Chi rimarrà ad abitare il mondo reale?

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    A dodici anni, mia mamma mi proibiva di addentrarmi nei meandri di msn. Diceva che mi sarei persa dietro cose inutili, e che avrei dovuto, piuttosto, pensare a studiare. A tredici, bandiva la possibilità della mia iscrizione a Facebook. Chiosava: là sopra, non sai mai davvero con chi parli. A quattordici, non poteva immaginare le chat che intrattenevo con gli account che, da dietro le facce pixelate dei robottini di Habbo, mi domandavano quanti anni avessi. Mia nonna mi ha sempre chiesto cos’è che stessi a guardare su quel telefono tutto il giorno; perché non pensavo, piuttosto, a qualcosa di serio. Avrei dovuto dirle: nonna, guarda che la vita online va oltre la semplice distrazione. Perché un conto è distrarsi – anche quello, dopo un po’, viene a noia – un altro è immergersi a ogni secondo in una vita nuova. Infinite esistenze parallele su cui ci sembra di esercitare maggiore controllo rispetto a quelle fisiche, e sociali. Tanto che, ormai, è la vita carne-e-ossa a doversi distinguere da quella digitale, non il contrario: IRL, si chiama, sigla per in real life, da specificare nel discorso per segnalare l’universo dal quale si parla. A nonna, questa cosa, avrebbe fatto tremare le budella. La nuova preminenza della vita digitale si spiega in realtà con una motivazione semplice: una piattaforma ha un certo funzionamento. Ne conosciamo le regole e i punti deboli, quelli che possiamo piegare a nostro favore. La realtà, da questo punto di vista, rimane una nebulosa.

    Nonna, guarda che la vita online va oltre la semplice distrazione

    Che siano giochi di ruolo (Second Life, il citato Habbo, The Sims, e molti altri) o social network, l’escapismo digitale ha sempre, però, cercato di sublimare la sua distanza intrinseca dal piano dei corpi. L’ha fatto – e continua a farlo – promettendo connessioni infinite con altri esseri umani, e nuove funzionalità volte a renderci sempre più “chi siamo”, anche online. Come le dating app, nate per riaffermare il cuore del nostro essere e far breccia in quello, ben esposto e descritto tramite selezioni di gusti e interessi, di qualcun altro (però, quando li incontri, che difficile trovare qualcosa di cui parlare senza lo schermo di mezzo). Insomma: a ogni nuova “funzione di realtà”, le applicazioni digitali ci donano una nuova identità, risultato che avrebbe fatto decisamente gola ai Modernisti del primo Novecento. Che cosa avrei dunque dovuto rispondere a mia nonna, alla richiesta di spiegazione per lo strano fascino che provavo verso il mondo online? «Niente». Io, online, ci sto a fare un bel niente.

    Difficile accorgersi, nella fretta di tornare a puntare gli occhi sullo schermo, di quanto la risposta sia sincera: quando evadiamo socialmente su internet, ci trasferiamo in qualcosa che non esiste; che, al collasso dei server, potrebbe non esistere. Ma questo non fa novità, anzi, il discorso è in giro da parecchi anni. Almeno da quando, appunto, mamma mi ricordava di non buttare troppo tempo con internet o i videogame, di concentrarmi su quello che esisteva “davvero”. Ciò che invece appartiene agli sviluppi recenti della galassia-internet è una certa divisione generazionale nelle modalità di dialogo tra digitale e reale, sul modo di porsi verso questo “niente” sempre più invadente. E, come spesso accade, le differenze più interessanti si ravvisano nel distinguo Millennial-GenZ.

    Da una parte, infatti, i Millennial sfruttano le molteplici possibilità sociali di internet con una strategia alla Second Life. Proprio come nel celebre apripista delle “vite parallele” digitali, il Millennial si scinde, crea un proprio avatar, e lo mimetizza di volta in volta con i codici di comportamento dei diversi spazi online che va a frequentare. Ne deriva una certa schizofrenia, più o meno accentuata, tra l’essere e l’essere online, tra le persone frequentate sulla rete e giù di rete. L’utente è comunque in media attivo, proattivo anzi, e più desideroso di portare avanti la vita dei propri profili rispetto a quella di un ego in carne e ossa. Non stupitevi, perciò, se le risposte su Instagram saranno fulminee e quelle su Whatsapp arriveranno dopo un paio di giorni.

