Chi ama brucia. Un “campo” chiamato C.I.E.

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    In occasione della data milanese presso il Teatro della Contraddizione, ho intervistato Alice Conti, coordinatrice del gruppo teatrale nomade Ortika e autrice di Chi ama brucia. Discorsi al limite della Frontiera, una produzione teatrale che affronta la questione dei C.I.E. mettendo in primo piano un punto di vista originale: quello di chi ci lavora dentro.

    Quello dei C.I.E., pur essendo qualcosa che ci riguarda da molto vicino, è un tema davvero poco trattato in Italia. Uno dei rari momenti in cui questi luoghi sono tornati alla ribalta con trattazioni generaliste dei media più mainstream risale a circa un anno fa in occasione di proteste particolarmente eclatanti al loro interno: alcuni detenuti si erano cuciti le labbra per protesta.

    Tuttavia, ci racconta la Conti, “di fatto sono dei luoghi totalmente censurati da diversi punti di vista, nel senso che sia nel discorso ufficiale vengono edulcorati dal linguaggio che li descrive, o viene edulcorata e contraddetta la loro reale natura, sia da un punto di vista fisico perché vengono collocati al di fuori del paesaggio sociale, civile della città, spesso vengono costruiti proprio al di fuori della città, dopo la discarica, dopo il campo nomadi, proprio nelle periferie più estreme”.

    Domani venerdì 11 marzo Chi ama brucia in scena a Verona al Teatro Scientifico

    L’unico C.I.E. collocato in un quartiere urbano anche abbastanza popolare e popoloso è quello di Torino, ma è comunque incastonato in questo contesto come un enclave: è una zona militarizzata, recintata, e circondato da un muro che lo separa dal quartiere. È un muro totalmente anonimo, grigio, che viene spesso riverniciato per rimuovere tutte le scritte contro i C.I.E. e tornare, quindi, anonimo. Chi ci passa davanti, può tranquillamente non notarlo.

    L’acronimo si scioglie con Centro di Identificazione ed Espulsione per stranieri. Di fatto sono centri di raccolta per persone che sono state trovate senza un documento valido di soggiorno e sono lì, in attesa della loro identificazione e per l’organizzazione della loro espulsione dal territorio.

    Questo tema ci pone di fronte a una specificazione sulla definizione dell’identità del “clandestino” che Alice Conti chiarisce molto bene: “la categoria dei clandestini è molto vasta. Può essere clandestina anche una persona che è nata e cresciuta in Italia ma da genitori irregolari e che al diciottesimo anno di età, se non ha un contratto di lavoro, non può avere un permesso di soggiorno quindi diventa clandestina e paradossalmente potrebbe finire in un C.I.E. e dopo un soggiorno di un anno e mezzo essere espulsa e mandata in un Paese che non ha mai visto”.

    Parliamo, quindi, di un carcere a tutti gli effetti con l’aggravante che i detenuti di quei centri non hanno alcuna percezione del tempo che gli rimane da “scontare” e che può durare un tempo indefinito fino a un massimo di diciotto mesi. Diciotto mesi di vuoto assoluto senza possibilità alcuna di affrancamento.

    La legalità in questi luoghi è un concetto molto relativo, anzi inesistente verrebbe da dire. Qui, infatti, si agisce in deroga alla legge ordinaria come avviene in Italia in ogni “stato di eccezione”, con la differenza che qui lo stato di eccezione è perpetuo e la difesa dei più essenziali diritti umani può diventare davvero una chimera.

    I C.I.E. sono stati ideati e costruiti con la legge Turco-Napolitano nel ’98, pensata per far fronte all’emergenza immigrazione. Oggi, a quasi venti anni di distanza, sono (siamo) ancora lì. Nella prima versione si chiamavano C.P.T. (Centri di Permanenza Temporanea) e vi si poteva “soggiornare” al massimo per tre mesi, tempo utile agli Uffici Immigrazione per svolgere tutte le pratiche. Al termine di questo periodo massimo, se non si riusciva a organizzare e affrontare le pratiche, la persona veniva rilasciata. Progressivamente, le leggi che si sono succedute hanno allungato i tempi di permanenza fino ad arrivare ai diciotto mesi.

    Fanno riflettere le parole della regista di Chi ama brucia: “è di fatto un sequestro di persona. Cioè, con la deroga di eccezionalità, hanno istituito la detenzione per un reato amministrativo, che è la scadenza di un foglio, di un documento, che di fatto non è un reato, non è un fatto che nella norma comune prevedrebbe la detenzione. Sei recluso non per qualcosa che hai fatto ma per qualcosa che sei o per un foglio che ti manca. Questo è quello che li assimila ai campi di memoria storica.”

