Scup: sport popolare a Roma

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    La tiepida luce del mattino inizia a scaldare l’asfalto mentre scarichiamo il grosso camion a noleggio. Il tatami, i birimbao, le casse per la musica, i tavolini pieghevoli, il gazebo, i libri con la loro libreria portatile, tutto viene ammonticchiato da una parte sotto lo sguardo severo e metodico di Ester.

    In quattro stanno appendendo uno striscione tra i pali della luce, ed è tutto un coro di “si vede?”, “è storto”, “vai a controllare da laggiù”. Piano piano, mentre il sole raggiunge le panchine dove qualche anziano ci scruta incuriosito, arrivano a gruppetti gli istruttori delle varie discipline, già in divisa, e si dividono lo spazio, qui il tai chi, lì la boxe, là il parkour.

    Giuliano mi sta accanto e osserva la scena aspettando gli allievi, la roda di capoeira non è prevista che in tarda mattinata. Sta fermo appoggiato a un bocchettone d’areazione della metro e si prende una pausa dal facchinaggio gratuito. Io, intanto, monto il banchetto disponendo su file ordinate i volantini dei corsi di lingue.

    È il 5 ottobre e siamo in piazza re di Roma per una giornata di sport popolare. Dopo anni di manifestazioni sportive all’aperto ci siamo impratichiti, ormai siamo una squadra rodata, e anche se oggi è diverso, più grande e più lungo, sappiamo di avere le spalle abbastanza larghe per portarla a casa.

    Quando siamo andati in Campidoglio, ad esempio, abbiamo dovuto trasportare l’attrezzatura in spalla sotto la pioggia battente, su per la ripida salita che conduce al Marco Aurelio, mentre i turisti ci guardavano perplessi dal belvedere. Ce la siamo vista brutta, ma siamo rimasti lo stesso fino alle otto di sera ottenendo l’incontro che chiedevamo.

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    D’altra parte, se sei una palestra popolare andare in Campidoglio è una cosa che capita abbastanza spesso. Questo perché lo sport, a Roma, s’intreccia con la politica in una maniera strana, finendo sui giornali per i motivi sbagliati. A volte si tratta di vicende di malaffare, come nel caso delle tangenti legate alle Olimpiadi di Nuoto del 2009, altre volte di speculazioni edilizie, degli impianti mai ultimati che costellano il panorama urbano, vere e proprie cattedrali nel deserto.

    Di contro, è molto difficile che le attività sportive quotidiane della città, parte integrante del diritto alla salute dei suoi abitanti, assurgano agli onori delle cronache capitoline.

    Ma Giuliano non si preoccupa dei titoli dei giornali, e non ha mai pensato di insegnare nei mastodontici monumenti eretti a gloria imperitura dell’agonismo internazionale. È un istruttore di capoeira, una persona pratica, e ora l’unica cosa che lo interessa è che la giornata riesca bene. Da anni insegna nelle palestre popolari romane, e si può dire tranquillamente, senza paura di esagerare, che ha contribuito con un pezzo importante alla loro storia.

    Quando questa storia è iniziata, negli anni ‘90, la città aveva assistito a una proliferazione di palestre simili a quelle americane, e le strade si erano tappezzate di cartelloni pubblicitari che incitavano al wellness, promuovevano il fitness, mentre lo step, l’aerobica, lo spinning convertivano sale parquet con specchi e sbarre in distese di biciclette meccaniche.

    “L’infighettimento delle palestre” – come lo definisce lui – aveva trasformato Roma in una città dove, se volevi fare attività fisica, dovevi piegarti ai dettami di Jane Fonda e salire e scendere forsennatamente da gradini di plastica dura, pagando profumatamente l’opportunità di sudare.

    Gli unici luoghi che resistevano all’americanizzazione dello sport erano le piccole palestre monodisciplinari, o qualche sparuto centro comunale in cui anni di pratica avevano costruito e garantito oasi di eccellenza.

    “È lì che è nato tutto. Se volevi fare qualcosa di diverso, l’unico modo che avevi per trovare spazio era andare a bussare alle sedi di partito, alle parrocchie, agli spazi occupati, chiedendo che ti mettessero a disposizione una saletta, magari piccola e spoglia, dove però potevi praticare anche discipline nuove, meno inflazionate, e non preoccuparti troppo di un ritorno economico”.

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    Giuliano me lo racconta adesso, forse un po’ per passare il tempo, un po’ perché gliel’ho chiesto. Risponde alle mie domande con l’espressione concentrata di chi cerca le parole esatte. “Siamo partiti da questi luoghi inizialmente non attrezzati.

    Era l’unico modo. Prendi la capoeira, per esempio: negli anni ‘90 non la conosceva nessuno.Veniva dal Brasile, era una cosa nuova, e nessuna palestra commerciale si voleva prendere il rischio di dare spazio a una disciplina che non si capiva manco troppo bene che era, e che probabilmente non avrebbe garantito molti introiti.”

    Nel racconto degli esordi ci tiene a sottolineare come le palestre popolari siano nate da un bisogno, prima di tutto, di chi lo sport lo praticava, di professionisti esclusi dal circuito commerciale o comunque relegati ai suoi margini, e di come questo bisogno abbia trovato casa negli spazi sociali. Soprattutto nelle periferie, dove decine di ragazzi “non facevano niente perché non c’era nulla da fare, semplicemente. E allora alcuni compagni si sono detti: troviamoglielo noi qualcosa da fare, no? Facciamogli fare sport, facciamo una palestra”.

