La gestione dell’immigrazione e il suo racconto dicono molto di noi. Sappiamo bene che è sul terreno dell’immigrazione che maggiormente si incaglia e degrada il nostro dibattito pubblico e politico. Sappiamo anche che questo accade perché il fenomeno dell’immigrazione pone domande che riguardano questioni essenziali su cui da tempo ci siamo scoperti discordi. Sappiamo infine che parlare di un generico “noi”, contrapposto a un generico “loro” è violento ed approssimativo e al contempo inevitabile perché la demarcazione esprime un disequilibrio di potere che sarebbe ipocrita negare. Ciò che più di tutto però dovrebbe scandalizzarci è che nello scoprirci discordi su chi merita di essere salvato e accolto, noi veniamo storicamente e culturalmente sconfitti. Di questa clamorosa sconfitta non ci occupiamo né preoccupiamo con clamore e nemmeno quando la chiamiamo “emergenza” la nostra reazione è quella di persone allarmate.
Sull’unico primato che in quanto Occidente saremmo tenuti a vantare e mettere in pratica— l’essere la patria dei diritti liberi dai particolarismi, i diritti dell’uomo in quanto uomo — ci accasciamo arrendevolmente. E anche quando ci fregiamo di questo ruolo di garanti dei diritti lo facciamo spesso in maniera strumentale e retorica, senza che alle intenzioni dichiarate segua una reale strategia politica.
La nostra disfatta storica, prima ancora che politica, è evidente nei fatti e nel lessico, nei ghetti e nelle parole.
Il migrante — participio presente — con la sua triste figura, con la sua esperienza di fuga e fatica, ci è abbastanza estraneo da non permettere un’identificazione reale. In un centro di detenzione libico o su un barcone che rischia di affondare sappiamo che verosimilmente non finiremo mai. Un migrante è fatto di bisogni primari. Basta una coperta, del cibo e un letto perché il nostro dovere sia soddisfatto e la nostra coscienza salva.
Quando però il migrante diventa immigrato, quando occupa spazio che ci riserviamo di chiamare nostro, quando come noi prende i mezzi pubblici e occupa il marciapiede, vaga per le stazioni o entra al supermercato, lì, in quel passaggio, avviene una recrudescenza semantica. Improvvisamente il suo corpo e l’alterità che rappresenta, insieme alla dignità che saremmo tenuti a riconoscergli, ci risultano fastidiose. Ed è in quel passaggio che anche nei ben intenzionati si insinua un concetto subdolo, perché trasversalmente e tacitamente condiviso, che è quello della concessione. Non siamo d’accordo su cosa sia legittimo concedere ad un immigrato ma siamo d’accordo nel riconoscerci concessori.
E allora noi concessori iniziamo a dire, come fosse normale, che sono giusto due o tre le variabili importanti per trasformare l’esistenza di un immigrato in una vita dignitosa. Ci piace chiamarle priorità. Un lavoro, del cibo, un luogo su cui poggiare il corpo stanco e addormentarsi. Eppure, dimentichiamo o intenzionalmente ignoriamo che addormentarsi e dormire sono cose diverse. Cibarsi e mangiare: cose diverse. Sgobbare e lavorare: cose diverse. Ghetto e quartiere: cose diverse.
A tutti in fondo va bene che un immigrato senza documenti lavori, raramente che pretenda di svolgere un lavoro che non lo degradi. Possiamo capire la nostalgia per la famiglia, potremmo in alcuni casi anche contemplare un ricongiungimento famigliare, ma rimarremmo spiazzati davanti alla pretesa di portare i bambini a Gardaland (lamentarsi della coda, pagare cinque euro una coca-cola, maledire il caldo, ridere sulle montagne russe). All’immigrato precludiamo l’ozio, la birra con gli amici, l’arroganza e l’insoddisfazione che pure noi portiamo nel mondo ogni giorno. Ci scandalizziamo se non vuole mangiare il prosciutto che noi invece possiamo liberamente decidere di schifare. Le nostre concessioni non contemplano ferie dai bisogni primari ed ecco che allora la figura dell’immigrato rimane sempre in uno stato di subalternità ideale prima ancora che legale o economica, o legale ed economica perché in primo luogo ideale.
Nella prefazione del libro Arafat Va Alla lotta, edito da Mimesis, Antonello Mangano scrive che la traversata del Mediterraneo “è solo l’inizio di una lunga pedagogia della sottomissione che trasforma esseri umani pieni di orgoglio ed energie in schiavi senza volontà”. La rassegnazione è l’unica integrazione concessa, e ne è la prova Mohammed Arafat, il migrante, poi immigrato e infine sindacalista egiziano di cui la giornalista Maria Elena Scandaliato racconta meritevolmente le gesta e l’esperienza dai campi della Sicilia al nord dei capannoni. Arafat ne è una prova per opposizione: sfugge alle solite categorie – proviene dalla media borghesia egiziana e non è affatto “disposto a tutto” – non si rassegna all’inferno in cui lo getta la clandestinità, il lavoro sotto caporale, lo sfruttamento, il ricatto, la criminalizzazione e ghettizzazione dell’alterità che così violentemente pratichiamo. Non si rassegna ad un mercato del lavoro che se è guasto per tutti — anche per noi che ci trasferiamo per noia o perché a Milano non possiamo permetterci un monolocale — è del tutto marcio per chi non possiede documenti né, di conseguenza, diritti. Non si rassegna all’ingiustizia a cui non segue una giustizia riparatrice, né a vivere per sopravvivere o ad avanzare professionalmente, grazie alla sua spiccata intelligenza e tenacia, opprimendo chi ha meno intelligenza o tenacia, come invece il sistema richiederebbe. Arafat capisce che l’intelligenza e la tenacia sono fortune e non meriti, e che anche il meno intelligente e tenace dei lavoratori ha diritto a non essere spremuto, sfruttato, degradato e maltrattato fintanto che serve alla produzione di un paese che ha dimenticato che senza lavoratori non c’è lavoro né produzione e infine nemmeno arricchimento.