    Che cosa sono per te i C.I.E.? Da dove o da cosa nasce la tua esigenza di affrontare questo tema ed immergerti tanto da tradurlo in Chi ama brucia. Discorsi ai limiti della Frontiera, il tuo lavoro drammaturgico?

    Nasce dalla mia tesi di laurea. Sono un’antropologa e quando è arrivato il momento di sviluppare una mia ricerca, la scelta è caduta su questo argomento perché mi interessava dare uno sguardo antropologico sul noi. L’antropologia di solito si occupa dell’altro, sul costruire l’immagine dell’altro. Io ho voluto, invece, fare un’operazione inversa, cioè girare questo sguardo sul noi e sul modo in cui costruiamo l’immagine dell’altro, su quali sono i dispositivi che producono un’identità dell’altro. Il C.I.E. ne è l’esempio più importante: è un luogo dove le persone vengono recluse e guardate a vista da una serie di corpi di Polizia, militari e vari.

    Poi hai deciso di trasformare questo lavoro in altro.

    Sì. È certamente un’esigenza politica che mi ha mosso. L’ho scelto per la tesi come studio fine a se stesso, perché mi interessava come luogo, essendo un luogo fantasma nella città. È una specie di specchio riflesso, che definendo l’identità dei clandestini, definisce l’identità dei cittadini. E tutto ciò avviene sulla base di un semplice documento. Poi, in realtà, l’idea della divulgazione, cioè di trasformarlo in un prodotto divulgabile, è nata dopo.

    Chi ama brucia. Perché questo titolo?

    Chi ama brucia è una scritta che ho letto su diversi muri di Torino ed anche sui muri del C.I.E. È sostanzialmente un inno alla distruzione di questi posti. Ma è un titolo che mi rimanda anche ad altri immaginari: il bruciare la frontiera è anche un’espressione che indica gli arraga, cioè quelli che prima di partire bruciano i loro documenti per “bruciare la frontiera”, ovvero per attraversarla lasciando la loro identità dall’altra parte.

    Questo è un lavoro che si cala molto nel vissuto di chi lavora dentro i C.I.E. È un punto di vista ribaltato e quindi affascinante che costringe il pubblico a una riflessione, soprattutto emotiva, visto che si parla di una storia non altra, ma vicina al proprio sé. Cade ogni pretesto del senso di estraneità.
    Come sei riuscita a raggiungere questo risultato? Qual è stato il percorso di indagine? Il tuo personaggio, Croce, è una figura dai tratti negativi, è la frustrazione, è una figura molto cinica ma anche inconsapevole del proprio ruolo. Chi sono queste persone e che storie hanno?

    Croce è una dipendente della Croce Rossa che lavora all’interno dei C.I.E. Uno sarebbe portato a pensare “quindi è una crocerossina”. Non esattamente. Di fatto è una lavoratrice senza nessun tipo di preparazione specifica, né tantomeno una preparazione medica. È una donna che, semplicemente, è stata assunta da un’agenzia interinale per lavorare. Tutto ciò avviene assolutamente senza una selezione, senza un corso di preparazione, senza delle specifiche. Lei stessa dice “questo è un lavoro che può fare chiunque”. In sostanza è un lavoro di consegna del cibo. Ma lei è presente in tutte le fasi di accoglienza, dall’arrivo alla sistemazione dell’“ospite” nelle aree. Ha un ruolo di assistenza generale: porta il cibo, porta le medicine, lo accompagna nell’area del suo “soggiorno”, deve essere presente come figura di mediazione ogni volta che qualcuno viene spostato dalla propria area verso le palazzine dove ci sono gli uffici per le udienze o per le visite mediche. Lei è presente sempre. È una delle otto figure che devono presenziare anche alle visite mediche o psicologiche dell’”ospite”. È un ruolo molto ambiguo il suo, al limite tra l’umanitario e il securitario. Per un periodo questi dipendenti della Croce Rossa avevano proprio una divisa militare, quindi neanche si potevano distinguere visivamente dai veri e propri militari.

    Il testo di Chi ama brucia è il risultato, quindi, di un’indagine che hai svolto. Lo è fino a che punto?

    Il testo dello spettacolo è all’ottanta per cento la sbobinatura delle interviste che ho condotto con gli operatori. Non c’è niente di inventato. Anzi, l’operazione drammaturgica che ho affrontato con Chiara Zingariello, drammaturga di Ortika, va nella direzione addolcente, con la volontà di rendere ascoltabile un discorso che ho raccolto con una violenza davvero inenarrabile.

