Il fattore umano dell’intelligence

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    Paradossalmente, più aumenta l’impatto delle nuove tecnologie e la quantità delle informazioni e più diventa necessario il fattore umano dell’intelligence per contestualizzarle. In questa prospettiva, il metodo scientifico è uno strumento indispensabile per avvicinarsi alla comprensione dei fatti. Sul tema esiste una vasta letteratura in cui si pone il problema di quale metodo scientifico si debba applicare all’intelligence, poiché ne esistono diversi tipi, alcuni alternativi tra loro.

    Mediante l’esame di svariate fonti di informazioni, l’agente di intelligence dovrebbe essere in grado di impiegare «un metodo per trasformare le informazioni in conoscenza», utilizzando il metodo scientifico del tentativo e dell’errore, procedendo per congetture e confutazioni, ipotesi e critiche, pronto a cambiare strategia e opinione di fronte alle imprecisioni, alimentando, tramite l’esperienza e l’istruzione, una mentalità aperta ai cambiamenti.

    Pubblichiamo un estratto da Cyber Intelligence di Mario Caligiuri (Donzelli)

    Si impone per l’intelligence «l’esigenza di essere scientifici, non tanto […] nel senso di essere portatori di una scienza esatta, ma come metodo, cioè continuare coerentemente a porre in dubbio ogni cosa, continuare a verificare, essere soprattutto pronti a cambiare idea». Dal mondo dell’incertezza del passato ci troviamo oggi nell’epoca delle probabilità, anche se è «molto difficile prevedere ragionevolmente il futuro: siamo infatti nella condizione paradossale in cui gli eventi più importanti […] necessariamente ci sfuggono».

    L’intelligence, e la cyber intelligence in particolare, vanno sempre più declinate nell’ambito umano, con regole efficaci ed eticamente corrette, consapevoli delle potenzialità e dei limiti delle tecnologie. Usando popolari riferimenti cinematografici, potremmo dire che assistiamo alla rivalutazione dell’agente analista, che usa le fonti e le integra definendo gli scenari, nei confronti dell’agente operativo: ruoli romanzati nelle figure letterarie e cinematografiche rispettivamente del Condor (e più ancora di george Smiley) e di James bond (come pure, in tono minore, Harry Palmer).

    Ritorna pertanto alla ribalta l’elemento più antico dell’intelligence, quello umano, però orientato contemporaneamente all’analisi e all’operatività, come gli attentati del 2015 a Parigi e quelli del 2016 Bruxelles confermano. Possiamo, in teoria, disporre delle più raffinate tecniche di raccolta delle informazioni ma, se queste non vengono analizzate e interpretate tempestivamente per agire sul campo, tale complessa attività non fornirà alcun vantaggio, risultando anzi costosa e controproducente.

    Lo studio delle fonti aperte è sempre stata un’attività privilegiata delle agenzie di intelligence di tutto il mondo. Durante la guerra fredda eccelleva la Stasi, il servizio segreto della Germania dell’est, che poteva contare su novantamila agenti effettivi e oltre duecentomila collaboratori. guidata da professionisti leggendari, come Markus Wolf, e organizzata in modo pervasivo, come documentano film di notevole suggestione (si pensi a Le vite degli altri, di Florian Henckel von Donnersmarck, vincitore nel 2006 del premio Oscar come miglior film straniero), la Stasi svolgeva un ruolo estremamente delicato nel controllo della società, ma, in ogni caso, non ha potuto impedire il crollo del muro di Berlino nel novembre del 1989. L’analisi delle fonti era compiuta in modo particolarmente accurato. […]

    Le vicende storiche dimostrano che, a volte, più che per la mancanza di informazioni segrete, gli eventi non vengono prevenuti perché si trascurano notizie già disponibili, alle quali però non si presta la necessaria attenzione o il dovuto approfondimento. La mancanza di efficacia e di rapidità nell’analisi delle informazioni è stata la causa dei due più drammatici e decisivi eventi delle ultime generazioni: il bombardamento di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 – che ha determinato l’entrata degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale – e l’attacco a New York dell’11 settembre 2001 – che ha scatenato la guerra al terrorismo jihadista.

    intelligence

    L’attacco alla base navale di Pearl Harbor era stato preceduto da bellicose comunicazioni della radio nipponica e da informazioni che facevano prevedere un’imminente iniziativa contro gli Stati Uniti da parte dell’impero del Sol Levante. Questi allarmi vennero sottovalutati, così come le informazioni sui fondamentalisti islamici che avrebbero compiuto gli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono.