    Un’ottima panoramica della relazione complicata che i Millennial intrattengono con le loro identità online è data dal podcast Il sesso degli altri (di Valeria Montebello e Stefano Bises, prodotto da Spotify Studios in collaborazione con Chora Media). Parte fiction, parte ispirato a fatti realmente accaduti, il podcast presenta alcune tra le più comuni (dis)avventure da dating online di un’utente qualsiasi per mostrare come online e offline rimangano inesorabilmente separati. E di come, a volte, si trovino a cozzare. A nulla valgono le paroline suadenti, lo sfoggio in rete di personalità muscolari e sicure di sé: le maschere dell’online non riescano a interagire con le persone dell’offline. Rispondono a due modalità di gioco incompatibili: nella dimensione dei codici siamo rimpinzati di tutti i dati necessari a conoscere a menadito un altro account (segno zodiacale, cani o gatti, cibo preferito, palestra, le vuole more oppure bionde, che cosa proprio non sopporta, etc.); capisaldi che, al contrario, vengono a mancare all’incontro di persona, che non viaggia su categorie binarie. Per fortuna, il worst-case scenario si ferma di solito al mutuo imbarazzo, o a qualche aneddoto divertente da raccontare.

    I Millennial sfruttano le molteplici possibilità sociali di internet con una strategia alla Second Life

    Insomma: per i Millennial, le “vite espanse” dell’online tendono a tradursi in esperienze di iper-socialità fittizia. Al termine del viaggio, uno iato. La realtà sembra vuota, pesante e noiosa (appunto, senza distrazioni). Il picco dopaminico di internet, dove tutto accade simultaneamente, non collima con la qualità dell’esperienza IRL, ben più piana e dilatata. Da qui, la “solitudine digitale” segnalata da sempre più Millennial ed esemplificata dalla formula “sempre più connessi, sempre più soli”. Una solitudine che qui, però, si vuole immaginare come il risultato delle aspettative sul reale viziate dal digitale, e dunque disattese: ma come, online la vita sembra uno spasso, quando invece torno a fissare il muro davanti a me, bum, il vuoto. Come se nessuno mi conoscesse davvero. Allora, il palliativo è l’iper-compensazione. Una fuga programmatica nel rituale sociale, ricercato per supplire al sicuro bianco-nero di internet con altrettanti punti fermi: la birretta puntuale al baretto con la gang, la paglietta sopra il cafferino, il club degli spunti di sopravvivenza. Un altro podcast – anzi, un episodio – riassume puntualmente lo scenario: s’intitola “Come sopravvivere alla solitudine digitale” ed è di Survibes, recente creazione di tre Millennial/creativi digitali. Il nome è la crasi di Survival (sopravvivenza) e Vibes (vibrazioni, ovvero, “spirito di”): in altre parole, come cavarsela dopo che si è spento il computer.

    E gli Zoomer invece? La via scelta da gran parte dei nativi digitali per interfacciarsi con il reale sembra essere il diniego: ignorarlo, e per il maggior tempo possibile. Scrolling infinito a parte, lo si nota in una nuova e precisa metodologia escapista che si è fatta strada su TikTok, Stati Uniti soprattutto. Si chiama shifting, e i numeri della sua popolarità parlano chiaro: l’hashtag #shifting ha raccolto 13.9 miliardi di visualizzazioni, #realityshifting 1.9 miliardi, #shiftingrealitys 1.5 miliardi, #shiftok 1.2 miliardi, #shiftingtok 242 milioni, #realityshifting 5.6 milioni. Per comprendere lo shifting, si venga a patti con l’idea del salto di realtà. Una sorta di auto-allucinazione, si ipotizza, tecniche da applicare con costanza per catapultarsi in un universo parallelo di propria elezione durante i periodi di veglia. Non Second Life, non le dating app. La realtà alternativa scelta dagli shifter è radicale al punto da non poter essere condivisa con nessun altro. Tra le destinazioni più gettonate, l’universo narrativo di Harry Potter, dove chi shifta prende parte alla narrazione attraverso un personaggio di completa fantasia, costruito sulle logiche interne del mondo di arrivo (nel gergo, DR, desired reality, opposta alla CR, current reality).