    Chi sono le persone che hai incontrato e intervistato?

    Tutte le interviste che ho condotto, naturalmente fuori dal C.I.E., sono di persone che ci erano state, nel senso che ne erano uscite o che comunque se ne volevano allontanare in qualche modo. Si tratta di persone recluse e poi scappate o rilasciate col foglio di via e che erano in attesa di trasferimento verso un altro posto; di un militare che ci aveva lavorato in passato; di due operatori della Croce Rossa.

    Lei, la Croce della realtà, l’operatrice e dipendente della Croce Rossa, come ti ha accolta? Non ti ha rifiutata? Non ha visto in te un elemento di invasione e indagine su ciò che non deve uscire da quelle mura?

    Sì, in effetti è un posto che, anche come politica interna dei lavoratori, non permette tanto di comunicare all’esterno le cose che accadono dentro. Lei in particolare è stata un contatto difficile da reperire. Quando poi finalmente l’ho incontrata, c’è stata una certa diffidenza iniziale, ma poi il dialogo è scivolato e la conversazione si è aperta a tal punto che è arrivata a parlarmi di cose che probabilmente non ha mai raccontato a nessuno.

    In effetti ci sono passaggi molto privati, della loro vita anche domestica, di quanto si possano poi caricare di frustrazioni.

    Sì. Una cosa che mi ripeteva spesso lei, ma anche gli altri miei interlocutori, è che quello che accade là dentro risulta incredibile nel momento in cui lo racconti a qualcun altro fuori da quelle mura, e risulta incredibile anche agli stessi che lo raccontano. Mentre dentro quel contesto è tutto spostato su un altro asse. Davvero è un luogo fuori dalle regole, dall’immaginazione. Un luogo dove possono accadere cose che fuori non sono pensabili.

    C.I.E.

    Come sei arrivata a pensare di costruire la storia partendo da Croce e dal suo punto di vista?

    Sono partita da una riflessione: per quel poco che si parla di questi luoghi o comunque del tema dell’immigrazione, della clandestinità e cose simili, si tende sempre a rappresentare, mettere in scena (con le immagini dei telegiornali, spesso) queste figure di disperati sopra i barconi o per la strada, oppure se ne parla come di un problema di criminalità. Lo sguardo, in ogni caso, è sempre, come dicevo, sull’altro. Lo è anche in una comunicazione che tende ad assumere toni pietistici. Per me è molto importante, invece, spostare lo sguardo da questi corpi iper-rappresentati e sui quali si costruisce un immaginario vastissimo che va dal pietistico al quasi mitologico nel senso di supereroico. Diventa importante per me, invece, girare lo sguardo sui meccanismi che creano quella persona, quella condizione sociale.

    Il C.I.E. ne è l’esempio perfetto perché è invisibile, non è raccontato ma sono le sue sbarre a creare l’animale che è dietro le sbarre. Molte persone si sono ammalate là dentro perché ci sono condizioni igieniche, umane e psicologiche terrificanti. Gli operatori commentavano dicendo che questi “ospiti” si ammalavano perché erano sporchi, quando in realtà era il luogo ad essere sporco. Altra cosa, la violenza: se tu metti delle persone, per quanto pacifiche, dietro le sbarre e gli giri intorno, gli porti il cibo e ti rapporti a loro come se fossero animali, e loro non possono fare nulla, non sanno quando usciranno, non sanno perché sono lì, sono circondate da persone disperate quanto loro, è normale che crei l’animale, che hai l’animale dietro le sbarre, certo. Ma che cos’è che li ha creati? Non la loro natura ma quel dispositivo lì. Quindi per me era importante partire da lì, dal dispositivo che noi creiamo, attraverso cui noi creiamo la clandestinità in quei termini. Perché, cos’è un clandestino? È una persona normale con un documento scaduto o non valido.

    Da queste considerazioni parte quindi la scelta di rappresentare noi, non l’ospite con la sua storia tragica.
    Roberto Beneduce, che è stato mio professore di Antropologia, ed è un etnopsichiatra di Torino che con la moglie, Simona Taliani, anch’essa docente di etnopsicologia, ha fondato il Centro Frantz Fanon un centro di ascolto psicologico per migranti vittime di tortura, ha fatto molte riflessioni antropologiche e psichiatriche sulla questione che si possono riassumere in un assunto: gli esuli sono persone normali calate in un contesto straordinario.