    L’indagine del Congresso americano ha dimostrato che le informazioni per evitare gli attentati del 2001 erano tutte disponibili, ma frammentate, incomprese, elaborate in ritardo e in modo impreciso. In entrambi i casi si è ipotizzato che l’intelligence statunitense sapesse in anticipo e non sia intervenuta, in quanto c’era bisogno di episodi di enorme impatto emotivo: nel 1941 per avere il casus belli che giustificasse agli occhi dell’opinione pubblica il sostegno degli Stati Uniti in Europa a fianco dell’Inghilterra, mentre sessant’anni dopo per procedere contro l’Afghanistan e più ancora contro l’Iraq di Saddam Hussein.

    Comunque siano interpretati questi episodi, si è trattato di chiari (inevitabili?) fallimenti dell’intelligence, che hanno reso evidente l’incapacità di individuare per tempo le informazioni rilevanti. Che è quanto si sostiene oggi davanti ai recenti attentati nelle capitali europee, sconvolte dal fondamentalismo islamico.

    Queste circostanze pongono l’agente di intelligence in una condizione molto simile a quella del data scientist per il quale, come abbiamo visto, l’enorme ammontare dei big data risulta completamente inutile senza la competenza per gestire in modo adeguato algoritmi e statistiche avanzate per l’estrazione di tempestiva ed efficace conoscenza.

    L’analisi dei big data ancora oggi non è un processo totalmente automatico e non può prescindere dall’indispensabile supporto umano. Nello stesso tempo c’è bisogno di elevate competenze informatiche per l’infiltrazione nelle organizzazioni che popolano il web oscuro in modo da tentare di prevenire gli attacchi, impegno necessario per stanare la galassia del terrore informatico.

    Scrivono in proposito Eric Schmidt e Jared Cohen: «gli attacchi informatici – che includono lo spionaggio, il sabotaggio, l’infiltrazione e altre forme di aggressione – sono molto difficili da rilevare e possono causare gravi danni. Sia i gruppi terroristici sia gli Stati faranno ricorso alla guerra informatica, anche se i governi punteranno maggiormente alla raccolta d’informazioni che alla distruzione pura e semplice».

    Com’è di tutta evidenza, le cyber guerre non si combatteranno solo tra Stati, ma saranno soprattutto asimmetriche, con in campo sia nazioni che organizzazioni criminali e terroristiche, lasciando spazio a conflitti ibridi e a operazioni di spionaggio sotto mentite spoglie per fare ricadere sugli altri le proprie intenzioni (false flag).

    Quello che conta per l’agente di intelligence è individuare cosa ricercare, come analizzare e quando utilizzare le informazioni richieste. Informazioni che avranno sempre più la forma di dati digitali e big data e che l’agente dovrà essere in grado di reperire appropriatamente.

    Per cui, mentre per Robert D. Steele la massima abilità dell’operatore di intelligence del XXI secolo sarebbe stata quella di mettere in contatto velocemente ed efficacemente il decisore pubblico con i massimi esperti dei vari settori, oggi si potrebbe aggiungere che la capacità più preziosa dell’operatore di intelligence è quella di saper individuare, analizzare, selezionare e diffondere efficacemente l’informazione rilevante contenuta nei big data. Il moderno agente di intelligence potrebbe essere riconfigurato come un data scientist che somma spiccate competenze tecnologiche a capacità di analisi.

    C’è poi l’inconfessato problema delle regole, materia da sempre incandescente, che pone questioni rilevanti. […] Vi è la consapevolezza che le tecnologie presentino grandi potenzialità nel settore dell’intelligence. Va comunque ribadito che internet non può essere la soluzione universale ai limiti umani, né può fare disperdere facoltà e attitudini umane indispensabili quali memoria, saperi, profondità nella lettura che sono indispensabili per la comprensione della realtà.

