Vivere a Londra è un processo simbolico

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    “She came from Greece she had a thirst for knowledge, she studied sculpture at Saint Martin’s College, that’s where I caught her eye. She told me that her Dad was loaded, I said “In that case I’ll have a rum and coca-cola.” She said “Fine.” And in thirty seconds time she said: “I want to live like common people, I want to do whatever common people do, I want to sleep with common people, I want to sleep with common people, like you.” (Pulp, Common People)

    C’è una scena del film cult Trainspotting in cui il protagonista Mark Renton, per ripulirsi dalla droga e dalle cattive compagnie, emigra per un periodo da Edimburgo a Londra. “C’era una sola cosa da fare”, fa dire Danny Boyle al personaggio interpretato da un giovane Ewan McGregor. L’immagine stacca e inizia un susseguirsi di immagini evocative e un po’ stereotipate, dal Doubledecker rosso al Tower Bridge, e poi Hyde Park e Carnaby Street, i cab neri e infine la City. Londra. Il nostro Renton risponde a una telefonata e ci fa apprendere di essere stato assunto come agente immobiliare.

    Una-sola-cosa-da-fare.

    Da un po’ sembra essere diventato un must, “il periodo a Londra”. Una sorta di Erasmus-extended, una fuga esistenziale ed esperienziale che accomuna una pletora di giovani da tutto il mondo, soprattutto italiani, i quali ogni anno con flusso costante piovono nella più importante metropoli europea in cerca di fortuna. Quanto è facile incontrarli in città gli italiani, rumorosi e un po’ insolenti (l’italiano si fa sempre riconoscere, si sa) tanto che per quelli che vivono a Londra da più tempo diventa automatico prendere le distanze e “camuffarsi” tentando di non passare come italiani anch’essi, per rivendicare un’autenticità presunta da emigrato integrato.

    Spesso, altro tratto comune, si emigra in quanto “creativi”: musicisti, designer, artisti di varia forma. Come la protagonista dell’inno generazionale citato a inizio articolo, la canzone Common People dei Pulp, dove una ragazza greca è emigrata a Londra per vivere come una persona qualunque, ingranaggio insostituibile della macchina da sette milioni di abitanti. Emigrata per studiare alla St Martin’s, l’accademia delle arti “alternative”. Alternativo, ecco: appuntiamoci questa parola che tornerà utile.

    Il primo piano del mito di Londra è simbolico, trasfigurativo. Bourdieu forse potrebbe dire “distintivo”. Si emigra perché si cerca un altrove culturale in cui identificarsi. Vivere a Londra è un processo simbolico identificativo di appartenenza sociale e culturale fortissimo. Una rivendicazione da ostentare con orgoglio quasi un po’ snob, come quando torni per le vacanze nella tua piccola città di provincia e conosci un ragazzo, o una ragazza, e speri di fare colpo dicendo “sai, vivo a Londra”. Come se questo significasse “ehi, bellezza, non puoi capire”. E in parte è così, se non fosse che la realtà spesso non coincide con il sogno, che immagini New York e alla fine ti trovi a New Cross.

    E sull’altare del Sacro Graal della creatività capita spesso di trovarsi poi invece a lavorare nei pub e mantenersi l’affitto come si può, lasciando per il tempo libero, la notte e il day off la libertà di sognare. Chi non ha un amico musicista che si è trasferito a Londra per suonare, o per studiare, o entrambi, alzi la mano. Anche la medesima ragazza greca descritta dai Pulp si trova di fronte ad una realtà diversa da quella attesa, dove il vero welfare è la famiglia, come per gran parte dei creativi. Una cosa tipo questa:

    “Rent a flat above a shop, cut your hair and get a job. Smoke some fags and play some pool, pretend you never went to school. But still you’ll never get it right, cos when you’re laid in bed at night, watching roaches climb the wall, if you call your Dad he could stop it all” (Common People, Pulp)

    Userò qui in questo scritto, come potente mezzo di analisi sociologica, la cultura popolare: con questo termine che da noi richiama quasi il folklore e che invece in terra d’Albione si dice Popular Culture e comprende tutto l’insieme esteso dei prodotti della galassia massmediale: musica, film, comunicazione, arte (soprattutto street art). In particolare userò la musica, che di questa città rappresenta il midollo osseo, come ben rappresentato nelle cerimonie di apertura e chiusura dei giochi olimpici del 2012. Londra, dove un’intera via in pieno centro, Denmark Street, è dedicata alla vendita di strumenti musicali. E guardare alla musica risulta molto utile per categorizzare con un piccolo senso cronologico l’articolazione culturale di questo mito, i suoi cambiamenti nel tempo e la sua forma più recente.