    Nello spettacolo appare a un certo punto una figura tragicomica, mi verrebbe da dire. È una figura che crea anche un forte stacco: la garante. Chi è? Che ruolo ha?

    È la garante dei diritti delle persone private della libertà personale. È un personaggio, anche questo, reale. La sua è una carica di nomina politica, ma non è una carica politica. Si dovrebbe occupare della difesa dei diritti umani, in particolare, però, riferiti a persone in custodia dello Stato, quindi dei carcerati. Riflettendoci ho pensato “quindi si occuperà anche delle persone che sono dentro al C.I.E.”. E sono andata a intervistarla. Lei era in carica da circa cinque anni. Le ho chiesto quali fossero le attività che svolgevano rispetto alla questione C.I.E., se ci era mai entrata, se sapesse descrivermelo. Lei mi ha detto che non ci era mai andata.

    Perché?

    Perché, mi dice, di fatto queste persone non hanno una residenza in Italia. Per dire, i carcerati acquisiscono la residenza della casa circondariale durante il periodo di detenzione. Con il C.I.E. questo non si può fare perché il C.I.E. è un posto che in teoria non è proprio sul territorio nazionale, è zona militare, è una zona gestita dal Ministero degli Interni. Quindi di fatto queste persone non esistono, sul territorio non esistono. Me lo diceva con un certo candore.

    Poi, in realtà, ho scoperto che lei qualche anno prima, quando ricopriva un’altra carica a livello regionale, ci era entrata. L’occasione era data da un avvento particolare: un detenuto era stato trovato morto. Si era creata una grossa bolla mediatica intorno alla cosa e un paio di giorni dopo lei, in vesti ufficiali, si era occupata di accompagnare dentro il C.I.E. un gruppo di giornalisti e rappresentanti di associazioni, allo scopo di tranquillizzare tutti, di dimostrare che era tutto pulito e funzionante.

    All’epoca lei non aveva una funzione di garante, ma aveva condotto comunque un insabbiamento delle reali condizioni umane in cui questi “ospiti” vivevano. Insomma, poi da garante, quando l’ho intervistata mi diceva di non sapere nulla, di non esserci mai entrata, di non essersene mai occupata. La cosa agghiacciante era il candore con cui diceva “queste persone di fatto non esistono quindi noi non ce ne occupiamo”.

    Mi ha dato lo spunto per rappresentarla come rappresentante di tutto il processo di edulcoramento, di confusione rispetto anche al linguaggio ufficiale per mimetizzare gli aspetti crudi di questo luogo. Quindi appare nello spettacolo come una specie di starlette che dopo un accadimento grave deve distrarre e mostrare che, in fondo, non è successo niente.

    In Chi ama brucia c’è un oggetto scenico protagonista: le palle da tennis. Senza fare spoiling e rivelare troppo dello spettacolo, queste che significato hanno? Cosa sono in quella realtà?

    Le palle da tennis sono le protagoniste di queste azioni che vengono dette battiture e che avvengono intorno ai C.I.E. per mano di persone che vi si avvicinano per portare avanti una lotta politica contro l’apertura di questi luoghi, persone che in qualche modo, insomma, danno solidarietà a chi vi è rinchiuso. Viene richiamata l’attenzione di chi è dentro con dei suoni, per esempio battendo sui pali della luce, si aspetta una risposta dall’interno e quello è il segnale per il lancio delle palline da tennis dentro la struttura. Queste palline hanno un taglio attraverso il quale vengono inseriti dei messaggi con numeri di telefono di legali da chiamare, per esempio, o di persone da avvertire in caso di problemi o di abusi. Insomma per tenersi aggiornati. Allo stesso modo, dall’interno i prigionieri lanciano fuori dei messaggi per le loro famiglie.

    Nello spettacolo le palle da tennis sono molto presenti in diversi modi e in diversi momenti, fino a diventare anche personaggi manovrati violentemente da Croce.

    Nel lavoro scenico ci sono alcune immagini molto forti, di stacco emotivo e visivo: quello della garante è uno di questi, e poi c’è il momento dello spostamento dell’asse geografico sul territorio del conflitto bellico dal quale questi uomini e queste donne fuggono con i loro vecchi e bambini al seguito. È il vero momento della disperazione ricreato in modo davvero efficace.
    Quali sono i tuoi, i vostri riferimenti visivi? Come avete lavorato a queste scene?