    Per shiftare, una serie di passi consigliati da numerose guide online e shifter “anziani”, sempre su TikTok. Primo step, stendere lo script della propria DR: un set di linee-guida per preparare la mente a shiftare, ricostruendo ambiente e personaggi del film, serie TV, romanzo, fumetto o anime in cui ci si vuole “svegliare”, e sempre nei minimi dettagli. Questa fase è fondamentale: l’unica possibilità di controllo offerta allo shifter nella DR è infatti quella sul proprio personaggio, non sugli eventi in sé. Online si trovano molti template per uno script a regola d’arte, ad esempio su Wattpad. A questo punto, per prepararsi al compimento del viaggio, due escamotage principali. Il cosiddetto “Raven Method” e lo “Alice in Wonderland”: sdraiarsi a stella marina sul letto, chiudere gli occhi, contare fino a cento accompagnati da suoni e atmosfere congeniali, o immaginare di seguire il proprio personaggio preferito giù per la tana del Bianconiglio. Si avrà così la facoltà di controllare lucidamente le proprie azioni nella DR, decidendo liberamente quando rientrare nella CR di partenza, spesso ricorrendo a una parola-chiave.

    Numerosi altri trucchi galleggiano nell’estesa rete degli shifter, tradizionalmente aggregata attorno ad alcuni profili TikTok maggiori. L’Italia ne conta tre (nessun* dei quali ha risposto alla richieste di contatto inviate per approfondire di persona): @vikshifting (18.3K follower), @amira.malfoy_ (90.4K follower), @shifta.conla.black (17.3K follower). Vik non condivide la sua età con la community. Amira e Camilla, invece, hanno entrambe 17 anni. Interpolando con profili ed età di altri shifter internazionali, si conferma l’appartenenza dello shifting al cluster dei trend e/o pratiche GenZ. Aperta parentesi: ma Harry Potter non era una favola per Millennial? Chiusa.

    Online la vita sembra uno spasso, quando invece torno a fissare il muro davanti a me, bum, il vuoto

    Al termine di uno shift, i feedback sono solitamente entusiasti, e molti shifter arrivano a dichiarare di sentirsi loro stessi solo in DR. Chissà come lo giustificherei, a mia nonna, il tempo passato a shiftare. Che non sembra privo, tra l’altro, di qualche lato oscuro. Seppure per la maggior parte ipotizzati, non essendoci ancora state possibilità di verifica empirica dello stato mentale di uno shifter in azione, lo shifting sembra esporre i suoi adepti ad alcuni potenziali pericoli. Anche in questo caso, le testimonianze più vive sono quelle postate su TikTok. Scrollando nel social, si potrebbe per esempio incappare in esplosioni di pianto, tremori e annunci di Io ho chiuso con questa roba. Seppure con una generosa dose di allarmismo in apertura, Insider ha messo insieme un articolo ben centrato sulle potenziali ricadute IRL della vita da shifter. Lo spauracchio maggiore, per metà blasé, metà comprensibilmente preoccupante, deriva dalle dichiarazioni di alcuni ex-shifter, che hanno dichiarato di essersi ritirati dalla pratica in quanto diventata un pericolo per la loro salute mentale. Più esattamente, non provavano più gusto per la vita in CR. Altri, invece, raccontano di esperienze sgradevoli giunte proprio nella DR, in quanto non controllabile in forma diegetica. Entrambe le aree di testimonianza porterebbero ad associare lo shifting a un caso di droga: nel primo esempio, una dipendenza; nel secondo, un bad trip.

    Angoli ciechi a parte, il lato più affascinante dello Shiftok – il nome della comunità di shifter su TikTok – è probabilmente la natura solitaria della pratica, buona cartina tornasole per le differenze che intercorrono tra due generazioni contigue. Se infatti i Millennial ricercano socialità fuori e dentro la propria vita online, i GenZ sembrano invece apprezzare maggiormente il viaggio in solitaria. Poi se ne parla insieme, certo, ma sempre online. Quindi, su da dosso. Che il lockdown del 2020 sia in effetti riuscito a influenzare la percezione della socialità da parte degli adolescenti? Per dirla in altri termini, l’io della GenZ sembra essere molto più forte di quello dei Millennial. Per l’autoreferenzialità che dimostrano, gli Z sembrano quasi aprire un nuovo ciclo, accingendosi a diventare i boomer di domani. A differenza di genitori e (bis)nonni, però, gli Zoomer, il mare delle possibilità aperto ai loro piedi, stanno decidendo di abbandonare il reale. Tanto, le esperienze più eccitanti si vivono solo in DR. Forse, avremmo dovuto dare più fiducia collettiva ai Millennial, che sono sì sgangherati, però, per questo reale, hanno spirito di sacrificio. Oppure, come spesso, è una conclusione a falsa dicotomia. E un giorno potremo finalmente perderci in quel metaverso di niente che non riuscirei a spiegare a mia nonna, sogneremo di vivere nella nostra narrazione preferita e aspetteremo, dissociati, la decomposizione. Chissà. Io, nel caso, vado a imparare a shiftare.

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