Nel momento in cui, nel gennaio del 2020, esplode una pandemia globale, la connessione tra identità e salute emerge in modo virale. La salute, sin dai primi momenti della vita, è cruciale per la costituzione della nostra base psicofisica e relazionale.
Nel rapporto col proprio corpo e con i suoi malanni si radica fin da piccoli qualcosa di intangibile, un desiderio innato di conservazione, nella lotta obbligata di ogni vivente per l’esistenza, ma anche qualcosa di più essenziale, il senso al tempo stesso di una presenza e di una dislocazione, di un poter essere, di un desiderio che si nasconde nel fatto stesso di essere vivi.
Proprio per questo, esplorare e ampliare il significato di salute ci aiuta anche a ripensare l’identità e la sua crisi.
La parola identità sembra tuttavia rimandare anche a ciò che rimane identico a sé stesso, a un’illusione di permanenza, mentre nelle appartenenze sembra giocarsi uno scarto tra dimensione individuale e collettiva, tra ciò che ereditiamo e ciò che scopriamo, in una possibilità di confronto, cambiamento, invenzione, al di là delle identificazioni iniziali.
Se sono le relazioni e le forme dell’attaccamento a strutturarci, a farci dire io, l’identità va pensata per paradossi perché rimanda sia all’esperienza della dipendenza (là dove il desiderio e l’influenza altrui troppo ci condizionano) che alla possibilità della liberazione. Dove si colloca il confine tra ciò che ci ha condizionati e ciò che ci libera, che ci aiuta a ‘elaborare’ i cambiamenti, i lutti, le separazioni, le malattie e a restare, nel più ampio senso del termine, vivi?
Detto altrimenti: come ripensare autonomamente ciò che ereditiamo, ciò che ci arriva dal passato, dal presente, da fuori, da dentro? Dove si nasconde la libertà di farlo?
La salute come ricerca attiva di un equilibrio ci interroga anche sulle nostre capacità di prendere posizione, e su quali risposte diamo ad avversità e ingiustizie. Sulla nostra visione politica e affettiva del mondo.
Il compito della salute pubblica dovrebbe essere quello di fornire istruzione sanitaria, vigilanza sulle condizioni igieniche e ambientali, un largo ed equo accesso alle cure mediche di base e certamente anche il controllo epidemiologico delle infezioni. Ciò può avvenire solo accrescendo i mezzi, la responsabilità e la capacità di salvaguardarsi, nel contesto di una cultura in grado di promuovere autonomia e crescita cognitiva, emotiva, relazionale: individuazione e relazione, prevenzione e cura, ma nel contesto di un mondo che genera calore e senso vitale del proprio fare e appartenere, del proprio studiare, lavorare e giocare.
Ogni eccessiva dipendenza da un apparato normativo – in ogni ambito – può invece contribuire a restringere l’autonomia vitale, a estremizzare il patologico e a determinare la perdita di altre dimensioni. Ogni complesso – diceva un mio maestro – è un complesso di potere. E quel genere di potere spegne la capacità di ribellarsi, o la rende velleitaria, induce alla resa: alla rinuncia a resistere, a prendersi cura di sé e a trovare risposte, soggettive e condivise, alla fragilità e alle difficoltà che sono parti integranti della vita e della salute. […]
Di fronte al fantasma minaccioso di una grande pandemia mortale è senza dubbio cruciale essere prudenti e prendersi buona cura di sé. Ma, come ci insegna la psicoanalisi, accedere alla cura di sé è qualcosa di ben più profondo dell’obbedienza a chi è supposto sapere.
Il problema è che la crisi radicale della modernità ci dice che la pretesa di pianificare e procedere in modo ideale verso un sovrappiù (di progresso, di beni materiali, di cultura) è fallita. E una delle sfide emergenti sarà quella di capire se siamo pronti a far fronte intelligentemente a una catastrofe, se per catastrofe intendiamo un evento che interrompe quasi totalmente il funzionamento del mondo, di questo tessuto di relazioni e flussi che ci fa essere e divenire. […]
Siamo entrati in una fase in cui ogni fattore di stress ne genera altri in una tendenza al cedimento sincronico
La sfida cruciale che si pone è anche quella della re-invenzione di un’etica collettiva, condivisa. Da questo punto di vista è il contrario dell’isolamento individualista che sollecita semplicemente a salvare la propria pelle.
Tuttavia il genere di paura che oggi ci invita al cambiamento tocca dimensioni più profonde, non solo la propria morte individuale ma la fine del nostro modo di vivere, se non addirittura l’estinzione della specie e la rovina del pianeta. In questo impasto emerge forse in nuce un inconscio ecologico, che ci dice che da questa nostra collusione è stato violato e ci chiede di riequilibrare le cose?
A modo suo lo ha scritto molto efficacemente la poetessa Mariangela Gualtieri […]
La tentazione della chiusura, della benda sugli occhi e del bavaglio sulla bocca, del ritiro identitario, delle scelte securitarie, si confronta con il desiderio di responsabilità, di partecipazione solidale che desidera ripensare eticamente tutto quanto. Anche a partire da ciò che oggi si gioca sul corpo e sui corpi.