    Chi ha avuto l’intuizione iniziale ha presto capito che lo sport, la riappropiazione del corpo attraverso l’apprendimento di una disciplina sportiva, era un modo naturale di costruire una socialità differente e aggregare identità disperse. È così che dal Forte Prenestino e dal Corto Circuito, pionieri di questa pratica, sono nate esperienze simili moltiplicando le palestre popolari in tutta la città. Oggi queste esperienze formano una rete, ricca e consolidata, che offre corsi di numerose discipline, a volte poco conosciute e molto innovative, insegnate da istruttori qualificati; il tutto a prezzi accessibili o comunque contrattabili.

    Una di queste palestre è Scup, che nasce proprio da un manipolo di istruttori sportivi misti a operatori culturali e professionisti vari. L’idea era quella di dare vita a uno spazio che fosse in grado di operare a tutto tondo per il benessere delle persone, e dunque sviluppare in sinergia i tre capisaldi della socialità autogestita romana: la cucina, la biblioteca e ovviamente la palestra.

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    Giuliano c’è stato sin dall’inizio, e sostiene che “sport e salute sono intimamente legati. Oggi pensiamo tutto a compartimenti stagni: un conto è il medico, gli ospedali, la sanità, un altro è l’attività fisica o la palestra, che non è prevista nei ticket perché è considerata un lusso non necessario. Ma lo sport può incidere sul benessere fisico e mentale delle persone in mille modi differenti”, soprattutto in un momento storico in cui i tagli progressivi allo stato sociale incido fortemente sul diritto alla salute.

    Agli inizi degli anni 2000, la capoeira è diventata una disciplina di moda, ma Giuliano ha continuato a insegnare nelle palestre popolari. La sua scelta è intimamente legata all’attitudine di questi luoghi, perché “solo nelle palestre popolari lo sport è considerato parte integrante della cultura di un individuo e di una comunità, e non semplicemente una fonte di guadagno o di svago”. È un tassello fondamentale della vivibilità di una città, un’alternativa concreta alle carenze economiche, psicologiche e fisiche che viviamo sulla nostra pelle.

    Non è un caso che Scup si definisca uno spazio polifunzionale: la polifunzionalità sta nel circolo virtuoso fra le discipline sportive, le attività culturali e l’osteria popolare ispirata a una cultura alimentare genuina, che con la sua accessibilità e la sua convivialità informale permette di rompere gli steccati del lavoro, dell’età, della provenienza. Un posto dove sia possibile ritrovarsi a cena e lasciarsi contagiare dalle attività del vicino, in un costante scambio di suggestioni e competenze.

    “Per certi versi i meccanismi dell’autogestione sono simili alla roda di capoeira: ci sono io, l’istruttore, il più esperto nella disciplina, ma poi c’è la musica, dove sono altri a spiccare, o il cibo, quando capita di fare una cena brasiliana, oppure un evento di promozione, dove chi ha esperienza organizzativa o di elaborazione grafica o altre attitudini diventa centrale al successo della serata. Alla fine, la roda di capoeira è una comunità di pari dove ciascuno impara dagli altri qualcosa ogni giorno, in un confronto continuo.”

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    Il gruppo diventa così un prolungamento della propria individualità in una dimensione diversa. L’ingresso nella comunità di capoeiristi si chiama batezado proprio perché si nasce a una nuova vita, una vita insieme, e come in un battesimo vero e proprio si riceve un nome: Giuliano ad esempio è Elétrico, e lo è davvero, snello e guizzante come una scarica di energia; ma poi ci sono Panda, Cobra, Macaco, Aguaviva, Profesor, Biriba, Diamante e così via, ciascuno e ciascuna con il proprio portato di esperienze riconosciuto e aggregato in un grande evento annuale, dove un Mestre viaggia dal Brasile fino in Italia per accogliere i nuovi arrivati.

    Perché tutto questo funzioni è necessario però sviluppare un’economia dell’ascolto in grado di ricevere gli stimoli che provengono dall’esterno ed elaborarli a livello personale e collettivo, uscendo fuori dal meccanismo della delega.

    Come nella roda, così a Scup. Essere nati da una palestra popolare ci ha insegnato forse soprattutto questo, ad amalgamarci come comunità, perché gli sport che pratichiamo spesso travalicano i confini puramente fisici della loro disciplina ed esondano nella vita quotidiana, educandoci con le loro pratiche alla relazione con gli altri.

    Mentre allineo i libri nelle mensole di legno di una libreria sbilenca che ci siamo portati appresso a mò di biblioteca ambulante, la piazza si è animata. I passanti si fermano a osservare le forme di tai chi e i salti di parkour, e qualcuno si avvicina al banchetto per chiedere informazioni. Sto giusto spiegando che Scup è l’acronimo di Sport e Cultura Popolare quando noto che Giuliano sta per essere nuovamente risucchiato nella frenesia dei preparativi. Mi fa un cenno con la mano, come a dire: “a dopo”. Io lo guardo e gli sorrido, sperando che mi veda mentre si allontana.

    Note