    Per me quella cosa lì è una cosa che accade proprio dentro al C.I.E. O meglio, ha dei rimandi al conflitto bellico, in una dimensione che dentro il C.I.E. effettivamente non potrebbe avvenire, però per me quel momento lì è la rivolta dentro il Centro, l’incendio del C.I.E. accompagnato dalle voci dei detenuti, le voci che Croce non ha mai ascoltato e che annunciavano la rivolta dalla quale lei viene travolta.

    C.I.E.

    ph. Nicolò Cecchella

    Tornano nel testo drammaturgico delle parole chiave. Parole ambigue e tanto più violente perché hanno una facciata di bonarietà ma invece nascondono un forte dualismo e una distanza tra il noi e il voi.

    Sì. Ci sono delle parole che abbiamo messo dentro lo spettacolo e che sono il simbolo di questa ambiguità. Ambiguità del luogo, del suo ruolo, delle persone che ci lavorano e della loro missione. Sono le sette parole della Croce Rossa: umanità, neutralità, accoglienza, volontariato, unità, universalità, imparzialità. Sono le parole che identificano la mission della Croce Rossa. Le usiamo perché nel momento in cui le nominiamo sulla scena si chiarisce la loro ambiguità. In quel luogo sono contradditorie al massimo e sono sistematicamente contraddette, tutte.

    Poi ci sono altre parole delle quali dentro lo spettacolo viene sciolta la loro ambiguità: gli ospiti sono i detenuti (è proprio scritto nelle circolari “le persone che sono dentro la struttura non possono essere chiamati “detenuti”, devono essere chiamati “ospiti”); Croce svolge un lavoro lì dentro per il quale percepisce uno stipendio, è assunta da agenzia interinale, ha le ferie, è un lavoro vero e proprio, ma il suo ruolo è di “volontaria”. Quindi una volontaria pagata, un ospite recluso, la garante è una che non garantisce anzi ignora la presenza di quel luogo, l’umanità si traduce nella pratica quotidiana in una disumanità e disumanizzazione reciproca. È infatti un luogo che disumanizza e “fa andare fuori di testa” (queste sono proprio le parole del militare e degli operatori che ho intervistato).

    Croce infatti dice che quello è il luogo dove, se già non lo sei, razzista lo diventi.

    Sì, questa è proprio il fulcro della mia tesi. È un dispositivo che crea le condizioni per il razzismo, che ti mette di fronte delle persone con le quali non puoi avere un dialogo per regolamento. È uno scacchiere in cui ognuno ha la propria posizione, con regole molto precise subisce o agisce con l’oppressione e la disumanizzazione. Il militare mi diceva che per consegna devono guardare a vista queste persone che di fatto non hanno fatto niente. C’è un’esagerazione della forza, lì dentro, pazzesca. Per una visita medica vengono scortate da otto persone, tra militari e operatori. Poi da lavoratore non sai nulla di chi sono queste persone, delle loro storie, da dove vengono. Ce li hai solo già contro, e tu sei contro di loro. È un gioco alla sopravvivenza dove loro corrono e tu li rincorri.

    È proprio una scatola infernale che fa uscire fuori di testa tutti. Il militare mi diceva che loro non potevano rivolgere la parola agli ospiti e non gli si potevano avvicinare a più di due metri. E chi è quello lì a due metri, dietro le sbarre? Insomma è chiaro che si crea quella dimensione negativa. È come organizzare lo scacchiere per la guerra. Quello spazio risignifica quei corpi. Crea una nuova identità che è quella di persone dietro le sbarre, di selvaggi sporchi, non docili, e ti mette nelle condizioni di essere un aguzzino nei loro confronti.

    È una disumanizzazione di persone che non hanno chiesto di essere lì, che non hanno bisogno di essere portate, o che gli venga consegnato il cibo, cioè sono persone che hanno affrontato l’inferno per sopravvivere, per migliorare il loro progetto di vita e si trovano bloccati in un limbo animalesco.

    In Italia al momento della mia ricerca (ora saranno anche di più) erano più di mezzo milione le persone che sarebbero potute finire in un posto del genere. Attualmente sono tredici i C.I.E. in Italia.

    Dopo l’ultima mise-en-scène al Teatro della Contraddizione (Milano), dove porterete questo lavoro nelle prossime settimane?

    Per ora abbiamo una data al Teatro Scientifico di Verona l’11 marzo, poi a Carichi Sospesi a Padova domenica 13 marzo e poi a Rho al Teatro Fornace domenica 3 aprile. Poi ci dovrebbe essere un’altra data, ancora da confermare, a maggio ad Arco intorno alle celebrazioni della Giornata Mondiale del Rifugiato che sarà il 20 giugno.

    Note