Per questo, forse grazie allo sforzo di non cedere sul principio della tenuta democratica, l’oscillazione italiana delle comunicazioni istituzionali tra il vago e il normativo, alle prese del resto con un iniziale e fisiologico non sapere ancora, che è del resto proprio della scienza, non sembra aver indebolito le difese psichiche più sane: la capacità di prendersi cura, di gioire della vita e delle relazioni, di attraversare i lutti (e quale lutto radicale implica questa crisi per il modo in cui abbiamo trattato il mondo!), di nutrire la resilienza e la fiducia.
Di fronte alla paura che la complessità e il cambiamento generano, l’identità deve a costruire attivamente appartenenza
Se invece si finisse per indebolire la partecipazione etica collettiva la cosa non sarebbe priva di conseguenze perché è sul sentimento corporeo del sé come luogo di resistenza attiva che si gioca buona parte della partita, anche per il futuro.
Di fronte alla paura che la complessità e il cambiamento generano, l’identità – se vuol evitare derive ansiogene – è costretta a uscire dal suo guscio protettivo e a costruire attivamente appartenenza, a fare spazio a nuove esperienze di famiglia, comunità, e solidarietà, per esempio creando nuove parentele interspecie con il vivente (“making kin” come dice Donna Haraway), ben oltre l’attuale culto dell’animale domestico (che ha la sua ombra nell’orrore dei campi di allevamento intensivo), per non parlare del crescente attaccamento generazionale – un po’ autistico – ai gadget tecnologici. […]
Una panoramica dei diversi modi di considerare l’epidemia di coronavirus in Italia (aggiornato nel marzo 2020) ci permette di accennare a quante diverse prospettive possano entrare in gioco nell’analisi di un fenomeno, e di come il pregiudizio disciplinare e culturale, così come ogni prematura sintesi, possa accentuare la parzialità di ogni prospettiva.
C’è un sintomo ansiogeno anche nel calderone di interpretazioni e proposte che affollano i giornali e i social, per esempio nella ricerca di una causa unica, catastrofica o rassicurante, dalle ipotesi complottiste alla riduzione della crisi alla sola dimensione biomedica.
Se lo collochiamo nel quadrante fenomenologico dei vissuti l’epidemia di nCoV-19 (o Sars-CoV-2) può essere considerata dal punto di vista di chi è stato contagiato, che include i sintomi fisici e le sindromi respiratorie più o meno gravi che possono evolvere in polmoniti. La fenomenologia dei vissuti individuali non può però non tener presente anche i sintomi psicologici e psicosociali legati al timore del contagio, alla difficoltà di distinguere i sintomi da quelli di una comune influenza, alla consapevolezza che non esistono vaccini e che i dispositivi immunitari volti a impedire il diffondersi del virus potrebbero rivelarsi inefficaci, all’impatto simbolico dell’inedita segregazione militare di intere cittadine e così via. […]
La governance dell’emergenza coronavirus sta evidenziando la miopia della politica sanitaria degli anni passati, volta a privatizzare la sanità (i trentasette miliardi tagliati alla sanità pubblica in Italia negli ultimi dieci anni, la chiusura di numerosi reparti ospedalieri, l’emigrazione dei giovani medici che si specializzano all’estero).
L’attacco al welfare, non solo in Italia, ha determinato sia il sovraccarico del personale medico e delle strutture che nuove forme di disuguaglianza nei sistemi di prevenzione e cura. La spinta a privatizzare la sanità e le carenze di sanità pubblica in alcuni paesi diventano evidente possibile concausa di contagio (negli Stati Uniti quasi trenta milioni di cittadini sono privi di assicurazione e potrebbero diventare un esplosivo focolaio, già si dibatte su chi pagherà il conto).
Per emanare i provvedimenti corretti, oggi come ieri, le autorità pubbliche si affidano al giudizio medico. E tuttavia è quasi inevitabile che vi siano posizioni diverse dato che la medicina è anche ricerca di ciò che ancora non conosciamo.
Tuttavia, l’emergenza ha permesso di osservare qualcosa che era rimasto a lungo invisibile e che la crisi attiva: il coraggio dei medici e degli infermieri. Le condizioni disumane di lavoro per carenza di personale. Il desiderio di molti cittadini di fare i conti in modo più maturo e affettivo con l’emergenza.
Viene alla luce una consapevolezza ampiamente condivisa che immaginare una ‘buona vita’ (e una ‘salute’), in un ambiente strutturalmente sempre più fragile, implichi un cambio radicale di paradigma.