    Nel finale di secolo e di millennio Londra ha rappresentato, e ancora rappresenta perfettamente, la natura polisemica del mito. Un significante con una incredibile pluralità di significati. Londra è mito in sé tanto quanto lo è nell’immaginario collettivo di chi non vi risiede e ha pensato, almeno una volta nella vita, di farlo. La musica è la cartina di Tornasole di Londra: quella che ne misura il PH, che sposta davvero la cultura e le sue sottocategorie, definisce la società e i suoi sommovimenti.

    Hanno iniziato i Beatles, erano gli anni ’60: quattro ragazzi normali, con un taglio di capelli innovativo e simbolicamente potentissimo, che ancora oggi non ci si capacita come siano riusciti a rivoluzionare il senso di un’arte in modo così profondo e in pochissimo tempo. Poi sono arrivate le subculture, appunto. I Mods, rappresentati dagli Who e da uno stuolo di altre band non così grandi, immortalati ad imperitura memoria nel mitico film-album Quadrophenia. Per chi se li fosse dimenticati, descrizione del Mod: parka (per quelli che non sanno cosa sia un parka: un modello di impermeabile tendenzialmente lungo, affusolato e stretto), capello a caschetto, vestito elegante e scarpe alla moda. “Vivere pulitamente in circostanze difficili”, recita l’aforisma che caratterizza questa subcultura. È così British, dannazione.

    D’un fiato, tralasciando (non ce ne vogliano) Teddy Boys e Rockers, ecco il movimento Punk: altra rivoluzione. “Punk” che significava semplicemente “da due soldi”; un movimento che per quanto sia nato musicalmente negli Stati Uniti, è a Londra con i Sex Pistols e poi i Clash che ha trovato ragion d’essere e riconoscimento internazionale, caratterizzandosi per uno stile di vita che rifiutava il perbenismo e ne accentuava il ridicolo attraverso abbigliamenti eccessivi, vestiti strappati, capelli colorati o “creste”. Quei Clash autori di London Calling che oggi è un elemento fortissimo nell’iconografia sonora del mito di Londra. È “colpa” loro se le bacheche di Facebook vengono inondate da link alla canzone o al suo titolo ogniqualvolta si intraprende un viaggio verso Londra.

    Il punk è stato un impianto narrativo talmente forte da essere il terreno perfetto su cui si è innestata con successo, secondo Stuart Hall, la susseguente ondata perbenista e conservatrice rappresentata da Margaret Thatcher, capace da un punto di vista culturale di incarnare la paura della upper middle class inglese di fronte alle subculture e canalizzarla in quell’ideologia che chiamiamo neoliberale o, in Italia, neoliberista. Qualcosa che forse in Italia non conosciamo appieno. Segnatevi anche questo, che ci torniamo tra poco.

    L’epoca della Thatcher (ma non il neoliberismo, una sottolineatura importante) termina verso la metà dei ’90 quando il New Labour guidato da Tony Blair vince le elezioni (anche) sull’onda del movimento subculturale (un altro) che chiamiamo Cool Britannia. Qui l’identificazione con la musica è pressoché totale: è qui che si colloca l’ondata di brit pop capitanata da Oasis e Blur, non a caso tra i principali sostenitori di Blair in quel periodo, capaci di vendere milioni di copie quando la musica si comprava ancora.

    Un’ondata, quella di Oasis e Blur, che ha restituito ai britannici l’orgoglio di essere tali, nella sfacciataggine tipica dell’essere giovani. E che ha dato origine a una progenie di replicanti tipo l’agente Smith del film Matrix, emuli stilisticamente e culturalmente soprattutto dei primi, così abbigliati: parka (che riprende la scena mod), felpa e sneakers (che fanno tanto working class). Da lì vengono anche i Pulp qui citati. E qui arriviamo anche noi, perché è in questo movimento che si trova la ragion d’essere di questo mito che non accenna ad affievolirsi.

    Se ci facciamo seri un attimo, infatti, non possiamo non rilevare che questa Cool Britannia altro non è che il risultato socio-culturale dell’enfasi verso il successo individuale e “l’emergere” di stampo neoliberista portato avanti dalla Thatcher in modo elitario e ora “democratizzato” ed esploso nelle arti e in quelle che chiamano “industrie creative”, che hanno avuto un vero e proprio boom in quegli anni anche e soprattutto a Londra, tanto da far dire a Richard Florida di essere di fronte ad un’era di progresso portata avanti dalla classe creativa. Non è andata così. Quello che è rimasto è l’impronta socio-culturale dell’individualizzazione e del brand che dall’abbigliamento è ormai passato alle persone, le quali devono essere sempre più cool e popolari, conosciute e di successo, per qualcosa e non importa che cosa. Il neoliberismo, appunto.

    I creativi, di cui si diceva prima.