Arafat capisce, e questo è fondamentale, che il sistema produttivo italiano poggia su un’ipocrisia di fondo. Ha le prove — le porta sul corpo — dell’enorme bisogno di manodopera dalla filiera agroalimentare a quella logistica. Ma non si capacita mai del tutto di come a questo bisogno non segua il riconoscimento dei diritti a questo enorme bacino di lavoratori ricattati e precari.
“Io vengo qui ogni anno e ti assicuro che dopo un po’ ti abitui. Ci si abitua a tutto, nella vita. Anche a cose di cui non conosci l’esistenza» dice un compagno di lavoro ad Arafat mentre si accascia sul tugurio dove vive. “Lo guardavo mentre stava appoggiato alla sua coperta, sdraiato su una gettata di cemento e calcinacci, con gli occhi fissi al soffitto marcio; mi chiedevo come potesse un uomo vivere così.”
Neghiamo diritti che, se avessimo coscienza di ciò che storicamente siamo, sapremmo innegabili
In questo suo non capacitarsi mai del tutto, che è ingenuità o estrema lucidità, a fasi alterne, Arafat si organizza.
Dopo anni di sfruttamento nei magazzini piacentini della Tnt – colosso della logistica che si affida a cooperative per il reclutamento di facchini e manovali, dichiarando poche giornate e pagando il resto fuori busta paga, maltrattando i lavoratori che passano talvolta anche le notti fuori dal capannone con la speranza di essere scelti per lavorare – il ragazzo comincia ad organizzare uno sciopero che blocchi le merci e mandi in fumo i profitti. Il suo sindacalismo è selvaggio e inesperto ma combattivo ed estremamente cosciente. Non porta il peso della storia sindacale italiana con tutte le complicazioni e i rallentamenti che comporterebbe: è organizzato dal gradino più basso. La forza che Arafat intuisce di avere, seppure da proletario straniero e senza documenti, e il ruolo fondamentale che sa di giocare all’interno dell’azienda e in senso lato all’interno del mercato produttivo italiano, lui li spiega pazientemente ai compagni di lavoro. Dapprima restii e spaventati dal tragico scenario di perdere anche le briciole che ottengono dal loro lavoro, i colleghi uno ad uno si convincono e vengono come presi da un’eccitazione guerresca che è il frutto di un disvelamento. Tra il credere di non contare nulla e il capire che senza le fondamenta una casa crolla, c’è il seme di una rivoluzione. Una rivoluzione che se aspettasse noi, probabile che aspetterebbe invano. Siamo stanchi e siamo i concessori. Neghiamo diritti che, se avessimo coscienza di ciò che storicamente siamo, sapremmo innegabili. Il cambiamento passa per disvelamenti e prese di coscienza e noi da tempo fatichiamo a prendere coscienza perché sarebbe doloroso riconoscersi nei disgraziati più che nei pieni di grazia. E allora, poco coscienti e disgregati, viviamo nel senso di colpa quando va bene, nell’autoassoluzione quando va male.
La lotta di Arafat è mossa dal desiderio di sfuggire a una predestinazione: “Volevo scegliere, farlo dopo aver visto posti nuovi e realtà diverse. E non mi spaventavano la fatica, il sacrificio, le asprezze: mi terrorizzava, piuttosto, l’idea di incastrarmi in una vita qualsiasi, che non avessi desiderato e costruito io, con le mie mani.”
Il libro che racconta questo desiderio in cui è così facile riconoscere noi – il nostro desiderio di affermarci e di costruire un’esistenza che assomigli il più possibile a una vita – è necessario e direi anche prezioso. La scelta di Maria Elena Scandaliato di narrare l’esperienza di Arafat in prima persona, dando voce ai fatti senza intermediazioni o giudizi, è vincente perché obbliga il lettore a riconoscersi in colui che non è abituato a considerare un narratore e tanto meno un interlocutore: l’immigrato. Se i fatti commuovono e feriscono non è perché li guardiamo da fuori ma perché ci riguardano da dentro.
La storia di Mohamed Arafat è dunque fondamentale non solo perché testimonia un’esperienza – quella della clandestinità – che conosciamo solo superficialmente, ma perché testimonia una forma di lotta per i diritti che avrebbe molto da insegnare a una società che ancora considera importante garantirli all’uomo in quanto uomo.