    Al riguardo, non bisogna schierarsi né con gli angeli né con i demoni del web ma utilizzare questi strumenti ponendo al centro i diritti e i valori della persona e finalizzandoli a obiettivi d’interesse generale.

    Bisogna far comprendere alla pubblica opinione, ma soprattutto alla classe dirigente, che, lungi dal costituire un insieme di «arti infernali», l’intelligence rappresenta uno strumento fondamentale di prevenzione dei conflitti. Con indubbi benefici umani ed economici.

    Infine, c’è il tema della formazione, che deve essere fortemente innovativa ma sempre partendo dall’istruzione tradizionale di base, che va ampliata con nuovi ed efficaci metodi, evitando illusioni pedagogiche. La complessità dei temi trattati, dai big data alla cyber intelligence, evidenzia ancora una volta l’importanza del fattore umano. In Skyfall, film della saga di James Bond, c’è un dialogo illuminante che si svolge in un museo davanti a un quadro tra Q, l’inventore delle innovazioni tecnologiche più avanzate – per la prima volta interpretato da un giovanissimo agente –, e il maturo James Bond. […]

    Rimane sullo sfondo un aspetto nodale, sul quale, seppur noto, a mio giudizio non si riflette ancora abbastanza: mi riferisco all’ibridazione tra uomo e macchina. Lo scienziato francese Joël de Rosnay arriva persino a prevedere che il cyber spazio si fonderà con la popolazione reale fino alla creazione del cibionte, metafora che indica un macrorganismo costituito da uomini delle città, centri informatici, computer e macchine.

    L’evoluzione sta portando alla contrazione dello spazio- tempo così come finora li abbiamo conosciuti e questo può potenzialmente fare nascere il cibionte. De Rosnay parla di «homo symbioticus» come necessaria evoluzione dell’homo sapiens «che sa di sapere», dell’homo faber «che costruisce degli utensili che si sono evoluti fino alle macchine intorno a noi» e dell’homo oeconomicus «che è ciò che siamo diventati possedendo e godendo beni e servizi in modo egoista». Le industrie del futuro, quelle dell’informazione, dovranno consentire la riduzione delle differenze tra gli uomini del pianeta, dove la stragrande maggioranza vive condizioni di estrema difficoltà rispetto a una minoranza agiata. Secondo De Rosnay, non saranno le tecnologie a prevalere ma saranno le scelte degli uomini a tracciare la strada verso il superamento della diseguaglianza. […]

    Nella visione dello studioso francese, informatica e biologia convergono ed emergono nuovi saperi che vanno utilizzati per il progresso dell’umanità. In tale contesto la metafora del cibionte rappresenta un nuovo orizzonte umano, una «promessa nascente di una solidarietà planetaria tra gli uomini». Si enuclea il concetto di intelligenza collettiva, che secondo Pierre Lévy, valorizza le competenze poiché è diffusa, ottimizzata, organizzata e fruibile in tempo reale.

    Ciò significa che gli educatori debbano rivedere il proprio ruolo, poiché sul piano dell’istruzione si registra una prospettiva inquietante, che oggi rischia di portare ad una vera e propria incomunicabilità tra insegnanti ed allievi. Un’altra lettura del cibionte ci viene fornita da Giuseppe O. Longo, che invece mette in guardia da questa eccessiva compressione dei tempi, operata da tecnologie che contengono realtà immense e opposte.

    Viviamo in un ambiente in cui i punti di riferimento incontrovertibili non esistono più, mancano questi ancoraggi della mente. L’affidarsi alle macchine produce sconvolgenti effetti per gli uomini a livello cerebrale, per cui questa dipendenza così stretta comporta non solo conseguenze inedite ma anche rischi incalcolabili. Tutto ciò pone all’intelligence problemi non ancora approfonditi e che potrebbero determinare suggestivi sviluppi negli ambiti psicologici e parapsicologici.

    Note