    La cosa bizzarra è che questo processo di individualizzazione nei fatti è stato al contrario un processo di omologazione per via “alternativa”. Quella “via alternativa” che ha origine nella ripresa dell’indie rock suonato negli scantinati, quattro accordi e molto casino, e che coincide con la rinascita e la gentrification della parte est della città. È la subcultura hipster, in altre parole. Movimento “alternativo” che rappresenta poi la fine del concetto stesso di alternativo, avendo coinciso sostanzialmente con la diffusione modaiola dell’alternativo che per essere tale riprende gli stilemi di fine ’70 e inizio ’80 in forme più o meno estrose. Descrizione dell’hipster: pantaloni risvoltati, cardigan, capello rasato in basso e folto in cima, camicie a quadri, maglioni vintage, occhiali, baffi e/o barba e quello sguardo un po’ disordinato un po’ dannato da “ho appena fatto sesso” (che poi si fa poco, in realtà). Per distinguersi sono generalmente portati ad ascoltare band o artisti che nessuno conosce, e a disconoscere i medesimi appena li ritrovano su MTV.

    In un certo senso, dagli emuli di Liam Gallagher e Damon Albarn si è ben presto passati agli emuli di Pete Doherty con la differenza che le due categorie si sono mescolate creando un prodotto da esportazione che vediamo anche nelle nostre strade e piazze, in particolare a Milano. Ma definirlo “alternativo” non ha più senso. Questo fenomeno è infatti ormai diventato “di moda” e risulta essere un modo di distinzione e definizione sociale, rivisitando ancora Bourdieu, non tanto subculturale quanto neoliberale. In altre parole, chi può dirsi alternativo se tutti sono alternativi? Se essere strani è normale, e se tutti siamo strani, chi è strano?

    Questo modo di essere è ormai esportato su scala internazionale. Cosa non abbiamo ancora importato sono le ragazze in coda fuori dai locali, seminude a Dicembre come fosse una sera di Maggio. E ancora, nemmeno quella pub culture che da noi si annacqua nell’espresso al banco del bar e nel rito dell’aperitivo. Che però anche tu, italiano di provincia, appena entri in un pub riconosci inconfondibile quell’odore di legno intriso di birra che pervade questi luoghi di condivisione. E poi fa così cool postare su Instagram le foto dal pub.

    Londra e il suo mito sembrano essere il baricentro di un fenomeno prettamente europeo e nello specifico molto italiano che potremmo chiamare Londonizzazione: una globalizzazione del mito di questa città dove si può incontrare qualunque tipo di abbigliamento e di stile, anche il più estremo, senza incorrere nello sguardo di biasimo del vicino di posto in metropolitana. Anche se, poi, chi può dire che dentro di sé il vostro vicino di posto non stia sorridendo? Anche perché magari è italiano.

    (Ah, la metropolitana, la cara vecchia Tube. Così mitologica che non ne abbiamo ancora parlato. Altra protagonista indiscussa delle foto delle vacanze quando, per chissà quale afflato simbolico o di marcamento del territorio, i turisti sono portati a fotografarsi compulsivamente di fianco ai cartelli delle stazioni. Chi non l’ha fatto?).

    Cosa resta del mito di Londra, quindi, che si può trovare solo qui? Resta, forse, il calcio. Quel modo di vivere il calcio come aggregazione sulla base di una rigida stratificazione sociale, per cui ci sono le squadre working class, quelle middle class e quelle upper class. Il calcio che è uno dei motivi di pellegrinaggio più frequenti, dal momento che a Londra vivono una dozzina di squadre professionistiche, divise per quartieri (e da qui la stratificazione sociale: Chelsea, Arsenal, Tottenham, Fulham, West Ham, Watford, Queen’s Park, Crystal Palace e molte altre). Una forma di mito descritta benissimo da Nick Hornby nel libro Febbre a 90, e si collega al discorso della pub culture di cui sopra, un rito collettivo – la visione della partita al pub – per nulla assimilabile a quella al bar di italica pratica. La differenza è la seguente: in Italia siamo tutti allenatori, e guardare la partita al bar è una specie di riunione tecnica in cui i presenti snocciolano tattiche e predicono cambi con approccio scientifico. Nel pub, niente di tutto questo: in maggioranza troverete irripetibili insulti ai giocatori. Immediatamente beatificati, i medesimi, dopo aver fatto gol. E poi c’è il cibo inglese, nei pub: e non è vero che la cucina inglese non esista, con buona pace di Tony Blair e del suo Chicken Tikka. E in fondo la jacket potato non è poi così male.

    PS: Non ci siamo dimenticati della pioggia. La mitica pioggia inglese. È che ci spiace deludervi, ma a Londra non è vero che piove sempre. È una leggenda metropolitana. Ditelo ai vostri genitori, quando li sentite su Skype. Anche se non ci crederanno.

    “Sing along with the common people, sing along and it might just get you through,
    laugh along with the common people, laugh along even though they’re laughing at you,
    and the stupid things that you do. Because you think that poor is cool.” (Pulp, Common People)

    Precedentemente uscito in Miti 2.0 a cura di Societing

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