L’odio paga, ma non ci conviene

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    La retorica violenta e rancorosa attrae, soprattutto su internet dove crea facilmente dibattito e quindi engagement. Ma così si rischia di calcificare la comunicazione sul disprezzo e l’astio: finiamo per dare priorità a ciò che detestiamo, o attorno a cui può esprimersi del disaccordo, tralasciando ciò che apprezziamo e ciò che non facilita sentimenti polarizzati. Il risultato è una società che appare perennemente in conflitto, un “mondo percepito” misurato sull’odio.

    I motivi di questo andazzo, di questo amore per le cosiddette “flame wars”, vengono innanzitutto dalle caratteristiche strutturali dei mezzi che utilizziamo per comunicare quotidianamente. Online la comunicazione è indiretta, mediata e spesso diffusa in forma scritta, con la conseguenza che vengono a mancare alcune parti importanti delle possibilità linguistiche di chi si esprime, a partire dal linguaggio corporeo – soprattutto facciale – come anche rimane insondabile la tonalità di ciò che viene enunciato. Il litigio è una facile soluzione ai dubbi interpretativi figli di queste mancanze. Così a discapito della complessità degli argomenti, si polarizzano le opinioni e ci si lascia andare al litigio. La priorità diventa quella di differenziarsi, rendere la propria posizione netta distinguendola il più possibile da quella del proprio interlocutore.

    Il linguaggio polemico, soprattutto quello più astioso, sopperisce quindi alle assenze imposte dalla comunicazione via web riempiendola di tensione e facendo in modo che vengano a galla le contrapposizioni. E il trend riassumibile nel motto “non la penso come te” funziona. Si tratta di un circolo virtuoso sia economicamente, attraverso l’engagement della polemica, che culturalmente visto che le identità sociali si creano proprio per contrapposizione: il fascismo si presentò come anti-comunista, così come una definizione negativa è presente nelle identità dei più recenti populismi “anti-casta”. Certo distinguersi è importante, differenziarsi è il primo passo per avere una posizione propria, ma se si rimane alla definizione negativa, manca la parte matura, quella propositiva, essenziale quando ci si esprime in un sistema culturale complesso.

    Non è un caso che oggi si parli spesso di hatespeech, di odiatori online e di insultatori seriali. Si tratta sovente di persone ingenue: illuse che il mondo virtuale non sia reale, o che la libertà intrinseca di internet sia in fondo una garanzia di assoluta impunità.

    Se ne è parlato con più insistenza quando ci si è chiesti come poter intervenire per evitare questa deriva, che è linguistica, ma anche sociale. Gli approcci possibili sono svariati, c’è chi, come Enrico Mentana, risponde in malo modo ai suoi detrattori; e chi, come Laura Boldrini, pubblica nomi e cognomi degli insultanti.

    In un certo senso, però, questa tendenza “violenta” è un’evoluzione naturale del linguaggio comune, che come ogni altro prodotto culturale si adatta (come una ciambella prende forma dal suo stampo) alla forma dei mezzi che caratterizzano un’epoca storica. La nostra, va da sé, è caratterizzata da internet: e quindi da una diffusione dei mezzi utili a esprimersi pubblicamente, dalla mancanza di filtri da porre alla diffusione di contenuti oltre che dal celebre clickbait.

    L’isotopia semantica dell’astio è arrivata a caratterizzare stilisticamente il modo in cui si interviene sui social, il sarcasmo e l’ironia graffiante sono ormai così diffusi da poter essere considerati onnipresenti. Ma non è solo lo stile a essere influenzato dalla convenienza dello scontro, spesso sono i contenuti stessi a esistere per il solo motivo di attrarre click attraverso la polemica. È emblematico il caso della rivista di geopolitica Third World Quarterly, che ha pubblicato un articolo intitolato The case for colonialism (“In difesa del colonialismo”) causando un acceso dibattito all’interno della comunità scientifica e ricevendo attenzioni sia per via del contenuto che per il sospetto che fosse stato pubblicato proprio col solo obiettivo di fare clickbait. Recentemente, in Italia, c’è stato un caso simile, quello di un articolo che in modo pressapochista e generalizzante trattava la questione del veganesimo, riducendo a frecciata schernitrice una questione di enorme complessità come quella della sostenibilità ambientale ed etica di una certa scelta alimentare. Il dibattito intorno all’articolo “anti-vegani” vi è stato in primo luogo per via del suo contenuto, ma anche in risposta all’operazione comunicativa dell’autore, volta, secondo molti, a creare polemica guadagnando dalla diffusione mediatica che ne sarebbe derivata.

    Eppure questo mix di opinioni e personal branding rischia di inficiare la qualità della comunicazione stessa. La parole saussuriana rischia di piegarsi all’hatespeech, che a sua volta fomenta la discordia e l’incomprensione. Insomma, le questioni di efficienza, più vicine al marketing che all’efficacia verso cui tende naturalmente la ricerca della comprensione comunicativa, potrebbero prendere il sopravvento. E se è vero che il trend astioso conviene economicamente e per la definizione negativa di sé, la comprensione tra singoli e tra gruppi ne esce sistematicamente azzoppata. Ed è su questioni come la comunicazione e la coesione sociale che si misura la tenuta democratica di un sistema sociale e politico.

    Invertire il trend è difficile proprio perché si tratterebbe di ignorare l’efficacia della polemica, ma una consapevole moderazione dello stile comunicativo potrebbe essere il modo in cui limitare i danni, rallentare la polarizzazione delle opinioni e assottigliare gli oramai spessi muri delle nostre bolle di filtraggio. Una certa misura nell’utilizzare lo strumento polemico potrebbe permettere di trovare un equilibrio tra il comunicare funzionalmente alla quantità di sguardi che si cerca ad attrarre e i principi di chiarezza, carità e sincerità che rimangono i cardini insostituibili della prassi comunicativa.

    Qualche giorno fa, riflettendo su questi argomenti, facevo notare ad un amico su facebook, che condivideva un articolo che lui riteneva essere indegno, che in quel modo rischiava di dedicare troppe energie a ciò che disprezza. Sottolineavo anche che (per via del funzionamento dei social che premiano i post più commentati) pubblicando quell’articolo, stava facendo in modo che quello stesso articolo venisse letto e condiviso. Davo quel consiglio sinceramente. Ironia della sorte, mi sono reso conto solo successivamente che anch’io, commentando pubblicamente, stavo facendo in modo che quell’articolo – polemico, ovviamente – venisse letto di più. Allora forse la soluzione, oltre che nella pacatezza, sta nell’utilizzare con grande accortezza gli strumenti comunicativi tenendone a mente i meccanismi e i difetti. Niente di facile, certo, ma l’alternativa da scongiurare, vale la pena ricordarlo, è l’acuirsi del sospetto generalizzato e del litigio perenne.

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