Le esigenze della prevenzione epidemiologica e soprattutto il timore del collasso della sanità pubblica si scontrano, d’altronde, con le conseguenze economiche della paralisi ed evidenziano la possibile collisione tra due paradigmi, quello del sistema sanitario pubblico, in grave deficit di risorse, e quello economico che esige l’obbedienza alla legge della crescita illimitata. […]
La vulnerabilità (individuale, psicosociale, economica), che il coronavirus rivela, attiva anche un desiderio di resistere e rinnovarsi per imparare a vivere nelle rovine del capitalismo, nel desiderio di nuove vicinanze e passioni. Ridefinisce le priorità, ci impegna a vivere bene e a onorarla questa vita, difendendo il futuro delle generazioni a venire, nel riconoscimento crescente dell’interdipendenza del vivente. […]
Abbiamo già detto che l’identità fa problema quando ci interpella nei momenti di crisi. Sul piano individuale (e non solo), il contributo radicale della critica psicoanalitica è stato quello di dimostrare che l’Io non è padrone in casa propria.
Il soggetto non coincide con il cogito, ma è abitato da più istanze: affettive, etiche, critiche, pulsionali, cognitive, erotiche, aggressive. La salute mentale non consiste in una monarchia assoluta dell’Io, ma in una democrazia affettiva.
C’è un parlamento interno a cui spetta trovare un equilibrio che non è mai assicurato una volta per tutte. Si può anzi considerare il disagio psichico come il risultato di una grave difficoltà nell’armonizzare le diverse aree della psiche, nella misura in cui una di queste si vuole imporre sulle altre.
Sapremo applicare la lezione della pandemia ad altre aree della nostra vita comune?
Un problema di fondo è che l’astrazione ha sostituito completamente quell’empatia immaginativa che per secoli è stata pensata come fonte di conoscenza. […]
Di un virus in fondo vediamo la forma: un meme genetico che bada a replicarsi ciecamente senza apparente riguardo per ciò che divora. Tuttavia il resto della natura reagisce, si adatta, compensa, trova nuove forme e nuovi equilibri: come tutto ciò accade ci sfugge ma la vita sulla terra continua da milioni di anni.
Tuttavia la forma del virus sarebbe di per sé quanto di più cannibale possiamo immaginare: divora ciecamente. Forse anche questo è un aspetto della vita che ci rispecchia – puro cieco istinto di autoconservazione; mi ricorda la reazione aggressiva di molto greci impoveriti di fronte all’arrivo dei siriani, ancor più poveri, che fuggono dalla distruzione di tutto: «Immunità, immunità!»
Torno alla questione del ‘vedere’ o meglio del ‘voler vedere’. Siamo, come dice Amitav Ghosh, afflitti da una grande cecità rispetto alla portata di quanto sta accadendo, rispetto alle dimensioni della crisi ambientale che minaccia la Terra.
Anche se consapevoli di disuguaglianze e ingiustizie siamo attaccati al nostro confortevole stile di vita. È questo a volte che ci spinge a non guardare: come chi mangia carne non sta a pensare a come sia stato ucciso l’animale, così, per evitare che il nostro comfort venga turbato, non ci interessa vedere quali dispositivi respingano i migranti, quali abusi vengano compiuti nei campi libici, a quali abomini giuri- dici giungano le nazioni e l’istituzione europea per “difendere il nostro modo di vita”, quali collusioni con dittatori e potentati per proteggere le frontiere da chi scappa dalla guerra. […]
Da quanto rilevato sin qui, non è proprio possibile ridurre la crisi a una singola causa.Vi sono allora forse due modi legittimi di guardarla. Entrambi hanno a che fare con l’idea di un punto critico. Il capitalismo ha avuto una sua fase iniziale di espansione durata un paio di secoli e poi una fase di conservazione (dal 1979 ai primi anni 2000).
Oggi con la dipendenza estrema da fonti energetiche non rinnovabili e dalle interazioni tra mercato e finanza – da cui dipendono la sincronizzazione, l’interdipendenza e la complessità di tutto il sistema – siamo entrati in una fase in cui ogni fattore di stress ne genera altri in una sorta di tendenza al cedimento sincronico. Il virus rivela queste intrinseche vulnerabilità della civiltà industriale e i limiti del paradigma che la fonda.
Ma l’idea di massa critica può anche essere vista da un’altra prospettiva: il numero di umani che non è più disposto a tollerare questo modello di rapporto con la Terra e con la vita e che è aumentato in modo esponenziale.
Sta a noi capire come curarci da una malattia che in realtà è autoimmune perché divora la nostra umanità – capire in che modo il virus e il “meme” umano non di- vorino in modo distruttivo tutto il vivente.
E forse, oggi, di fronte allo spettro della pandemia veniamo messi in contatto, su un’ottava diversa, con le dissonanze tragiche che si ripetono nel mondo, guerre, dislocazioni, violenze.
Dissonanze che ridefiniscono così la questione dell’identità e dell’appartenenza: come sceglieremo di vivere d’ora in poi? Sapremo applicare la lezione della pandemia ad altre aree della nostra vita comune? Da questa scelta consapevole e coraggiosa potrebbe dipendere anche la nostra capacità di riparare e avere un avvenire.