggio italiano de I guerrieri della notte di Walter Hill, uscito nella sale italiane il 30 agosto del 1979 con il divieto ai minori di 18 anni ma poi trasmesso spesso in seconda serata dai canali Mediaset – e il cui rapporto con il metrò è raccontato da Jonathan Lethem in Memorie di un artista della delusione -, il leader della gang al centro delle vicende, Swan, nonostante la rudezza del personaggio, dopo aver lanciato una molotov contro la banda rivale degli Orfani, arrivando di corsa a una stazione lì vicino, si rivolge ai suoi “fratelli” urlando: “Il metrò! Il metrò!”.

    Siamo a New York, altro centro culturale che ha fatto della propria metropolitana un simbolo, e Swan in italiano dice “metrò”. Oggi gli avrebbero fatto dire “La metro! La metro!”, perché gli italiani, gran parte dei milanesi compresa, nel corso del tempo, ha optato per l’abbreviazione italianizzata. Pasteur, invece, si legge “pas.tœʁ” e anche se c’è chi lo storpia è impossibile italianizzarlo e resta il tratto francese della nostra metropolitana che non si può rinnegare.

    In questo periodo in cui tutti abbiamo diminuito la frequenza dei nostri viaggi sotterranei in città, per non perdere dimestichezza con il metrò ho preso spunto da alcuni semplici quesiti sollevati da Marc Augé per chiedermi cosa rappresenta per i viaggiatori che conosco meglio: nella varia umanità che ogni giorno sale e scende a Pasteur quanti, per esempio, quando leggono questo cognome, penseranno alla scienza, alla chimica e al suo ruolo nella storia dei vaccini, quanti a chi apparterrà o cosa vorrà dire quel nome scritto in bianco sulla fascia rossa orizzontale (a Parigi è un mosaico bianco e blu), quanti, più semplicemente, saranno concentrati sulle vie o su qualche negozio o ristorante nei dintorni, quanti sulla storica casa occupata di Via dei Transiti 28 che, coi suoi muri disegnati e colorati, cattura l’occhio appena ci si affaccia in superficie, e quanti, invece, saranno distratti da vicende intime, dal lavoro o fantasticheranno sull’altro/a passeggero/a che li ha incuriositi o attratti?

    Oppure quanti si fermeranno ai ricordi evocati dalla vecchia réclame della Fanta, risalente probabilmente agli anni 70, che appare a intervalli regolari quando tolgono i manifesti scaduti dallo spazio pubblicitario in corrispondenza dell’ultima carrozza sulla banchina in direzione centro, di fianco alla porta con la scritta “Locali tecnologici”? O ancora, come succede per Porto di Mare sulla linea Gialla, quanti si lasceranno trasportare altrove, in questo caso in Francia o sulla banchina di una fermata (magari proprio l’omonima) della rete parigina?

    Da passeggero e spettatore posso essere certo solo del fatto che sono tanti quelli che, per uscire dai tornelli, non timbrano il biglietto e che non sono pochi a prediligere l’uscita più vicina alla via che dà il nome alla stazione. Potrebbero avere dei dati più precisi e fare un racconto più dettagliato l’edicolante, i venditori ambulanti che si piazzano vicino al box della fototessera, i titolari del negozio di accessori per telefoni, ombrelli e foulard o il dipendente ATM chiuso nel gabbiotto: gli unici che passano ore e ore in mezzo al viavai dei viaggiatori metropolitani. Ma forse, alla fine, che si tratti di attori o spettatori, di passaggio o fissi, sono gli smartphone a vincere, catturando gran parte delle attenzioni e dei viaggi della mente.

    Perché, a dirla tutta, faticherei a focalizzare gli stessi miei pensieri più ricorrenti in quegli attimi, a maggior ragione in questo periodo in cui salire su quei vagoni è diventato sporadico. Del desiderio, però, sono cosciente: questa coincidenza omonimica, visto che anche i viaggi sono usciti dalla nostra routine, sarebbe ideale che si trasformasse in una coincidenza di linee “inter-metropolitane”. Pasteur, così, diventerebbe la fermata dove si cambia linea per passare da Milano a Parigi e viceversa. Anche se, in un prossimo futuro, accadesse solo in un film, non sarebbe male.

    Note